Anni venti e trenta

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Anni venti e trenta

Gli anni Venni e Trenta

Per le dimensioni e per la potenza annientatrice dispiegata sui campi di battaglia come sui luoghi della vita civile, la guerra del 1914-18 rappresentò un punto di rottura rispetto al passato.
Quattro grandi imperi che avevano costituito dei punti cardine della politica ottocentesca – russo, austro-ungarico, tedesco e ottomano – si dissolsero, dando luogo a una serie di Stati repubblicani e a un conseguente aumento di circa ventimila chilometri dello sviluppo delle frontiere in Europa. L’assetto delle aree centro-orientale, baltica e balcanica fu profondamente trasformato.
L’Europa era priva di un vero e proprio equilibrio.

  • Vennero formati numerosi staterelli (il “cordone sanitario” attorno alla Russia comunista: Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania e Polonia, che fungeva anche da cuscinetto anti-tedesco).
  • Le condizioni imposte ai paesi vinti nei trattati di pace erano state durissime. Il grande economista Keynes aveva invano cercato di mettere in guardia i Paesi vincitori contro il pericolo di clausole economiche troppo onerose; chiedere riparazioni di guerra eccessive non avrebbe fatto altro che : 1) alimentare nuovamente spiriti di rivalsa; 2) mantenere forti divisioni tra gli Stati; 3) impedire la ripresa economica nei paesi vinti, con un conseguente squilibrio economico in tutta Europa. Alla fine non c’era stato nulla da fare, tanto che K. aveva definito la Conferenza di Parigi una “sfida alla giustizia e al buon senso”.
  • La borghesia di tutta l’Europa era in allarme dinanzi al forte richiamo della Russia comunista bolscevica (spostamento a destra della borghesia); questo portò molti Stati europei a un orientamento “dirigista” e autoritario, e all’utilizzo delle correnti nazionaliste contro riformisti e rivoluzionari
  • La Società della Nazioni, appena fondata, si dimostrò subito strumento inefficace per mantenere l’equilibrio pacifico. Lo stesso trattato di Locarno (1925), nel quale – sotto la garanzia di Gran Bretagna e Italia – Francia, Belgio e Germania si impegnavano a non violare le comuni frontiere, e gli stessi negoziati internazionali per attuare realmente una politica di disarmo, non si risolsero che in un vuoto scambio di parole e promesse.

Le conseguenze della prima guerra mondiale in Italia

Una vittoria o una sconfitta?
L’Italia aveva vinto la guerra (insieme all’Intesa) ma la vittoria era costata molto. Cosa aveva ottenuto l’Italia vincendo la guerra, cosa aveva guadagnato? Pochissimo! Anzi, ne era uscita in grave crisi sia economica che politica.

Le richieste che l’Italia aveva fatto nel Patto di Londra (in caso di vittoria) erano state:

  • Trento e Trieste (regioni italiane per tradizione e cultura)
  • la Dalmazia (fino all’Albania).

Non si diceva nulla, invece, della città di Fiume.

Finita la guerra la città di Fiume comunicò di voler far parte del Regno d’Italia. Alla Conferenza di pace di Parigi i delegati italiani chiesero, oltre Trento e Trieste:

  • la Dalmazia (in nome del Patto di Londra: ma l’impero austo-ungarico era stato completamente distrutto, e la Dalmazia adesso faceva parte della Jugoslavia – ed era un territorio di cultura slava)
  • Fiume (in nome del principio di nazionalità: Fiume era di cultura italiana e, per questo, doveva far parte dell’Italia)

Gli Alleati e soprattutto il presidente americano Wilson rifiutarono queste richieste. Perciò i delegati italiani abbandonarono la Conferenza per protesta. Ma fecero comunque male: la Conferenza continuò regolarmente, e senza l’Italia, che così non ottenne praticamente nulla.

Per questo Gabriele D’Annunzio parlava di “vittoria mutilata” (un trionfo, sì, ma senza alcun guadagno). D’Annunzio però non si limitò a parlare: nel 1919 formò un esercito di 9000 uomini e occupò militarmente Fiume.

La situazione economica

La situazione economica in Italia dopo la guerra era assai problematica.
Infatti:

  • La produzione stentava a riprendere dopo la guerra;
  • la disoccupazione era in aumento
  • il debito pubblico era pauroso
  • la lira si era svalutata ed era perciò assai alta l’inflazione

La situazione della società italiana

  • solo gli industriali si erano arricchiti durante la guerra;
  • i ceti medi si erano impoveriti ed erano scontenti e frustrati;
  • tra gli operai, invece, girava l’idea di fare “come in Russia”, cioè di mettere in atto una rivoluzione socialista; per questo nelle fabbriche c’era molta agitazione;
  • ma anche nelle campagne la situazione non era tranquilla: i contadini occuparono con la forza molte terre in varie regioni italiane (dicendo che il governo aveva promesso loro quelle terre in tempo di guerra, e perciò le volevano, in un modo o nell’altro)

 

Politica interna: nasce il Partito Popolare Italiano (PPI)
Nel 1919 nasce il PPI: con questo partito i cattolici entrano, e da protagonisti, nella politica italiana.
Giolitti, nel 1912, aveva introdotto un suffragio semi-universale. Per questo si temeva che i socialisti avrebbero vinto in modo molto netto nelle vicine elezioni; ecco che per  contrastare le forze socialiste il Papa permise ai cattolici di formare un loro partito. Il leader del PPI fu don Luigi Sturzo.
Sturzo però non voleva farsi votare solo dai cattolici, ma da tutti. Sturzo voleva che il suo partito fosse:

  • aconfessionale (voleva ispirarsi ai valori cattolici, ma il suo doveva essere un partito democratico che si preoccupava dei problemi e delle esigenze di tutti)
  • interclassista (non voleva che una classe sociale dominasse sulle altre)

Politica interna: i fasci di combattimento di Mussolini
Nel marzo 1919 Mussolini fondò a Milano i “fasci di combattimento”. Egli, ex socialista poi espulso dal partito per le sue posizioni estremiste, si allineò dietro un miscuglio poco coerente di idee nazionaliste, prima cercando punti di contatto nei movimenti operai, poi legandosi agli interessi capitalistici, secondo una linea opportunistica (comunque sempre in opposizione alla classe dirigente liberale).

L’occupazione delle fabbriche
Gli operai italiani aspettavano la rivoluzione socialista anche in Italia, una rivoluzione sul modello di quella russa. Ma, mentre questi lavoratori volevano passare subito all’azione, il PSI frenava e suggeriva di stare calmi.
Tra il 1919 e il 1929 (“biennio rosso”) vi fu un periodo di scioperi che culminò nel settembre 1920, quando gli operai occuparono le fabbriche (in numerose città, ma soprattutto a Torino e Milano). Tra la borghesia fu il panico (i borghesi ovviamente temevano che prendesse davvero avvio una rivoluzione). Cosa fece il PSI? Niente! E questa fu una grande sconfitta per i lavoratori, che uscirono da questa esperienza disorientati e disillusi (pensavano infatti che il PSI avrebbe appoggiato l’occupazione per trasformarla in rivoluzione).

Il liberalismo in crisi
Al governo Orlando, caduto nel giugno 1919 per non aver ottenuto i risultati sperati alla Conferenza di Versailles, fece seguito un gabinetto presieduto da Francesco Saverio Nitti (giugno 1919-giugno 1920), caratterizzato dalle elezioni del novembre 1919 vinte da socialisti (31,6% dei voti) e popolari (20,35%). Nel 1920, Giolitti subentrò a Nitti (giugno 1920-luglio 1921). Toccò a lui superare la difficile fase del “biennio rosso” e stipulare il Trattato di Rapallo (12 novembre 1920) che pose fine alla vicenda fiumana (Fiume fu dichiarata “città libera” e D’Annunzio fu cacciato dallo stesso esercito italiano). L’Italia annetterà comunque Fiume nel 1924.

Politica interna: le divisioni del PSI
Nel 1921, a Livorno, l’ala sinistra del PSI decise di separarsi (ritenevano che solo l’indecisione del partito di fronte alle manifestazioni operaie avesse impedito l’avvio della rivoluzione; volevano inoltre cacciare dal partito, come voleva Lenin, l’ala riformista) e diede vita al Partito comunista d’Italia (Gramsci, Bordiga).
Da quel che restava del PSI, nel 1922, si separò poi l’ala riformista (che aveva tentato un’alleanza con Giolitti), che fondò il Partito Socialista Unitario (PSU), guidato da Filippo Turati e Giacomo Matteotti, e composto anche da Claudio Treves, Giuseppe Saragat e Sandro Pertini.

Giolitti, come al solito, non intervenne per bloccare queste manifestazioni e rivolte operaie. Fece bene, perché in poche settimane la situazione si calmò. Ma gli industriali non furono contenti di Giolitti: avrebbero voluto difatti un intervento deciso e armato.

 

Fonte: http://www.sdstoriafilosofia.it/download/VB/Le%20conseguenze%20della%20prima%20guerra%20mondiale%20in%20Italia.docx

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