Stato moderno

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Stato moderno

Le nuove teorie dello stato

La rifondazione laica e razionale della cultura. Il metodo cartesiano ha contribuito a una vera e propria rifondazione laica e razionale della cultura, che ha dato i suoi frutti più vistosi nella “rivoluzione scientifica”, ma non solo. Essa infatti ha prodotto nelle classi colte del tempo un nuovo modo di vivere e di vedere le cose, che vennero via via sottratti ai condizionamenti filosofico-religiosi che li avevano pesantemente influenzati nei secoli precedenti. Ciò ha consentito di sottoporre a revisione molti aspetti della vita associativa, che cominciarono a essere indagati alla luce del pensiero razionale.
Il giusnaturalismo come affermazione dei diritti naturali. È proprio grazie al razionalismo laico che nel XVII secolo si diffuse la ricerca di una teoria dello Stato in grado di creare le condizioni di una equilibrata società civile senza fare ricorso al concetto religioso dell'origine divina del potere, ma basandosi esclusivamente sull'uomo e sulle sue esigenze. Una delle dottrine che più influenzò il dibattito politico-filosofico dell'epoca fu il giusnaturalismo (dal latino ius naturale, diritto di natura), che sostiene l'esistenza nell'uomo, fin dalla nascita, dei cosiddetti “diritti naturali”, che precedono le pubbliche leggi e i diritti da tali leggi istituiti. I “giusnaturalisti” intendono laicizzare l'idea dello Stato e legare l'attività dei legislatori ad alcuni princìpi universali. Per essi, infatti, i “diritti naturali” costituiscono l'unico concreto fondamento di ogni diritto positivo, ossia di ogni attività legislativa dello Stato.
La teoria del contratto sociale. Secondo i giusnaturalisti lo Stato non costituirebbe un organismo naturale, ma solo artificiale, in quanto creato e voluto liberamente dagli uomini, al fine di poter salvaguardare i diritti naturali, che altrimenti, senza la forza coercitiva dello Stato, non verrebbero riconosciuti e tutelati. Spinti da questa preoccupazione, gli uomini avrebbero stabilito liberamente fra loro un vero e proprio “contratto sociale”, al fine di poter convivere in maniera ordinata e armoniosa. Con questo patto essi decidono di rifiutare lo “stato di natura”, inteso come quel modo originario di esistere, in virtù del quale ognuno si sente autorizzato ad agire in piena libertà, anche a danno di tutti gli altri. Associandosi mediante un contratto, infatti, gli uomini rinunciano a farsi giustizia da sé per rimettersi al giudizio di un'autorità superiore, lo Stato appunto. Ne consegue che lo Stato sorge non più per volontà divina, né per volontà della natura, ma solo per una libera convenzione umana codificata con un patto sociale.
Elaborate per la prima volta dal tedesco Huig de Groot, detto latinamente Ugo Grozio (1583-1645), tali teorie vengono spinte al punto da giustificare la formazione di uno Stato assoluto e dispotico da parte dell'inglese Thomas Hobbes (1588-1679), anche se più di frequente i “giusnaturalisti” finiscono per giungere a teorie contrarie all'assolutismo e quindi a rivendicare una limitazione del potere politico regio. Vedremo in seguito come in Inghilterra l'assolutismo regio trovò il suo fondamento teorico proprio nel pensiero di Hobbes, il quale esercitò una profonda influenza nella travagliata epoca compresa tra la dittatura di Cromwell e la restaurazione degli Stuart.


Assolutismo/Liberalismo,
Monarchia assoluta/Monarchia parlamentare-costituzionale.
Bousset, Hobbes, Locke.

Le opposte teorie di Bossuet e di Locke sull'assolutismo. La teoria dello Stato assoluto elaborata da Hobbes venne acquisita dalla cultura cattolica e in Francia finì ben presto per trasformarsi nell'esaltazione della monarchia assoluta per diritto divino, il cui massimo sostenitore fu il vescovo Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704), il quale teorizzò una incondizionata subordinazione al monarca in quanto voluto da Dio e da Dio protetto, al punto che ogni eventuale resistenza al potere regio finiva per equivalere in tutto e per tutto a una resistenza al potere divino.
Contro i teorizzatori dell'assolutismo si schierarono però coloro che tendevano a mutare in senso liberale la nozione hobbesiana del “contratto”: tra essi spicca un altro filosofo inglese, John Locke (1632-1704).

Jacques Bénigne Bossuet, La politica secondo la Sacra Scrittura, 1670
"Dio stabilisce i re come suoi ministri e regna per mezzo loro sui popoli. I principi agiscono quindi come ministri di Dio e suoi luogotenenti sulla terra. È per mezzo di loro che egli esercita il suo impero. Per questa ragione abbiamo visto che il trono regio non è il trono di un uomo, ma il trono di Dio stesso.
Appare da tutto ciò che la persona dei re è sacra, e che attentare alla loro persona è sacrilegio. Dio li fa ungere dai suoi profeti di una unzione sacra, come egli fa ungere i pontefici e i suoi altari. Ma pure senza l'applicazione esteriore di questa unzione, essi sono sacri per la loro carica, quali rappresentanti della maestà divina, deputati dalla Provvidenza all'esecuzione dei suoi disegni.
John Locke, Due trattati sul governo, 1690
"Sebbene in una società politica costituita, che poggi sui propri fondamenti e deliberi secondo la propria natura, cioè a dire in vista della conservazione della comunità, non vi possa essere che un solo potere supremo, ch'è il legislativo, al quale tutti gli altri sono e devono esser subordinati. Tuttavia, poiché il legislativo non è che un potere fiduciario di deliberare in vista di determinati fini, rimane sempre nel popolo il potere supremo di rimuovere o alterare il legislativo, quando vede che il legislativo delibera contro la fiducia in esso riposta. Infatti, poiché ogni potere, conferito con fiducia per il conseguimento di un fine, è limitato da questo fine medesimo, ogni qualvolta il fine viene manifestamente trascurato o contrastato, la fiducia deve necessariamente cessare, e il potere ritornare nelle mani di coloro che l'hanno conferito, i quali possono nuovamente collocarlo dove meglio giudicano, per la loro tranquillità e sicurezza. È così che la comunità conserva sempre il potere supremo di preservarsi dagli attentati e dalle intenzioni di chicchessia, anche dei suoi legislatori, ogniqualvolta questi siano così insensati o perversi da concepire e perseguire intenzioni contrarie alle libertà e proprietà dei sudditi. Infatti, poiché nessun uomo e nessuna società di uomini ha il potere di rimettere la propria conservazione, e, conseguentemente, i mezzi di essa, alla volontà assoluta e al dominio arbitrario di un altro, ogni volta si tenti di ridurli in stato di schiavitù, essi avranno sempre il diritto di conservare ciò di cui non hanno potere di disfarsi, e di liberarsi di coloro che hanno violato questa legge fondamentale, sacra e immutabile, dell'autoconservazione, per la quale sono entrati in società.
Hobbes: meglio un regime autoritario di una rivoluzione
Secondo Hobbes, allo stato di natura prevale il diritto del più forte e pertanto la vita degli uomini risulta caratterizzata da un permanente conflitto (homo homini lupus, "l'uomo è lupo per gli altri uomini") che ne minaccia l'esistenza. Essi cercano quindi di sfuggire a tale pericolo rinunciando ai propri diritti e delegando con un "contratto sociale" tutto il potere a un solo uomo, perché li governi e procuri loro la pace. Così ogni forma di potere autoritario e assoluto, e quindi anche quello regio, secondo Hobbes, non trae più origine da Dio, bensì dalla volontà del popolo, che ha ceduto al sovrano la propria libertà e gli si è sottomesso con un atto irrevocabile, trasformandosi in un obbediente insieme di sudditi e rinunciando persino al diritto di liberarsi di lui e della sua autorità, anche se degenerata nel dispotismo. Infatti per Hobbes i danni arrecati anche dal più rigido autoritarismo finiscono sempre per essere decisamente meno gravi rispetto a quelli derivanti da una rivoluzione.
Locke: meglio una rivoluzione di un regime autoritario
Pur sostenendo lo stesso principio di Hobbes, secondo il quale è il popolo l'unica fonte della sovranità, Locke ritiene che la delega del potere sia un atto revocabile. Nella sua opera fondamentale, Trattato sul governo civile (1690), egli mostra come la sovranità resti sempre prerogativa esclusiva del popolo, il quale, quando affida il potere al sovrano, lo fa senza rinunciare ai propri insopprimibili diritti di libertà, di uguaglianza, di proprietà e di rispetto per le persone. Per questo Locke non solo esige che i poteri dello Stato - legislativo, esecutivo e giudiziario - rimangano chiaramente distinti e siano esercitati da organi del tutto autonomi, ma anche che sia riconosciuto al popolo il pieno diritto di allontanare il sovrano diventato tiranno, facendo ricorso, se necessario, persino alla rivoluzione. Questa conclusione, unita alla netta distinzione fra potere legislativo ed esecutivo, costituisce la più avanzata espressione del liberalismo politico del tempo.
Il fondamento teorico dell'assolutismo: Hobbes. Nel frattempo l'assolutismo andava riprendendo nel Paese nuova dignità e nuovo fondamento teorico a opera del filosofo Thomas Hobbes (1588-1679), il quale finì ben presto per esercitare una profonda influenza nella travagliata epoca compresa tra la dittatura di Cromwell e la restaurazione monarchica. Hobbes era convinto che l'uomo, per natura, avesse diritto di godere di ogni cosa e che fosse mosso solo dall'egoismo. Se però ciascuno si abbandonasse al soddisfacimento dei propri desideri e al godimento dei propri diritti, si entrerebbe in una situazione di caos, in cui tutti sono in guerra contro tutti: da qui la necessità di un intervento regolatore dello Stato, che è frutto di un libero patto tra gli uomini, persuasi che sia preferibile sottostare all'egoismo di un solo governante che all'anarchia.
Il fondamento teorico del liberalismo: Locke. È interessante a questo punto ricordare che, come l'assolutismo regio e la restaurazione degli Stuart avevano avuto il loro teorico in Thomas Hobbes, così la “gloriosa rivoluzione” del 1688 e le successive riforme costituzionali introdotte da Guglielmo III d'Orange trovarono a loro volta sostegno nel pensiero di un altro filosofo inglese, John Locke (1632-1704), convinto che la società si debba basare sulla tutela e garanzia dei diritti naturali (alla libertà, alla vita, alla proprietà, all'autodifesa), e non sulla loro soppressione. Tali diritti rappresentano infatti per Locke un limite all'esercizio della sovranità dello Stato: se esso infatti non li rispetta, il contratto tra sovrano e cittadini viene meno ed essi hanno il diritto di ribellarsi. A suo avviso, infatti, il sovrano detiene il potere solo per delega temporanea e solo fintantoché egli si attiene alle finalità per le quali il potere gli è stato concesso, cioè la difesa dei diritti naturali; si tratta quindi di un potere circoscritto da limiti precisi, che non possono essere in alcun modo superati a danno della libertà dei cittadini.


La concezione moderna dello Stato
Lo Stato accentrato e le sue funzioni. Le nuove elaborazioni teoriche sullo Stato messe a punto nel Seicento contribuirono a portare a compimento quel processo di affermazione dello Stato che si era delineato nel Cinquecento, in seguito a un lungo periodo caratterizzato da accorpamenti territoriali e da un progressivo accentramento del potere. Si definì in tal modo quella forma di struttura politica che è giunta fino ai nostri giorni e che vede una popolazione, residente su un territorio circoscritto da confini precisi, governata da un'autorità centrale unitaria, capace di emanare e fare rispettare le leggi attraverso una rete capillare di burocrati (pubblica amministrazione), ma anche attraverso l'uso della forza (polizia, esercito), di cui essa stessa è la sola a detenere legittimamente il monopolio. Tale istituzione, detta Stato, svolge una serie di funzioni che le permettono di controllare tutti gli ambiti della vita sociale, secondo i principi - le ideologie, gli orientamenti politici - di chi ne detiene il comando. Diventa importante quindi a questo punto cercare di capire come si è arrivati ad una siffatta forma di struttura politica e quale è stato il pensiero teorico che ne ha favorito l'affermazione. È infatti proprio in questo XVII secolo che si comincia a riflettere sullo Stato e sulla sua legittimità, nonché sul concetto di sovranità, intesa come autorità su cui tutti indistintamente sono tenuti a obbedire, senza privilegio di censo o di casta: su questa idea, del tutto rivoluzionaria per quell'epoca, si fonda l'attuale concezione di convivenza civile e di organizzazione statale.
Il principio della sovranità statale. Dobbiamo però tenere anzitutto presente che le funzioni, che configurano la sovranità statale, non si identificano solo con un re o con un autocrate, in quanto le può detenere anche un'assemblea elettiva (parlamento), come accade ai nostri giorni in buona parte degli Stati contemporanei. Nel Seicento, comunque, tali funzioni vengono accentrate nelle mani di monarchi assoluti, i quali le sottrassero progressivamente agli altri centri di potere - la Chiesa, la nobiltà feudale e le città - che nel corso del Medioevo avevano contrastato la formazione di un'autorità centrale. Per esercitare il suo potere assoluto, quest'ultima trova sostegno in tre principali istituzioni, l'esercito, la burocrazia e la finanza. È infatti nel Seicento che cominciarono a essere organizzati gli eserciti statali permanenti, posti alle dirette dipendenze del sovrano, il quale riesce a indebolire il ruolo militare della nobiltà smantellandone progressivamente le forze armate e le roccaforti. A favorire questo processo contribuirono anche i cambiamenti delle tecniche militari indotti dalle armi da fuoco, che determinarono la crescita di importanza dell'artiglieria e della fanteria a scapito della cavalleria, l'arma di pertinenza della nobiltà. Accanto ai grandi eserciti vennero inoltre formate flotte dalle dimensioni sempre più significative, destinate a proteggere i crescenti traffici marittimi e a sorreggere i piani di conquista coloniale, che aprirono nuovi fronti di guerra tra le potenze europee nei territori extraeuropei.
Gli strumenti dello Stato: burocrazia, sistema fiscale, polizia ed esercito. L'altro fondamentale pilastro dello Stato assoluto, la burocrazia, trovò la sua ossatura in una stabile gerarchia di funzionari statali regolarmente stipendiati, nominati e licenziati dal re con il compito di far rispettare le sue leggi e di garantire la convivenza in una società, che stava diventando sempre più differenziata e articolata. Gli impiegati pubblici - magistrati, funzionari doganali, ispettori di polizia, ecc. - assunsero un notevole potere e un prestigio crescente, tanto da formare la cosiddetta “nobiltà di toga”, destinata a rivaleggiare con la “nobiltà di spada”, l'aristocrazia terriera.
Per finanziare il loro esercito e la loro burocrazia i monarchi assoluti avevano bisogno di un flusso costante di denaro e a tal fine crearono un capillare sistema fiscale in grado di tassare in modo regolare tutta la popolazione, che vedeva spesso i nuovi obblighi fiscali statali andare ad aggiungersi ai prelievi esercitati tradizionalmente dai proprietari terrieri e dalla Chiesa.
L'accentramento di queste diverse funzioni (difesa interna ed esterna, organizzazione burocratica e prelievo fiscale) divenne la prerogativa dello Stato assoluto, che rappresentò la novità istituzionale del Seicento.

 

Fonte: http://sandroarcais.altervista.org/Quarta_Storia_StatoModerno.doc

Sito web da visitare: http://sandroarcais.altervista.org

Autore del testo: non indicato nel documento di origine

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