Illuminismo appunti

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Illuminismo appunti

L’ILLUMINISMO

LE PREMESSE DELL’ILLUMINISMO
Nel corso del XVIII secolo avvennero importanti trasformazioni non solo nelle strutture economiche e sociali, ma anche nella cultura e nella mentalità dell’uomo europeo. Queste trasformazioni culturali furono preparate dalla moltiplicazione dei mezzi di comunicazione delle idee: la diffusione dei libri a stampa, dei  periodici e dei giornali si intensificò grandemente nel corso del Settecento. Le tipografie aumentarono la tiratura delle pubblicazioni e produssero libri di formato più maneggevole e di costo più modesto per raggiungere un pubblico sempre più vasto. Infatti nelle città ormai anche i ceti artigiani erano alfabetizzati (solo gli abitanti delle campagne e i braccianti, che comunque costituivano ancora la maggior parte della popolazione, non erano raggiunti dalla parola scritta).
C’è anche da notare che, mentre i libri del Seicento  erano per lo più di argomento religioso, nel secolo XVIII le pubblicazioni trattano soprattutto di scienza, di letteratura, di filosofia, di economia ...
Questa situazione favorì l’affermazione, dapprima in Francia e in Inghilterra, e poi in tutta Europa, di una nuova cultura, di una nuova concezione del sapere, definita “illuminista” dagli stessi intellettuali che contribuirono a fondarla e a diffonderla.

LA RAGIONE DELL’ILLUMINISMO
Gli intellettuali del XVIII secolo si autodefinirono “illuministi” perché ritenevano di portare finalmente la luce della ragione all’umanità dopo secoli di tenebre e di oscurantismo.  Fuor di metafora, gli Illuministi con l’uso libero e spregiudicato della ragione volevano liberare l’umanità dai pregiudizi filosofici e morali, dalle superstizioni religiose, dalle credenze acritiche, dai vincoli assurdi della tradizione, dalle tirannie politiche, dai rapporti disumani, dall’ignoranza.
Essi avevano una fiducia assoluta nella ragione umana: erano convinti che l’uomo, seguendo esclusivamente la sua ragione, avrebbe potuto trasformare il mondo e migliorare progressivamente le condizioni materiali e spirituali dell’umanità.   La filosofia illuminista era ottimista e progressiva: credeva in un progresso continuo e ininterrotto dell’umanità, e in ciò si manifestava veramente come espressione culturale e ideologica della borghesia in ascesa.
Ma quale idea di ragione hanno gli Illuministi?
La ragione esaltata nell’Illuminismo non è la stessa che fu valorizzata nel Medioevo o nel Rinascimento; la ragione illuminista è una ragione “empirica”, perché è limitata e controllata dall’esperienza; è quindi la stessa ragione che Galilei aveva posto a base della ricerca scientifica e che procedeva per “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni” (cioè esperimenti e leggi matematiche).
Tuttavia gli Illuministi, a differenza di Galilei (e degli altri protagonisti della rivoluzione scientifica del Seicento), pretendono di applicare questa ragione “empirica” non solo ai fatti della natura, ma a tutta la realtà, compresa la dimensione “spirituale” dell’uomo (storia, morale, politica, religione ecc.).   Tutto ciò che non può essere compreso e giustificato dalla ragione sperimentale o “empirica” vien considerato falso o inesistente.  Qui sta la differenza fondamentale tra gli Illuministi e gli scienziati del Seicento: Galilei e Newton non avrebbero mai pensato di sottoporre a una verifica sperimentale i fenomeni religiosi, morali, politici...  Galilei non pensava che il metodo scientifico potesse applicarsi a Dio, alla Bibbia, alla morale ecc.
Invece gli Illuministi vogliono sottoporre alla critica della ragione sperimentale tutto ciò .che riguarda l’uomo: la sua fede religiosa, i suoi comportamenti, le leggi morali, le istituzioni politiche, l’arte ecc.
La ragione illuminista è ragione “empirica” o sperimentale anche in un altro senso: essa non è tanto interessata alla conoscenza dei principi primi della verità, quanto piuttosto alle conseguenze pratiche di una certa dottrina, ai risultati di una teoria che devono essere utili, benefici per l’umanità. Da ciò deriva ovviamente un grande entusiasmo per la scienza e, ancor più, per la tecnica che permette di ricavare vantaggi materiali dalla conoscenza scientifica.
Ma per la felicità terrena dell’uomo non sono meno importanti le scienze che riguardano la vita associata (morale e politica): e infatti l’illuminismo ha dato i suoi frutti più importanti e duraturi proprio nel campo della filosofia politica.
Vediamo ora, settore per settore, come si esplica e quali risultati raggiunge la critica illuminista.

 

L’ATTACCO DELL’ILLUMINISMO ALLA “SUPERSTIZIONE” DELLE RELIGIONI POSITIVE
Occorre premettere che dalla seconda metà del Seicento il problema religioso della salvezza eterna non era più sentito in modo così intenso e drammatico come nei secoli precedenti. La divisione della cristianità, e le conseguenti guerre di religione, l’intolleranza, gli odi, gli eccidi perpetrati in nome del Cristianesimo da una parte e dall’altra avevano alla fine provocato disgusto e diffidenza nei confronti delle chiese ufficiali (cattoliche o protestanti).
Anche la scoperta di grandi civiltà americane e asiatiche caratterizzate da religioni diverse aveva fatto dubitare che una sola religione potesse possedere la verità in esclusiva. Infine l’atteggiamento critico degli scienziati e dei filosofi nei confronti dell’autorità della tradizione (a partire dal dubbio metodico di Cartesio) si estendeva facilmente dal campo scientifico e filosofico al campo delle credenze religiose. L’Illuminismo fa un passo avanti in questa direzione: infatti attacca direttamente le religioni positive (quelle che si fondano su una rivelazione soprannaturale) sottoponendo al tribunale della ragione tutti gli elementi soprannaturali e misteriosi della fede. Con sprezzante sarcasmo viene negata la veridicità, anzi la possibilità stessa, dei miracoli, delle profezie e di qualsiasi intervento divino nella storia. Il peccato originale, l’incarnazione e resurrezione di Cristo, i sacramenti, i dogmi di fede vengono considerati imposture o leggende create dall’immaginazione e dalla superstizione.
In un primo momento tuttavia gli Illuministi non eliminarono completamente la religione, ma sostituirono alle religioni positive rivelate una religione naturale o razionale, che venne chiamata DEISMO.
Il Deismo è una religione senza misteri e senza riti, una religione che afferma solo quelle verità che possono essere ammesse e comprese dalla ragione.
E la ragione degli Illuministi deisti ammette solo:
1) l’esistenza di un Dio creatore e ordinatore dell’universo (chiamato preferibilmente Essere Supremo): infatti non si può spiegare razionalmente l’esistenza e l’ordine del mondo senza una causa superiore.
2) L’esistenza del bene e del male, e di certi doveri naturali, evidenti per tutti (la tolleranza, il rispetto della vita e dei beni altrui ecc.)
3) Alcuni deisti ammettono anche l’immortalità dell’anima e/o l’esistenza di una vita post-mortem

E’ da notare che secondo i deisti Dio non può intervenire nel mondo perché così facendo infrangerebbe quelle leggi fisiche che regolano il movimento dell’universo e che sono state create da lui stesso, quindi è esclusa la Provvidenza divina nelle vicende della storia umana; ricordiamo che la concezione dell’universo dominante nel Settecento è quella meccanicistica e deterministica mutuata da Cartesio e da Newton: l’universo intero, con tutti i viventi, è concepito come un unico meccanismo, e alcuni Illuministi giungono a interpretare anche l’uomo come un meccanismo, sia pure particolarmente complicato.
Il principale teorico e propagandista del Deismo fu il filosofo francese Voltaire (1694-1778) .
Ma verso la metà del Settecento altri Illuministi ritennero un “pregiudizio” anche la credenza deista in un Essere Supremo creatore del mondo: costoro davano un’interpretazione della realtà atea e materialistica: poiché (per loro) tutta la realtà è costituita solo da materia, non c’è nessun bisogno di un Creatore per spiegare l’esistenza del mondo, basta considerare eterna la materia stessa.
Proprio perché riconosceva soltanto l’esistenza di ciò che cade sotto il dominio dei sensi, e poneva la sensazione a base della conoscenza e di tutta l’attività intellettuale umana, il materialismo illuminista fu detto anche SENSISMO.
A differenza del Deismo, il Sensismo non portava a una visione ottimista del mondo; esso non credeva che all’origine del mondo ci fosse un creatore intelligente che gli conferisse un ordine, un senso razionale; la natura appariva ai materialisti come un immenso campo di movimenti casuali  (sebbene deterministicamente connessi) e senza scopo.   Proprio per questo pessimismo e per questa irrazionalità di fondo l’ateismo all’interno del movimento illuminista ebbe un’influenza e una diffusione minore del deismo.
Comunque gli Illuministi, sia deisti che ateisti, non si limitarono alla speculazione filosofica sulla religione, ma attaccarono con tutte le armi a loro disposizione - argomentazioni filosofiche, indagine storica, satira e polemica - le dottrine , le istituzioni  e le autorità delle Chiese, e ottennero anche successi importanti come l’espulsione dei Gesuiti da molti Stati.    La Chiesa cattolica reagì mettendo all’Indice i libri degli Illuministi e spesso i governi intervennero in difesa della religione con repressioni e censure. Voltaire per esempio fu costretto, per un certo tempo, a uscire dalla Francia e a cercar rifugio presso il re di Prussia.
Per avere un quadro complessivo della situazione religiosa nel Settecento bisogna comunque tener presente che le idee deiste e l’ateismo fecero breccia negli strati più colti e influenti della società (alta borghesia e nobiltà), ma la stragrande maggioranza della popolazione rimase fedele alla propria religione e alle proprie autorità ecclesiastiche.

L’ANTROPOLOGIA E L’ETICA DELL’ILLUMINISMO
Il contrasto degli Illuministi con le chiese cristiane non si limitò tuttavia alla teologia (=discorso su Dio), ma investì anche l’antropologia (=discorso sull’uomo). Infatti l’Illuminismo propose una concezione dell’uomo antitetica a quella del cristianesimo. Alla base dell’antropologia cristiana stava infatti l’idea del peccato originale .
Secondo questa idea esiste nell’uomo un limite strutturale, una tendenza al male che rende precaria e incerta qualsiasi realizzazione umana; solo l’intervento redentivo di Gesù Cristo permette all’uomo di superare il proprio male, di dare piena realizzazione a se stesso e di costruire una società giusta e umana.
Gli Illuministi invece consideravano l’uomo naturalmente e totalmente buono: il male che si incontra nella storia non discende dal peccato, cioè da una volontà cattiva, ma deriva semplicemente dall’ignoranza.  Nel Settecento si diffonde, fra l’altro, il mito del “buon selvaggio”: gli Illuministi nutrono un grandissimo interesse per i popoli “primitivi” dell’America e dell’Oceania e credono di vedere in essi la riprova della bontà e della razionalità dell’uomo “naturale”, che non ha ancora subito condizionamenti culturali e sociali.
Ora, poiché l’uomo è buono, può realizzare se stesso e costruire la società a prescindere da qualsiasi riferimento religioso e trascendente (l’Illuminismo sta quindi all’origine del fenomeno della secolarizzazione, che caratterizza la società occidentale contemporanea e che consiste appunto nell’eliminazione di ogni riferimento religioso da tutti gli aspetti pubblici della vita).
L’idea della bontà naturale dell’uomo porta anche alla valutazione positiva delle tendenze egoistiche dell’uomo, soprattutto nell’ambito delle correnti materialistiche e sensiste dell’Illuminismo: molti Illuministi riconoscono infatti l’egoismo come fattore primario dell’agire umano, e a fondamento della morale pongono l’utilità (=utilitarismo) o il piacere (=edonismo): secondo queste teorie etiche l’uomo si comporta rettamente quando persegue razionalmente la propria utilità  e il proprio piacere, e nel far questo non danneggia, anzi incrementa, il bene comune perché, come sosteneva Mandeville, “i vizi privati sono pubbliche virtù”, cioè l’interesse individuale coincide con l’interesse generale.

IL PENSIERO GIURIDICO E POLITICO DELL’ILLUMINISMO
L’Illuminismo era una cultura essenzialmente pratica, che si proponeva di trasformare la realtà migliorando le condizioni di vita dell’uomo, era quindi di necessità anche una cultura politica , fortemente impegnata nella critica e nella trasformazione delle strutture politiche e sociali. Anche in questo campo gli Illuministi posero la ragione a fondamento delle norme giuridiche e delle concezioni dello Stato; innanzi tutto essi negarono qualsiasi origine e finalità soprannaturale dello Stato: lo Stato e le leggi sono state creati dagli uomini per mezzo di un contratto, di un patto comune volto al conseguimento del benessere, della sicurezza e della felicità pubblica. Pertanto il potere dei sovrani deriva dai cittadini ed è legittimo soltanto finché si esercita a loro favore . In particolare  le autorità politiche non possono ledere i diritti naturali e inalienabili dell’uomo: vita, libertà (personale, economica, di coscienza e d’espressione), proprietà, sicurezza, eguaglianza giuridica.

L’affermazione dei diritti dell’uomo è uno degli esiti più importanti dell’Illuminismo (con grandi conseguenze politiche e giuridiche nella Rivoluzione Francese). Occorre però precisare che l’idea di diritti umani  era presente anche nel Medioevo e nell’Umanesimo, ma con un interesse prevalente per i diritti delle comunità, delle corporazioni, degli ordini ecc.  Poi nel Cinquecento e nel Seicento i teorici dell’Assolutismo (Machiavelli, Hobbes), affermando che il potere del sovrano non deve avere limiti, avevano di fatto negato l’esistenza di diritti umani intangibili. L’Illuminismo riafferma la dottrina dei diritti naturali dell’uomo, considerati però ora come diritti dell’individuo, del singolo cittadino (diritti uguali per tutti).  Gli Illuministi si ricollegano al pensiero politico di John Locke e affermano i diritti umani già individuati dallo stesso Locke (libertà, proprietà, sicurezza, uguaglianza); ad essi però aggiungono il diritto alla felicità che, di per sè, è difficilmente circoscrivibile in termini politici e giuridici, ma che costituisce una forte sollecitazione ad agire per eliminare le cause, materiali e spirituali, dell’infelicità: la miseria, l’ignoranza,  l’ingiustizia, ecc.

Per lo più gli Illuministi (fino agli anni Sessanta del XVIII sec.) non trassero da questi principi conseguenze rivoluzionarie, ma si limitarono a suggerire riforme concrete ai governanti, senza proporsi di scardinare l’ordinamento politico e  sociale.  Le riforme proposte miravano generalmente ai seguenti obiettivi: ra-zionalizzazione dell’ordinamento amministrativo statale (mediante la centralizzazione e la burocratizzazione), eliminazione dei particolarismi, delle consuetudini, dei privilegi, uniformità e chiarezza delle leggi, abolizione dei privilegi giuridici e fiscali della nobiltà e del clero, controllo della Chiesa ed eliminazione delle ingerenze ecclesiastiche nel governo, adozione di procedure penali più razionali (il ché comportava, per esempio, l’abolizione della tortura e della pena di morte proposta da Cesare Beccaria nel suo celebre trattato “Dei delitti e delle pene”).
C’è da notare che questi programmi di riforma non coinvolgevano mai direttamente le masse popolari; Voltaire dichiarava: “Tutto per il popolo, nulla per mezzo del popolo”, intendendo che l’opera di riforma  poteva essere attuata solo dall’alto . I problemi sociali delle classi più povere erano tenuti in scarsa considerazione dagli Illuministi, che anzi guardavano con ostilità e diffidenza alla canaille (così la chiamava Voltaire) ignorante e superstiziosa. I contadini , anche nei programmi illuministici, rimanevano sottoposti allo sfruttamento dei grandi proprietari; perfino la tratta e la schiavitù dei negri fu ammessa e giustificata da alcuni Illuministi.

Queste dunque erano le premesse della riflessione politica illuminista, ma gli esiti - pratici e teorici - furono molto vari, perfino antitetici fra loro.
Secondo alcuni Illuministi questo programma di riforme poteva essere realizzato tramite una collaborazione tra sovrani assoluti e intellettuali; in questo caso il potere assoluto del monarca veniva accettato come mezzo per imporre alla società le necessarie riforme. Del resto alcuni sovrani europei (Federico II di Prussia, la zarina Caterina, l’imperatore Giuseppe II ecc.) assunsero, almeno in parte, il programma illuminista vedendo in esso uno strumento per consolidare il proprio potere. In questi casi si parlò di dispotismo illuminato.
Altri Illuministi invece prospettarono soluzioni diverse.
Charles de Secondat de Montesquieu (1689-1757) affrontò il problema dello Stato nell’opera “Lo spirito delle leggi”: lo spirito delle leggi è, per Montesquieu, un nesso unitario che lega le leggi, da un lato tra loro, dall’altro alle circostanze storico-geografiche (per esempio al clima) in cui sorgono e al tipo di individui a cui si rivolgono. L’insieme delle leggi e delle istituzioni non si forma arbitrariamente , bensì per un insieme di condizioni che stanno in rapporti costanti, e che possono esser fatte oggetto di una vera e propria “scienza della società”.  Montesquieu individua tre principi etici differenti che ispirano le leggi e da cui derivano tre diverse forme di governo: il principio animatore di un governo dispotico è la paura, che rende passivi verso di esso i cittadini; quello di un governo monarchico l’onore; quello di un governo repubblicano la virtù  (o attaccamento al bene comune); tuttavia il governo repubblicano può esistere soltanto nei piccoli Stati, e quindi la forma di governo propria dei grandi Stati moderni è la monarchia: il problema è evitare che la monarchia degeneri nell’arbitrio assoluto del re, cioè nel dispotismo e nella tirannia. L’antidoto a questa degenerazione tirannica risiede, secondo Montesquieu, nella separazione dei poteri, di cui la monarchia inglese offriva un esempio: il potere di fare le leggi e di votare le imposte deve essere esercitato da un parlamento, il potere esecutivo da un monarca, il potere giudiziario da un corpo di magistrati indipendenti. In tal modo ogni potere limita e controlla gli altri impedendo di prevaricare e di agire arbitrariamente.

Solo negli ultimi decenni del Settecento il pensiero politico degli Illuministi assunse posizioni radicali e rivoluzionarie, che poi ispirarono i programmi e le esperienze politiche della Rivoluzione Francese.
Così Jean Jacques Rousseau, il più geniale degli Illuministi (di cui presenteremo il pensiero più oltre), teorizza l’idea della sovranità popolare e delinea un modello politico di democrazia egualitaria ; e i pensatori del cosiddetto utopismo settecentesco (Meslier, Mably e Morelly) propongono modelli e istanze politiche di tipo comunistico ed anarchico che ispireranno le frange più estremiste della Rivoluzione francese.

LA NASCITA DELL’ECONOMIA POLITICA
L’idea che il concorso di molte azioni ispirate a fini egoistici possa produrre un risultato utile alla comunità (a cui abbiamo accennato parlando dell’etica illuminista) sta alla base di una nuova scienza nata in Inghilterra nel Settecento, l’economia politica. Infatti il principio fondamentale dell’economia politica è questo:  in campo economico l’azione egoistica di ciascun cittadino che tende alla migliore soddisfazione dei propri bisogni produce, a lungo andare, il risultato di promuovere la ricchezza dell’intera nazione. Chi introdusse, sia pure sotto forma di paradosso, il principio generale da cui la nuova scienza dipendeva fu l’inglese Bernard de Mandeville (1670-1733), autore di una Favola delle api in cui si mostrava che nell’alveare, finché ogni ape badava ai propri interessi, tutto andava bene, mentre quando gli scrupoli morali indussero alla generosità, al disinteresse e alla parsimonia, la comunità divenne povera e incapace di sostenersi. La Favola delle api stabiliva quindi un’equazione tra “vizi privati” e “benefici pubblici” che naturalmente suscitò molto scandalo, in quanto sembrava incoraggiare l’egoismo e il malcostume, ma che fu accolta con entusiasmo dagli Illuministi che avevano auspicato una morale naturale fondata sull’egoismo

I “Fisiocratici”. L’Illuminismo non poteva non interessarsi fortemente alla nuova prospettiva che l’indagine economica gli apriva: conciliare l’utile generale con il particolare, secondo leggi del tutto naturali. Così in Francia i fenomeni economici cominciarono ad essere trattati sistematicamente da una schiera di studiosi (detti “fisiocratici” perché volevano il “dominio della natura” nelle questioni economiche), spesso direttamente coinvolti negli affari o nella politica: il Quesnay, il Dupont de Nemours, il Turgot ecc. I Fisiocratici francesi contestarono  in primo luogo l’idea mercantilista che la ricchezza di una nazione consistesse nella quantità di metalli pregiati posseduti; per loro il vero fondamento della ricchezza di una nazione era l’agricoltura da cui, secondo natura, tutte le risorse produttive hanno origine; in secondo luogo essi pensavano che quei provvedimenti “mercantilistici” con cui tradizionalmente si era cercato di migliorare l’economia di un paese proteggendo le industrie, evitando l’esportazione di oro ecc. ottenevano l’effetto opposto a quello voluto; ancor più dannosi erano quegli impacci di origine feudale, corporativa, che ostacolavano la libera circolazione dei beni e il libero sviluppo delle attività economiche. Le istituzioni rigide, le organizzazioni artificiali, non solo non favorivano, ma impedivano quel benessere che sarebbe sorto naturalmente dall’iniziativa dei soggetti economici, lasciati liberi di scegliere e di agire. L’importante perciò era lasciar fare  (“laissez faire, laissez passer”): gli interventi dall’alto non servono , la natura stessa provvederà ad armonizzare, secondo le proprie leggi, il vantaggio cercato da ciascuno col bene ottenuto da tutti .
I Fisiocratici gettarono così le basi del liberismo economico. Essi attribuirono la massima importanza alla terra e all’agricoltura, mentre gli sviluppi successivi della scienza economica, attuati soprattutto da studiosi inglesi, diedero maggiore importanza al lavoro e all’industria.
Una sistemazione teorica generale della nuova scienza dell’economia politica fu attuata dall’inglese Adam Smith (1723-1790) con l’opera “Sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni”. Il liberismo economico, così come venne teorizzato da Adam Smith e dai suoi successori inglesi, affermava, in estrema sintesi, questi principi: la ricerca individuale della ricchezza produce “naturalmente” benessere e ricchezza per tutta la comunità, per cui lo Stato non deve in alcun modo limitare o intralciare l’iniziativa economica individuale; il mercato libero (in cui vi sia libera concorrenza tra i soggetti economici) regola “naturalmente” l’economia, perché seleziona le attività economiche, promuovendo quelle più utili, convenienti e vantaggiose per la popolazione, eliminando le altre : pertanto anche il commercio, sia nazionale che internazionale, deve svolgersi in condizioni di libertà e parità, perciò gli Stati non devono ostacolare gli scambi commerciali (libero scambio) con tariffe doganali protettive e non devono proteggere o favorire alcune imprese economiche a scapito di altre.  
Questi principi divennero un elemento importante della concezione liberale della vita associata che, per i suoi aspetti più propriamente politici, si rifaceva piuttosto al Locke e al Montesquieu. Il principio del “lasciar fare”  si congiungerà facilmente con il principio della tolleranza e della libertà personale, che avevano origini diverse.  Tuttavia l’economia politica troverà, già nell’Ottocento, anche fieri avversari: in coloro che, nelle sue leggi naturali e, come tali, inderogabili, immodificabili, vedranno solo un pretesto messo innanzi dai ricchi per ostacolare un riordinamento pianificato della società.

ROUSSEAU: ALLE ORIGINI DELLA DEMOCRAZIA E DEL TOTALITARISMO
L’approccio più originale e interessante al problema politico fu tentato, nella seconda metà del Settecento, dal filosofo ginevrino Jean Jacques Rousseau (1712-1778). Pur partecipando pienamente della mentalità illuminista, Rousseau giunse, nelle sue opere pedagogiche e politiche, a metterne in discussione alcuni capisaldi, quali l’idea di progresso e l’ottimismo verso la ragione. Nel Discorso sulle scienze e sulle arti (1750) e nel Discorso sull’origine della diseguaglianza  tra gli uomini (1754) egli, contro la convinzione illuministica che l’uomo possa progredire verso la felicità mediante l’uso della sola ragione, affermò che la felicità, e con essa la libertà, era propria dell’uomo nello “stato di natura” ai primordi dell’umanità. Per Rousseau l’uomo di natura, originariamente integro, era biologicamente sano e moralmente innocente; è diventato malvagio, ingiusto, oppressore, con il progresso e con la civilizzazione.
In realtà Rousseau non sostiene che lo “stato di natura” sia esistito di fatto agli albori dell’umanità o in qualche luogo remoto: lo stato di natura  è un’ipotesi di lavoro, suffragata dal sentimento del carattere artificioso e “innaturale” della civiltà in cui viviamo e dall’ ideale di spontaneità e di semplicità che l’uomo stesso sente corrispondente alla sua vera natura; Rousseau scopre lo stato di natura principalmente scavando dentro di sé e confrontando il proprio sentimento con l’umanità corrotta dalla società e dalla civiltà: “il pittore e apologista della natura, oggi così sfigurata e calunniata, donde può aver tratto – si chiede Rousseau – il proprio modello, se non dal proprio cuore? L’ha descritta quale lui stesso sentiva di essere. I pregiudizi non lo soggiogavano, non era preda delle passioni artificiose: i tratti originari della natura, generalmente dimenticati o misconosciuti, non erano offuscati ai suoi occhi…” .
In questa condizione naturale originaria l’uomo, secondo Rousseau, non era caratterizzato dalla razionalità, ma piuttosto dal sentimento e dall’istintività: i suoi istinti primordiali erano l’istinto di conservazione e la pietà intesa come “naturale ripugnanza a veder soffrire il proprio simile”; l’uomo naturale non era né buono né cattivo, perché bene e male, virtù e vizio sono prodotti della riflessione razionale di  un uomo civilizzato: era piuttosto innocente, viveva in una condizione di “felice ignoranza”.
Proprio l’organizzazione della civiltà e il progresso delle arti e delle scienze avevano causato l’infelicità . Quella felicità naturale originaria era data dall’eguaglianza; ma le difficoltà incontrate dall’uomo nel conservare la propria vita in un ambiente naturale ostile, avevano generato l’istinto di sopraffazione e l’uso della forza , introducendo la diseguaglianza tra forti e deboli, tra sfruttatori e sfruttati, tra ricchi e poveri. La società, per Rousseau, nacque quando alcuni si appropriarono dei beni della terra, che prima erano comuni: “Il primo che recinse un terreno e dichiarò: -questo è mio- e trovò persone tanto semplici da prestargli fede, questi fu il vero fondatore della società civile.”
La società è nata, dunque, dalla violazione dell’eguaglianza naturale, e leggi e ordinamenti mirano solo a perpetuare l’ineguaglianza. E’ qui l’origine del male: “La fonte prima del male  è la diseguaglianza; dalla diseguaglianza sono venute le ricchezze; povero e ricco infatti sono termini relativi, e dovunque gli uomini saranno uguali non ci saranno mai né ricchi né poveri. Dalle ricchezze sono nati il lusso e l’ozio; dal lusso sono venute le belle arti e dall’ozio le scienze”.
Dunque il male e la corruzione non appartengono originariamente alla natura dell’uomo, ma sono una nefasta conseguenza della cultura e della società. Con il suo pessimismo storico, Rousseau distruggeva un’idea portante dell’Illuminismo: che l’incivilimento fosse di per sé un progresso verso il meglio; il cammino della storia e l’ordine sociale attuale non avevano fondamento né nelle leggi della natura né in un piano divino: erano opera esclusiva dell’uomo, anzi dell’impostura umana, e si fondavano sull’oppressione: “La maggior parte dei nostri mali è opera nostra; li avremmo evitati quasi tutti conservando il modo di vivere semplice, uniforme e solitario che ci era prescritto dalla natura”.   
Una volta smascherata la sua origine, la condizione dell’uomo civile appare inaccettabile. Ma non  è nemmeno possibile tornare indietro: Rousseau non è un “primitivista”, un adoratore dell’uomo primitivo; egli non aveva mai pensato – rispondeva indignato ai critici – che si dovesse “distruggere la società, sopprimere il tuo e il mio, e ritornare a vivere nelle foreste con gli orsi”.
Per Rousseau la civiltà ha trasformato gli uomini irreversibilmente, la società è ormai ineliminabile e il ritorno allo stato di natura è impossibile; pertanto si tratta di ricostituire la felicità, la libertà e l’eguaglianza originarie per mezzo di una nuova organizzazione statale, che Rousseau descrive nell’opera “Il Contratto sociale” ( 1762)
Il “Contratto sociale” vorrebbe porre le basi di una società in cui “ciascuno unendosi a tutti gli altri, obbedisca tuttavia soltanto a se stesso, e sia libero come prima”.  Il nuovo Stato di Rousseau nasce da un contratto o patto d’unione fra tutti i membri che lo compongono , i quali rinunciano completamente ai loro diritti naturali e alla loro libertà individuale a favore, non di un singolo, bensì della comunità, in cui tutti diventano uguali, perché tutti ugualmente privi di diritti individuali.
In questo modo si costituisce un organismo collettivo, l’unico che abbia diritto di comandare (dottrina della “sovranità popolare”), in nome di una volontà che non è la volontà di uno o più singoli, e neppure la somma della volontà di tutti, ma è la volontà generale, priva di finalità egoistiche.                           
La volontà generale è assoluta (indivisibile, illimitata e inalienabile),  non incontra nessuna limitazione nei diritti dei singoli: però si esercita solo in nome della comunità; quindi non asservisce l’uomo a nessun altro uomo, e i singoli, in quanto sottomessi solo alla volontà generale, che è la loro stessa volontà collettiva, sono liberi.
Infatti secondo Rousseau il Contratto sociale è stipulato fra uguali e in perfetta reciprocità. I diritti individuali vengono totalmente ceduti dall’individuo alla comunità nella sua interezza. Ma l’individuo “dandosi a tutti non si dà a nessuno”: l’individuo entra a far parte della comunità, si identifica con essa e quindi, cedendo tutti i suoi diritti alla comunità, non fa che cederli a se stesso; la sua volontà coincide con quella degli altri individui che hanno compiuto una cessione simile dei loro diritti.   Dunque per Rousseau il Contratto sociale non comporta una sottomissione a qualcun altro, ma solo un’unione tra i contraenti del patto.  E’ evidente che il presupposto di questo ragionamento è la convinzione che la vera volontà (spontanea, ispirata dalla natura e dal cuore) dell’individuo coincida con la vera volontà di tutti gli altri e con la volontà generale.   La volontà generale è dunque la volontà unitaria nata dal Patto sociale: non è la volontà della maggioranza e neppure la volontà di tutti intesa come “semplice somma delle volontà particolari”, è la volontà generale perché coincide con il bene comune.
Il Contratto sociale di Rousseau non genera semplicemente una struttura statale, ma avvia anche un processo di educazione morale dell’uomo: infatti con il contratto l’uomo passa da una libertà individualistica ed egoistica a una libertà sociale, acquista una coscienza comunitaria, sostituisce nella sua condotta la giustizia all’istinto. Infatti Rousseau, che era anche un pedagogista, attribuiva al  nuovo Stato il compito di educare l’uomo nuovo, di ricreare l’essere stesso dell’uomo come cittadino.
Si noti che il contratto di Rousseau differisce da quelli di Hobbes e di Locke, perché la rinuncia alla libertà da parte dei cittadini non avviene a favore di una terza persona, ma a favore della volontà generale amante del bene comune, quindi in questa rinuncia viene ripristinata l’eguaglianza assoluta (che era la condizione felice dello stato di natura).

La dottrina politica di Rousseau è considerata la base teorica della democrazia contemporanea, in quanto afferma il principio della sovranità popolare; tuttavia molti filosofi e storici successivi hanno individuato in essa anche l’ideologia giustificatrice  di regimi oppressivi e totalitari, per i seguenti motivi:
1) essa esige una socializzazione totale dell’uomo,  per impedire che emergano e si affermino interessi privati. I contrasti tra interessi privati e interessi comunitari devono essere eliminati, assorbendo i primi nei secondi e impedendo, grazie alla completa riduzione dell’individuo alla società, che affiorino e rompano l’armonia complessiva.  Non c’è nulla di privato, tutto è pubblico o deve diventarlo; l’uomo è essenzialmente sociale, un animale politico, il male viene identificato con gli interessi privati.  Quindi l’uomo deve obbedire a quella coscienza pubblica che è lo Stato, fuori del quale non ci sono che coscienze private o individuali, da condannare perché nocive; scrive infatti Rousseau: “Affinché il patto sociale non sia una vana formula, esso implica tacitamente questo impegno che solo può dare forza agli altri: che chiunque rifiuterà di obbedire alla volontà generale, vi sarà costretto da tutto il corpo; ciò non significa altro che lo si obbligherà ad essere libero”  La volontà generale, incarnata nello e dallo Stato, è tutto. E’ il primato della politica sulla morale. La difesa del bene comune è tale da condurre allo svuotamento dell’individuo, della sua individualità e al suo assorbimento senza  resti nel corpo sociale.  In tal modo – annota Sergio Cotta “il contratto sociale dà bensì origine a uno Stato democratico – in quanto che il potere vi appartiene non più a un principe o a una oligarchia, ma alla comunità (è questo il grande contributo di Rousseau alla filosofia politica) – ma consacra altresì il dispotismo della maggioranza, che si ammanta dei caratteri della totalità, per cui la sua volontà non solo è legge ma anche regola del giusto e della virtù. Dal punto di vista politico, come da quello etico, alla persona umana viene così negata la sua libertà e ad essa, anzi, quando si trovi in conflitto con la volontà prevalente, viene imposto il dovere di riconoscersi di essersi sbagliata e quindi di sacrificare integralmente la sua ragione alla volontà collettiva con un vero e proprio atto di fede. Così sospinta quasi da una fatale necessità, la filosofia come rivoluzione di Rousseau sfocia nello stato etico e totalitario”.
2) Questo rischio di annientamento della libertà individuale risulta ulteriormente aggravato quando si prende in considerazione il problema dell’esercizio concreto del potere. Infatti la “volontà generale amante del bene comune” è un concetto astratto; ma qual è la forza detentrice della volontà generale? Chi può farsi interprete del bene comune, dell’interesse della collettività?
Rousseau considera la democrazia l’unica forma legittima di governo, ma ritiene che l’unica vera democrazia sia quella diretta, in cui tutto il popolo riunito in assemblea delibera e legifera: ovviamente questo sistema è praticabile solo in Stati molto piccoli (come le città-stato della Grecia antica o i cantoni svizzeri); quindi  nella democrazia rousseauiana il potere legislativo, esercitato dal popolo, ha la preminenza sugli altri poteri (Rousseau rifiuta la dottrina liberale della divisione e dell’equilibrio dei poteri); nelle situazioni in cui la democrazia diretta non è possibile Rousseau auspica che i governanti siano  designati dal voto dei cittadini, però avverte che una rappresentanza elettiva non esprime necessariamente la “volontà generale” (per esempio potrebbe esprimere solo gli interessi della classe maggioritaria).  Perciò la volontà generale potrebbe essere impersonata anche da un gruppo minoritario di devoti al bene comune che istituiscono una specie di dittatura in nome dell’interesse generale (addirittura egli afferma paradossalmente che “anche una monarchia può essere una repubblica”)  .Questa dittatura sarà tanto più oppressiva e totalitaria in quanto si eserciterà in nome del bene comune e avrà come fine la formazione dell’uomo nuovo; questa dittatura non avrà limiti in quanto non riconoscerà nessun diritto individuale (come abbiamo detto prima, con il Contratto sociale ogni cittadino rinuncia a tutti i diritti naturali).
Per questo J.J. Rousseau è stato esaltato come il primo e più importante teorizzatore della sovranità popolare e della democrazia (ispiratore delle rivoluzioni e delle Costituzioni democratiche del Settecento e dell’Ottocento), ma è stato anche sottoposto a severe critiche da parte di pensatori liberali che hanno visto nella sua dottrina politica una grave minaccia per la libertà individuale.

CRITICHE LIBERALI AL PENSIERO DI ROUSSEAU
Osserva in proposito il Mathieu: « il corpo politico rimane irrimediabilmente un’astrazione: chi, e in che modo, potrà arrogarsi il diritto d’interpretarne, in concreto, la “volontà generale”? (…) Ogni atto compiuto in nome della volontà generale sarà, in realtà, dispotico. I singoli, oppressi in nome di un principio astratto che si pretende che impersoni la loro collettività, saranno infinitamente meno liberi che sotto l’oppressione di un despota personale, che altre persone possono sempre, in qualche modo, limitare.» 
Prosegue il Mathieu: “...Trent’anni dopo l’apparire del Contratto sociale (Amsterdam 1762), la rivoluzione francese farà di quell’ipotesi astratta una realtà; che manifesterà, tuttavia, l’astrattezza e l’impossibilità del proprio principio annientando e divorando se medesima. Chi rappresenta la volontà generale: l’assemblea della Convenzione Nazionale? Certo; ma anche (perché no?) una frazione di essa: poniamo, i giacobini; o ancora (perché no?) un singolo individuo, ad es. Robespierre. La volontà generale non è meno distinta da quella di “tutti” che da quella di uno solo. Però chiunque la impersoni non tollererà nemmeno il sospetto che un individuo qualsiasi possa far valere, di fronte ad essa, la propria singola volontà privata; e instaurerà il Terrore. D’altro canto, chiunque a volta a volta impersoni la volontà generale, non avrà alcun fondamento per impersonarla lui, piuttosto che un altro; e perciò sarà ogni volta decapitato, perdendo, con la testa, il principio di quella volontà individuale che non ha diritto di ergersi di fronte alla volontà collettiva. Si può dire che raramente un’idea abbia trovato nella storia un fenomeno che la rappresentasse con altrettanta evidenza” (Vittorio Mathieu, op. cit.)

Il possibile esito dispotico del Contratto sociale, e il suo legame con i regimi totalitari del Novecento (in particolare con i regimi comunisti che, non a caso, si definivano “democrazie popolari”)    è stato analizzato in un testo considerato oramai un classico della storia delle ideologie politiche: “Le origini della democrazia totalitaria” dello storico ebreo-polacco Jacob Talmon: il volume comparve nel 1952, dunque in un periodo  nel quale la cultura occidentale si stava interrogando su che cosa avesse determinato la nascita di ideologie e regimi totalitari. E Talmon si inseriva in quel filone di studi in modo originale, cercando nel pensiero di Rousseau, dei giacobini, di Babeuf, le radici di una forma di democrazia alternativa a quella liberale: la democrazia totalitaria, appunto. Entrambe esaltavano la libertà, ma la concepivano in modi radicalmente differenti. Per la democrazia liberale la libertà è anzitutto assenza di coercizione; per quella totalitaria essa coincide con la realizzazione di un fine collettivo, giusto e perciò indiscutibile. Mentre la prima ha un’idea intrinsecamente imperfetta dell’agire politico, la seconda concepisce la politica come strumento per attuare la Verità e il Bene. Per conseguenza, le opinioni differenti, che costituiscono il sale della democrazia liberale, finiscono col rappresentare un crimine nella visione democratico-totalitaria. Secondo Talmon, accanto alla democrazia di tipo liberale è esistita, fin dalle origini nel Settecento, una tendenza verso una democrazia "totalitaria", un’aspirazione messianica a realizzare una società perfetta.
Al principio dell’ 800 il liberale Benjamin Constant si era chiesto come mai Rousseau, "genio sublime che era animato dal più puro amore della libertà", avesse fornito "pretesti funesti a più di un tipo di tirannia".
Talmon si poneva in fondo il medesimo interrogativo e cercava di dare una risposta analizzando le antinomie del pensiero giacobino, la sua concezione “assolutista” della politica, la contraddizione irrisolvibile tra l’esaltazione della libertà e la volontà di attuare un fine collettivo fissato razionalmente e dunque indiscutibile.

Ambedue gli esiti teorici della dottrina rousseauiana trovarono pratica realizzazione nella Rivoluzione francese che, alla fine del secolo dei Lumi, sconvolse le strutture politiche e sociali dell’Ancien Régime e inaugurò una nuova stagione della storia europea.

L’ILLUMINISMO E LA STORIA
La storia è uno dei grandi temi affrontati dall’Illuminismo, che se ne vanta come di una propria scoperta originale.  In effetti gli Illuministi, con Pierre Bayle, autore del “Dizionario storico e critico”, danno inizio alla moderna storiografia, che si basa sull’accer-tamento dei fatti mediante l’analisi e il confronto delle fonti, delle testimonianze e del maggior numero possibile di notizie.  Infatti per Bayle il dovere dello storico è quello di raccontare i fatti, lasciando da parte le opinioni personali e i pregiudizi.
Con gli Illuministi la ricostruzione storica diventa semplice connessione di eventi empirici, secondo il rapporto di causa ed effetto, ed esclude ogni causalità e finalità trascendente. Tuttavia anche la ricerca storica illuminista appare spesso orientata e diretta da un criterio: molti Illuministi (per esempio lo stesso Voltaire) vogliono rintracciare nella storia il progressivo emergere della ragione e la vittoria della razionalità umana sull’ignoranza e sulla superstizione.  Perciò essi non esitano a condannare in blocco tutta l’età medievale come età dell’oscurantismo e del fanatismo, mentre esaltano l’età classica e il Rinascimento in quanto età razionali. Per questo atteggiamento l’Illuminismo è stato accusato, soprattutto dai Romantici, di astrattezza e di antistoricismo, perché ha preteso di giudicare tutte le età della storia in base a un principio estrinseco e metastorico (il progresso razionale), e si è reso quindi incapace di cogliere la peculiarità e la ricchezza di ogni civiltà umana.
Un altro aspetto del razionalismo settecentesco si manifesta nel cosmopolitismo: gli Illuministi, poiché fondano l’umanità esclusivamente sulla ragione (si è uomini perché si è razionali), non attribuiscono importanza ai legami creati dalla tradizione e dall’appartenenza etnica, e quindi non attribuiscono importanza alle differenze e alle identità nazionali, all’idea di nazione: essi si sentono prima di tutto cittadini del mondo, cioè cosmopoliti.

L’ENCICLOPEDIA
L’Illuminismo, proprio per il suo carattere operativo, per la sua tendenza a trasformare la realtà, non poteva rimanere una teoria riservata a una élite di intellettuali; esso esigeva  di diffondersi, di raggiungere e di persuadere il pubblico, di educare la parte istruita della popolazione. C’è dunque nell’Illuminismo una forte tensione pedagogica e propagandistica. (La plebe analfabeta però ne resta esclusa: Voltaire scriveva: “Mi sembra essenziale che vi siano dei pezzenti ignoranti; non sono i braccianti che bisogna istruire, è il buon borghese, è l’abitante della città. Quando il popolo pretende di ragionare tutto è perduto”, e Diderot ribadiva: “I progressi dei lumi sono limitati, non raggiungono i sobborghi, dove il popolo versa in una irrimediabile condizione di brutalità. Il numero della canaglia resta quasi sempre immutato. La massa è bestiale e ignorante”).
Fra gli strumenti di diffusione della cultura illuminista fu particolarmente importante  l’ENCICLOPEDIA. L’Enciclopedia era il primo tentativo di mettere a disposizione del pubblico un repertorio sistematico di tutte le conoscenze umane. Essa presentava, in ordine alfabetico, i risultati della ricerca illuminista nel campo della filosofia, della scienza sperimentale, della tecnica, della religione, della politica e dell’economia, della critica letteraria e artistica, della storia. L’Enciclopedia, diretta da Denis Diderot e Jean D’Alembert (vi collaborarono anche Voltaire, Montesquieu e Rousseau) fu pubblicata in Francia dal 1750 al 1772, con molte interruzioni e difficoltà per gli ostacoli frapposti dalla censura.  Quando venne finalmente portata a termine l’Enciclopedia comprendeva 17 volumi più 11 volumi di tavole illustrative: l’immediato successo (anche finanziario) fu reso palese dalle numerose ristampe e traduzioni.

 

SULLE ORIGINI ILLUMINISTE DEL RAZZISMO MODERNO
Un atteggiamento critico esige che i movimenti storici e culturali, così come i protagonisti della storia, vengano compresi nella loro complessità, evidenziando anche quegli aspetti ambivalenti o contraddittori che spesso accompagnano l’esperienza umana; accade invece che certi periodi, movimenti e personaggi vengano ridotti e presentati, in modo semplicistico, come modelli da esaltare o da rifiutare in toto (si tratta di operazioni ideologiche e propagandistiche, che poco hanno a che fare con la storiografia “seria”). L’Illuminismo costituisce appunto, assai di frequente, un “caso” di esaltazione incondizionata. E’ incontestabile che l’Illuminismo abbia dato un contributo importante alla civiltà europea, ma tale contributo non è privo di ombre e di contraddizioni: abbiamo già accennato sopra alle riflessioni sulle “origini della democrazia totalitaria” di Talmon e alla “dialettica dell’Illuminismo” di Adorno e Horkeimer; in questo capitolo segnaliamo anche  il fatto che l’antropologia illuminista ha posto le basi del razzismo biologico moderno.
Le origini illuministe delle teorie razziali sono state indagate in profondità da George Mosse in “Il razzismo in Europa”.  Accenno qui brevemente ai termini della questione: l’illuminismo, interessato ad affrontare “scientificamente” il problema “uomo”, si è anche interrogato sulle differenze somatiche tra le razze umane (colore della pelle, conformazione del cranio, corporatura ecc.); su questo punto si sono fronteggiate due teorie:
1) quella monogenetica, che attribuisce un’origine comune a tutti gli esseri umani, e che quindi considera le differenze come effetti di trasformazioni prodotte da ambienti e climi diversi (questa teoria fra l’altro concorda con la Bibbia, che considera Adamo ed Eva progenitori di tutti gli uomini);
2) quella poligenetica, che afferma che esistono differenze originarie e sostanziali tra le razze umane, differenze non riconducibili ad adattamenti all’ambiente (infatti la concezione fissista delle specie, sostenuta dal naturalista svedese Linneo (1707-1778), non ammetteva nessun tipo di evoluzione e di adattamento all’ambiente); pertanto le razze umane hanno diverse origini.  Nel secolo dei Lumi le ricerche anatomiche sui negri si moltiplicano e sembrano confermare questa tesi: la pigmentazione dei negri non dipende dagli influssi climatici, i negri presentano sotto l’epidermide un “reticolo mucoso” assente nei bianchi ecc.; insomma fra i negri e i bianchi c’è una barriera biologica.
Pertanto, nel corso del Settecento, la teoria che viene accettata quasi universalmente è quella poligenetica, e certamente tra le ragioni del suo successo c’è anche il fatto che essa è funzionale alla polemica anticristiana degli Illuministi (in quanto contraddice la Bibbia), e che può essere utilizzata per  giustificare lo schiavismo (nel Settecento la tratta dei negri è ancora intensamente praticata).
Infatti dalla teoria poligenetica molto facilmente si desume una gerarchia biologica e una gerarchia di valore. Spinge in questa direzione anche l’antica idea della “catena dell’essere”: secondo questa idea c’è un ordine cosmico per cui tutte le creature sono disposte gerarchicamente dal cielo alla terra, da Dio e dagli angeli  fino agli organismi più bassi, senza soluzioni di continuità. Scrive G.Mosse: “Il mito potente della catena dell’essere spiega perché gli scienziati si siano tanto preoccupati di trovare l’ «anello mancante» della creazione che unisse l’uomo agli animali in  una ininterrotta catena della vita.  E in realtà, durante il secolo XVIII, l’animale posto più in alto, che di solito si pensava fosse la scimmia, era collegato con il tipo di uomo posto più in basso, di solito ritenuto essere il nero. Così il concetto della catena fu conservato anche quando fu negata l’esistenza degli angeli e quando si pensò che Dio fosse innato nell’uomo e nella natura. La «catena dell’essere» ora cominciava e finiva sulla Terra”  .
Tra i più accesi sostenitori del razzismo biologico e gerarchico c’è anche Voltaire, che desume dalle varietà e dalle differenziazioni «scientificamente sperimentate» dei convinti giudizi di valore.  Per Voltaire le enormi differenze esistenti tra le razze umane sono incontestabili, e poiché hanno dato origine a civiltà di diverso livello, occorre trarne classificazioni gerarchiche: i vari gradi di umanità corrispondono ai vari gradi di civiltà, e Voltaire non esita a definire “animali” i negri, i lapponi e altri gruppi umani (scrive, per esempio: «i bianchi barbuti, i negri lanosi, i gialli criniti e gli uomini dalla faccia gialla non discendono dal medesimo uomo», e «i Negri e le Negre, trasportati nei paesi più freddi, continuano a produrvi animali della loro specie»).  In modo del tutto conseguente giustifica lo schiavismo (nel Saggio sui costumi: «I negri sono, per natura, gli schiavi degli altri uomini») e investe parte del suo cospicuo patrimonio nelle azioni di una compagnia di navigazione che esercita la tratta dei negri.
Del resto il razzismo di Voltaire non si limita ai popoli cosiddetti selvaggi, ma si estende anche agli ebrei, che nel Dizionario filosofico vengono definiti  “popolo ignorante e barbaro, che unisce la più sordida avarizia alla più detestabile superstizione e all’odio incrollabile per tutti i popoli che li tollerano e li fanno arricchire”.  Secondo lo storico dell’antisemitismo Léon Poliakov è un mistero che «Voltaire resti nel ricordo degli uomini come il principale apostolo della tolleranza, a dispetto di uno spietato esclusivismo occidentale a cui non si saprebbe dare altro nome che quello di razzismo. Nessuno come lui ha tanto diffuso e ampliato le aberrazioni della nuova età della “scienza”».

Naturalmente nell’Illuminismo ci sono state anche altre tendenze che hanno riconosciuto e valorizzato l’umanità dei popoli non-europei (vedi per esempio il mito del “buon selvaggio) e molte voci si sono levate contro la tratta e la schiavitù. Tuttavia le teorie razziste settecentesche sono state largamente condivise (anche da Kant e da Montesquieu, p.e.) e sono confluite, nel secolo successivo, nell’antropologia positivista e poi, da questa, nelle ideologie razziste, nazionaliste e antisemite del XX secolo.

Oggi gli scienziati respingono unanimemente e totalmente le teorie razziste e sostengono che tutti i popoli umani appartengono ad un’unica specie e si differenziano per aspetti marginali, prodotti dalle influenze ambientali; ma non dimentichiamo che nel Settecento queste teorie venivano sostenute in quanto “scientifiche”:  ciò ci induce a riflettere sul problema della verità scientifica, sui suoi limiti, le sue pretese e la sua fallibilità.

 

 

Possiamo riconoscere in Cartesio l’iniziatore di questo atteggiamento critico nei confronti della tradizione e di questo tentativo di rifondare tutto l’edificio della conoscenza sulla base della ragione. Tuttavia Cartesio aveva limitato prudentemente le conseguenze pratiche di tale atteggiamento (morale provvisoria), mentre gli illuministi non esitavano a trarne le conseguenze pratiche più estreme ed eversive; inoltre Cartesio aveva costruito il suo sistema sulle certezze assolute della ragione (razionalismo), mentre gli Illuministi, come vedremo, avevano un’idea di ragione limitata e controllata  dall’esperienza.

“Il motivo costante di tutta l’opera di Voltaire fu la lotta contro il fanatismo: contro la pretesa d’imporre ad altri con la violenza opinioni e costumi propri, spesso alimentati dalla superstizione e dannosi all’umanità. Al servizio di questa crociata egli mise il suo spirito e le sue grandi capacità di scrittore . E la convinzione che le massime manifestazioni di fanatismo fossero dovute a credenze religiose subdolamente sfruttate da persone interessate, lo indusse a coinvolgere nella sua battaglia ogni religione positiva - giudaismo e cristianesimo in particolare -, propugnando una religione puramente razionale, di stampo deistico. Voltaire non si avvide che il fanatismo non ha che fare con il genuino spirito religioso, se non come sua contraffazione o perversione; né si rese conto che una religione razionale, costruita a tavolino da un filosofo che, per di più, escludeva la metafisica nel senso tradizionale, non poteva offrire ciò che il credente suole chiedere alla religione (...) . Muovendo da un iniziale ottimismo Voltaire, soprattutto attraverso lo studio della storia, si rende sempre meglio conto della difficoltà di sottoporre alla guida della ragione la vita umana. L’ottimismo “metafisico” di un Leibniz gli appare privo di senso. Solo attraverso piccoli e contrastati miglioramenti l’umanità potrà, non già liberarsi dei mali, ma porsi nelle condizioni migliori per sopportarli. Tuttavia Voltaire vede nel proprio secolo “l’aurora della ragione”: cioè il secolo che ha trovato, quanto meno, il principio per mettersi sulla strada della saggezza; e appunto questa fiducia nella saggezza di una ragione umana, debole bensì, ma illuminata dalla scienza, fa di Voltaire un tipico rappresentante dell’illuminismo” (Vittorio Mathieu, Storia della filosofia e del pensiero scientifico)

 tratto da Vittorio Mathieu, Storia della filosofia e del pensiero scientifico

Adam Smith parla di una “mano invisibile” che armonizza la ricerca individuale ed egoistica del profitto e il benessere  

“Le forme della vita associata e civile, così come si sono sviluppate ovunque, e in Europa in particolare, sono un fomite di discordia, di prepotenze, di lusso, di dissipazione; una gara in cui ciascuno cerca di prevalere sull’altro, di umiliarlo, di asservirlo ai propri scopi. E lo sviluppo delle qualità intellettuali non fece che fornire armi più efficaci all’esercizio del sopruso morale. Diritto di proprietà, istituzione delle magistrature, dispotismo, sono le tappe di una progressiva ineguaglianza , fondata non sulla natura, bensì su un artificio, e resa possibile da un’intelligenza asservita all’egoismo. Se si paragona codesto quadro alla “natura” dei fisiocratici e dei liberisti - in cui le iniziative dei singoli, per quanto egoistiche, si armonizzano da sè in un benessere generale - si vede come la concezione del Rousseau sia il rovesciamento di quella della “favola delle api”. (V.Mathieu, op. cit.)

 

Fonte: http://www.liceogalvani.it/download_file.php?id=13537

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