Monachesimo occidentale

Monachesimo occidentale

 

 

 

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Monachesimo occidentale

IL MONACHESIMO OCCIDENTALE
GLI INIZI

Il monachesimo occidentale è strettamente legato a San Benedetto da Norcia (c. 480 - c. 550) che fondò l'ordine benedettino e l'abbazia di Montecassino nell'Italia meridionale intorno al 529.
La caratteristica dominante del monachesimo occidentale fu il suo carattere comunitario. La dimensione delle comunità variava enormemente secondo l'ammontare delle donazioni e il prestigio; alcune erano formate solo da due o tre membri, altre potevano eccezionalmente esser composte anche da 900 persone. Il numero medio dei componenti di una comunità benedettina variava da 10 a 50, dal momento che secondo la regola l'abate doveva ben conoscere i propri monaci per poter essere la loro guida spirituale.

ABBAZIA: Il termine deriva da abbas "abate", ed è sinonimo di monastero; può cioè indicare:
1) la comunità di religiosi (monaci o canonici regolari, secondo la regola benedettina almeno dodici) sui iuris cioè autonoma, autosufficiente e che possiede personalità giuridica, governata da un abate.
2) il complesso degli edifici della comunità e degli altri fabbricati che ne dipendono;
3) una chiesa anticamente monastica che ha mantenuto questo nome.
Spesso intorno al monastero si svilupparono dei mercati e successivamente dei centri abitati: questo spiega i tanti toponimi che ancor oggi richiamano il nome del santo cui l'abbazia era consacrata. L'abbazia, come si può vedere dalla pianta del XI secolo conservata a San Gallo in Svizzera (anche se si tratta del progetto di un'abbazia ideale) era un complesso organismo architettonico.

Grazie a Benedetto il monachesimo, nato in Oriente, si diffonde in tutto l’Occidente. Infatti la sua Regola influirà in modo determinante sulla storia dell’Europa. Benedetto conosce molto bene le esperienze di vita monastica realizzatesi in Oriente e anche in Occidente e, dopo diversi tentativi, dà vita ad un monachesimo cenobitico, che introduce la novità della stabilità del monaco nella comunità. L’originalità dell’intuizione di Benedetto sta proprio in questo legame del religioso con il suo monastero, nella continuità di rapporti e di presenza, nell’appartenenza totale ad una comunità. Il monachesimo benedettino si diffonde presto in tutta l’Italia, grazie anche all’opera di papa Gregorio Magno, il quale dà alla Regola un posto preminente rispetto agli altri testi che disciplinano la vita monastica. E così in breve tempo la regola di Benedetto, ammirata per la saggezza, l'equilibrio e la discrezione, viene adottata da molti istituzioni monastiche, che pure hanno avuto una storia e un ruolo molto importante nell’alto medioevo. E’ il caso, ad esempio, del monastero di Bobbio, fondato dal monaco irlandese san Colombano nel 612, che all’inizio dell’VIII secolo abbandona la regola del fondatore ed aderisce a quella benedettina. I monasteri colombaniani diventeranno fuori d'Italia centri di diffusione della Regola di Benedetto.
E’ però tra il IX e il XII secolo che il monachesimo benedettino diventa l’elemento fondante la cultura e la civiltà europea. Con la formazione del Sacro Romano Impero vengono unificate le regole monastiche e nell'816 Ludovico il Pio, figlio di Carlo Magno, con l’aiuto del monaco francese Benedetto d'Aniane, fa adottare da un’assemblea di abati la Regola di S. Benedetto come la sola valida per tutto l’impero carolingio. Da allora tutte le abbazie dell’impero, maschili e femminili, diventano benedettine ed intorno ad esse l’Europa comincia a ricostruire il proprio assetto, dopo il crollo dell’impero romano. Alle loro mura, che garantiscono ospitalità e riparo in un mondo pericoloso ed ostile, fanno capo sempre più spesso le strade percorse da pellegrini: si cancellano gli antichi percorsi per sostituirli con nuovi e più sicuri tracciati, che portano da un monastero all’altro e lungo i quali rifioriscono i commerci, gli insediamenti urbani, le aree coltivate.
In un continente ormai frammentato in diverse etnie, lingue, legislazioni, livelli di cultura reciprocamente ostili, l’unificante regola benedettina, il latino parlato da tutti i monaci, la stabilità secolare di tutti i monasteri, forniscono l’unico e il più visibile segno di unità. Monasteri e abbazie costituiscono anche un grande fenomeno economico e sociale: a loro fanno capo i lavori di dissodamento e di bonifica, che recuperano all’agricoltura vaste aree di terreno inselvatichito da secoli di abbandono. L’apicoltura, l’olivicoltura, la viticoltura si sviluppano notevolmente, poiché al monastero servono cera per le candele, olio per le lampade, vino per la S. Messa. Nel monastero gli strumenti di lavoro vengono sempre migliorati: si passa per esempio dall’aratro di legno a quello di ferro, vengono utilizzate invenzioni meccaniche come i mulini a vento e ad acqua. Tutto questo avviene per rendere il lavoro più efficace e meno faticoso e per poter dedicare più tempo ed energie allo studio e alla preghiera. I monaci sviluppano, inoltre, il culto e la cultura, la liturgia e l’arte: ogni monastero ha il suo scriptorium, dove si trascrivono i testi degli autori cristiani e pagani, salvandoli dalla distruzione, e si decorano i preziosi codici con splendide miniature.
IL MONACHESIMO OCCIDENTALE
IL PERIODO DELLE RIFORME

Il monachesimo benedettino, pur rimanendo uguale a se stesso nelle sue linee fondamentali, si è adattato alle esigenze storiche, rinnovandosi attraverso molte riforme. La prima grande riforma ha inizio dall’abbazia di Cluny, fondata agli inizi del 900 in Francia e divenuta molto importante grazie agli abati Oddone ed Ugo. I Cluniacensi, disinteressandosi del lavoro, che viene affidato a dei servitori, vogliono recuperare la spiritualità della Regola che si esprime soprattutto nella solenne celebrazione della Liturgia: passano la maggior parte del loro tempo in chiesa, cantando e recitando salmi e preghiere. Molti monaci sono attirati da questo stile di vita e molti monasteri si rivolgono all’abate Oddone chiedendogli di insegnare loro come si vive a Cluny. Si forma così una congregazione, un insieme di monasteri che vivono seguendo il modello di Cluny e obbedendo al suo abate e nasce anche la figura di un superiore che vigila su tutti i monasteri. L’abbazia di Cluny, inoltre, mantiene stretti rapporti con il Papato e proprio da Cluny nascono i primi progetti di riforma della Chiesa, che verranno attuati dal papa Gregorio VII.
Anche in Italia la vita monastica si rinnova: verso la fine del 900 San Nilo a Grottaferrata, vicino a Roma, e nel 1012 San Romualdo a Camaldoli, vicino ad Arezzo, fondano dei monasteri dove si vive nel silenzio e nella preghiera. A Grottaferrata i monaci basiliani di San Nilo vivono tra la solitudine e la preghiera, che viene celebrata in lingua greca, secondo la tradizione da cui proviene Nilo. In Toscana i Camaldolesi conducono una vita fortemente caratterizzata dalla componente contemplativa, che genererà grandi mistici e teologi. All’inizio del XII secolo nascono in Francia gli ordini dei Certosini e dei Cistercensi, che rispondono al desiderio di tornare a vivere l’esperienza monastica con semplicità e povertà evangelica. Fondatore dei Certosini è San Bruno, che imposta la loro esperienza su uno stile di vita che impone il silenzio, il lavoro individuale dedicato al giardinaggio, alla falegnameria, alla trascrizione di manoscritti, la rinuncia ad alcuni cibi, la carne in particolare, la dedizione alla preghiera. La regola dei Certosini, scritta non da San Bruno, ma dal priore Guigone, prevede anche dei momenti in cui i monaci si trovano insieme: nel coro per la preghiera comune e nel refettorio durante i giorni di festa. Come quella dei Certosini, anche l’esperienza dei Cistercensi ha origine dall’amore per la vita solitaria e per la povertà più rigida. Le origini di questa fondazione, voluta da Roberto di Molesme, sono umili e solo con il terzo abate, Stefano Harding, inizia una grande espansione, che viene favorita dalla geniale figura di Bernardo di Chiaravalle, il quale si impossessa talmente dell’ideale cistercense da essere considerato il nuovo fondatore dell’ordine. L’aspirazione dei Cistercensi consiste nel ritorno all’osservanza genuina della Regola di San Benedetto, eliminando tutte le aggiunte che vi si erano sovrapposte ad opera dei monaci di Cluny.
Attraverso la "Carta di Carità", il testo base dell’ordine cistercense, viene nuovamente introdotto nella vita del monastero il lavoro manuale, viene accentuato il distacco dal mondo, per questo le abbazie cistercensi vengono costruite in luoghi isolati, viene riservata una maggiore attenzione ai poveri e agli umili. In campo economico l’operosità dei monaci cistercensi rende possibile una nuova bonifica che si aggiunge a quella delle epoche precedenti.
IL MONACHESIMO OCCIDENTALE
IL PERIODO DEGLI ORDINI MENDICANTI

Fino a questo periodo, il monachesimo occidentale è stato quasi esclusivamente benedettino; le riforme che si sono susseguite nei secoli, cluniacense, cistercense, certosina, camaldolese, si sono sempre riferite alla Regola di S. Benedetto, proponendosi, ognuna a suo modo, il ritorno alla primitiva purezza.
Nel XIII secolo la situazione cambia radicalmente: si diffondono diverse eresie, all’interno della Chiesa si verificano fenomeni di corruzione e mondanizzazione, si sgretola il sistema feudale e incominciano a formarsi le grandi città. Il monachesimo tradizionale entra in crisi: diminuiscono i monaci, nei monasteri non si rispetta più con precisione la Regola e molti patrimoni monastici finiscono nelle mani degli ambiziosi Signori locali.
Nascono però  nuovi movimenti religiosi, i più importanti dei quali sono quelli fondati da S. Francesco d'Assisi e da S. Domenico di Guzman. Gli ordini francescano e domenicano nascono nel primo ventennio del Duecento ed hanno molti tratti in comune: rifiutano qualunque tipo di ricchezza e per vivere non si affidano al lavoro agricolo, come gli ordini di derivazione benedettina, bensì alla carità dei fedeli; da qui il nome di ordini mendicanti. Francescani e domenicani usano denominarsi frati, fratelli, e non monaci, cioè uomini solitari, e vivono in conventi, luoghi in cui radunarsi, e non in monasteri, cioè luoghi in cui isolarsi. I conventi non sorgono più in luoghi distanti dai centri abitati, ma nei sobborghi delle città ed anche l’impianto architettonico delle chiese, destinate ad accogliere numerosi fedeli e non più solo la comunità monastica, si trasforma in base alle nuove esigenze.
IL MONACHESIMO OCCIDENTALE
IL PERIODO DELLA DECADENZA

Nel ‘400 e nel ‘500 la presenza degli ordini religiosi non risulta più così incisiva per la società e la cultura come nei secoli precedenti.
La decadenza dei monasteri è causata anche dall’istituzione della commenda, che consiste nell’affidare la gestione dei beni del monastero ad un superiore che non vi risiede. Questa soluzione è stata pensata per sottrarre il monastero alle difficoltà dell’ambiente e ai contrasti interni, ma nella maggioranza dei casi questo provoca la distruzione di grandi abbazie, perché i superiori sono estranei alla vita monastica, si disinteressano dei veri problemi della comunità e si limitano a percepirne le rendite. Ai primi del 1400, nel monastero di Santa Giustina a Padova ha origine una risposta a questo problema: si crea una grande congregazione, nella quale ogni monastero può ricevere dagli altri l’aiuto per superare le difficoltà, evitando così l’intromissione dei commendatari nella vita dei monasteri. In questa congregazione tutti i monasteri sono sullo stesso piano e i documenti scritti durante i capitoli generali, le riunioni dei responsabili di ogni monastero, ci testimoniano con quanta attenzione la vita di ogni singola comunità monastica è seguita.

LA GIORNATA

 Ciascun momento della vita quotidiana del monaco, dalla preghiera al lavoro, dal pasto al riposo, ha un valore particolare ed è regolato e organizzato con grande attenzione.


La giornata del monaco appare, confrontandola con lo stile di vita in vigore nel Medioevo, qualcosa di straordinario. L’idea di dividere la giornata secondo un ordine preciso, di mangiare e di riposare in ore determinate, di stabilire e rispettare regole per un’ordinata convivenza, costituisce una novità per quel tempo. Questo non significa che i monaci siano prigionieri delle indicazioni della Regola: essi sanno che il bene per la loro vita è amare solo Gesù e non seguire i loro desideri e i loro stati d’animo; l’obbedienza alle indicazioni della Regola è, allora, il sostegno per il loro cammino e non un ostacolo.
I monaci sono uomini che vivono del proprio lavoro e perciò le loro giornate sono differenziate secondo le stagioni: la primavera è il tempo delle semine, l’estate quello del raccolto, l’autunno quello della vendemmia e l’inverno quello durante il quale ci si può dedicare per più tempo alla lettura e alle attività interne al monastero.
Ma il tempo del monaco è soprattutto un tempo ritmato dalle feste cristiane, che rendono ogni giorno diverso dagli altri: la domenica e i giorni feriali, le grandi feste della Pasqua, della Pentecoste, del Natale con i relativi periodi di preparazione, le feste del Signore, della Madonna e dei Santi.
Liturgia delle Ore
Nel mondo latino il dì e la notte erano divisi in 12 parti uguali che avevano, in relazione alla stagione, una durata variabile: le ore del dì erano lunghe in estate e corte in inverno. Facendo riferimento ai periodi più vicini agli equinozi, si era soliti indicare con termini di prima, terza, sesta e nona rispettivamente le ore intorno alle 6, alle 9, alle 12 e alle 15. L'antico sistema orario latino va a riflettersi inizialmente nella denominazione delle ore stabilite dalla Chiesa per la celebrazione dell'ufficio divino; passò poi a indicare le varie parti dell'ufficio stesso da recitarsi in quelle determinate ore. "Sette volte al giorno io ti lodo" e "nel cuore della notte mi alzo a renderti grazie": così troviamo nella Sacra Scrittura. Di conseguenza inizialmente i momenti di preghiera erano otto: mattutino (nella notte), lodi, prima, terza, sesta, nona, vespro, compieta. Lodi e Vespro sono le parti principali della liturgia delle ore e ne costituiscono i cardini. Tra Lodi e Vespro si collocano le preghiere di terza, sesta e nona che costituiscono l'ora media. La preghiera della giornata si chiude con la recita della Compieta.

LA GIORNATA
IL LAVORO


Nella scansione quotidiana del tempo, molta importanza rivestono i momenti del lavoro mattutino e pomeridiano. Per il monaco il lavoro, sia esso manuale o intellettuale, è partecipazione all’attività creatrice di Dio. Da questa consapevolezza nascono le opere e le innovazioni che, partendo dai monasteri, si diffondono in tutta Europa, contribuendo alla sua evoluzione. "L’ozio è nemico dell’anima e perciò i fratelli in determinate ore devono essere occupati in lavori manuali" dice la Regola di Benedetto. E ancora: "E’ proprio allora che essi sono veramente monaci, quando vivono del lavoro delle proprie mani, come fecero i nostri padri e gli apostoli". Il lavoro nel monastero ha, perciò, uno scopo ascetico e non economico, poiché è partecipazione alla missione che Dio ha dato all’uomo di essere artefice del mondo.
La consapevolezza che ogni istante della giornata, ogni attività, dalla preghiera all'opera più umile, è gesto di offerta e di incontro con Dio, detta anche le modalità con cui costruire gli ambienti di lavoro: nello scriptorium, nell’officina del fabbro o nella grangia l’architettura è pensata con la stessa bellezza e dignità che si riscontrano nella chiesa; anche questa continuità stilistica aiuta a richiamare il senso unico della vita del monaco. Il monaco non ha la vocazione di coltivare, dissodare, prosciugare paludi, allevare api, produrre vino o formaggi, copiare codici o insegnare. Egli non ha che scopi spirituali. Tuttavia la presenza e l'azione dei monaci sono all’origine di un movimento economico e culturale che contribuirà all’evoluzione della civiltà europea. Spinti dalla fede intensa che li anima e dovendo provvedere autonomamente alla propria sussistenza, i monaci incominciano a dissodare, irrigare, prosciugare, fare i contadini e i pastori e riescono a rendere vivibili lande deserte, paludi infinite, foreste selvagge.
Grangia
In origine la grangia è costituita dagli edifici rurali edificati sui terreni di un'abbazia benedettina per la custodia dei prodotti agricoli. Quando si sviluppa l'agricoltura con il diffondersi dei Cistercensi, la grangia si trasforma in un insieme di edifici, esterni alle costruzioni dell’abbazia, composto da alcuni locali di soggiorno, da una locale con altare e dai depositi per gli attrezzi e per i raccolti. Diventa un distaccamento della comunità monastica, simile a una piccola azienda agricola, abitata dai conversi, dipendente dal cellerario e generalmente lontana dall'abbazia un giorno di cammino. A volte la popolazione laica di salariati che faceva capo alla grangia la ampliò in villaggi rurali.
Terminato il lavoro, gli strumenti vengono restituiti al responsabile. Per lavoro non si deve intendere, però, solo quello agricolo, ma tutto ciò che riguarda la vita della comunità: dall’allevamento e produzione agricola, alla costruzione, alla manutenzione e alla pulizia del monastero, dalla trascrizione dei codici allo studio. Grande importanza ha il lavoro di copiatura dei manoscritti. Copiare libri è una necessità, perché nel Medioevo sono rari e costosi e ne occorre una certa quantità per assicurare la lettura a tutti i monaci; e questo lavoro richiede sicuramente molta fatica, quanto quello dei campi. Gli scriptoria dei monasteri diventano delle fucine di cultura e di bellezza, ma il lavoro di copiatura non ha come scopo la produzione di opere d’arte, ma di strumenti utili ai monaci per il proprio cammino spirituale.

 

LA GIORNATA
I PASTI

Il momento del pasto segue un preciso rituale, poiché per i monaci mangiare non significa solo nutrirsi, ma soprattutto comunicare, nel silenzio, con il prossimo e con Dio e non si può comunicare dove c’è disordine. Pur vivendo nella povertà, il monaco rispetta precise regole per l’etichetta a tavola, dalla cura per gli oggetti, al silenzio assoluto. Tutto nel monastero deve richiamare al monaco il senso della sua vita; il modo stesso di preparare la tavola varia secondo il ritmo dell’anno liturgico. Sapendo in quale modo disordinato, sporco e rumoroso si svolgevano i pasti nel medioevo, anche nei palazzi di principi e re, si comprende lo stupore e la meraviglia di coloro che potevano partecipare ai pasti dei monaci.
L’alimentazione è cambiata molto durante i secoli da un ordine religioso all’altro, da una regione all’altra, ma, nonostante le diversità, nei monasteri il cibo non è mai abbondante e frequenti sono i digiuni. Intorno al XII secolo, nei monasteri cistercensi per la maggior parte dell’anno il pasto è unico in tutta la giornata; solo nel periodo estivo e nei giorni festivi, tranne in Avvento e in Quaresima, sono due. I pasti sono generalmente molto frugali: è consentita la carne solo per i malati e gli ospiti; il pesce e probabilmente anche il formaggio sono riservati per le grandi occasioni. Solitamente si servono due "pietanze cotte": il primo è una specie di polenta a base di orzo, il secondo a base di legumi. A queste è possibile aggiungere un terzo piatto a base di frutta o verdura fresca. A ogni monaco spetta giornalmente una quantità di pane pari a 350 grammi circa. Si tratta di un cibo poco equilibrato, che ingrassa i monaci e li espone ai commenti non sempre benevoli della gente del popolo.
Quando non c’è la cena, si prende una tisana calda a base di tiglio o di camomilla, per facilitare il sonno della notte.
Così è organizzato il momento del pasto. Al termine del lavoro i monaci si cambiano d’abito e si riuniscono nel chiostro: al suono della campana si lavano le mani nel lavabo posto di fronte al refettorio e poi prendono posto davanti alla tavola dove attendono l’arrivo dell’abate che deve pronunciare la preghiera. Un lettore, da un piccolo pulpito, legge brani della Sacra Scrittura e i monaci mangiano, ascoltando la lettura, in silenzio, senza guardare nel piatto degli altri, ma, nonostante questo, attenti a segnalare a colui che serve se al vicino manca qualcosa. Finito il pasto, depongono con cura le posate nel piatto, raccolgono le briciole di pane e al segnale dell’abate che dà fine alla lettura, si dispongono davanti alla tavola, pronunciano una preghiera di ringraziamento, si inchinano ed escono dal refettorio.
La Regola di Benedetto ammette nell’alimentazione quotidiana dei monaci il consumo del vino, nella quantità di un quarto di litro circa, che può essere aumentata, a discrezione dell’abate e allungata con acqua, in relazione alle esigenze locali, al lavoro, al caldo. In alcuni monasteri si beve anche la birra che può essere considerata come un ripiego in mancanza di vino. L’idromele è invece riservato ai giorni di festa.
LA GIORNATA
IL CANTO


I monaci esprimono nel canto la loro vocazione di essere voce del creato e dell’umanità, chiamati a glorificare Dio e a ringraziarlo per tutti i suoi benefici.. Il canto gregoriano si propone di guidare chi lo canta e chi lo ascolta all’Essenziale, cioè a Dio, tramite la contemplazione. Nato 1500 anni fa, il canto gregoriano è l’insieme del repertorio musicale dei canti liturgici della Chiesa Romana Cattolica. La sua caratteristica è di essere un canto monodico, cioè a una voce sola, senza accompagnamento di alcuno strumento. I cristiani, quando con l’editto di Costantino diventano liberi di professare la loro fede, cantano semplici melodie sulle parole dei salmi, come facevano gli Apostoli a Gerusalemme
Con la diffusione del Cristianesimo, si differenziano anche i testi e i modi di cantare, così che Papa Gregorio Magno nel 600 inizia a unificare i vari canti liturgici e nasce un nuovo repertorio che verrà denominato canto gregoriano. Tra il VII e il IX secolo il repertorio si amplia e i fedeli imparano le melodie a memoria: la trasmissione del canto avviene per via orale. Intorno all’850 si incomincia ad utilizzare la scrittura musicale, cioè si scrivono a penna sulla pergamena, al di sopra delle parole dei canti, alcuni segni, i neumi, che indicano il ritmo e l’espressione del canto: solo chi ha imparato a memoria le melodie è in grado di eseguirle. Nell'XI secolo il monaco Guido d’Arezzo precisa la scrittura musicale, definisce l’intervallo tra le varie note a ciascuna delle quali attribuisce un nome, Ut, Re, Mi, fa, Sol, La, e mette a punto il sistema di scrittura delle note su 4 righi, il tetragramma. Questa invenzione purtroppo segna l’inizio della decadenza del canto gregoriano che perde freschezza e diventa più tecnico. Nascono le prime polifonie, cioè canti a più voci, basate sul gregoriano. Il canto gregoriano apre così la strada a grandi compositori, come Bach e Mozart, che tanto hanno attinto a questo canto. Nel 1800 il canto gregoriano perde completamente la sua autenticità: diventa noioso e senza vita. Grazie al lavoro di ricerca dei monaci benedettini dell’abbazia di Solesmes in Francia, il canto gregoriano ritrova la sua autenticità e bellezza. Il Concilio Vaticano II (1959-1965) conferma l’uso di questo canto, riconoscendolo come proprio della liturgia romana.
Note musicali
Ut queant laxis Resonare fibris / Mira gestorum Famuli tuorum / Solve polluti Labii reatum / Sancte Iohannes. Così inizia un inno dedicato a San Giovanni e scritto da Paolo Diacono, il grande monaco e storico medioevale. Guido, monaco nato forse ad Arezzo o forse presso l’abbazia di Pomposa nel 995 circa e morto nel monastero camaldolese di Avellino nel 1050, fissò i nomi dei primi sei suoni dell'esacordo, la scala musicale fondamentale, utilizzando le prime sillabe di questo inno. Successivamente il nome della settima nota, il si, fu ricavato dalle iniziali del nome latino di San Giovanni. Fu solo a partire dal XVII secolo che in Italia, per ragioni eufoniche e su proposta di Giovanni Battista Doni, il nome della prima nota fu cambiato da Ut in Do.

LA GIORNATA
IL RIPOSO


Il riposo notturno per il monaco inizia dopo la recita della preghiera di Compieta, tra le 18,30 e le 20, a seconda dell’ordine a cui appartiene, e termina ancora nel cuore della notte, intorno alle 2,30 con il suono della campana che chiama alla preghiera comunitaria. E’ previsto un momento di riposo anche nel pomeriggio. Il dormitorio, secondo le indicazioni della Regola di S. Benedetto, è in comune e i monaci Cistercensi in particolare prendono alla lettera questa indicazione. Si dorme tutti in un unico stanzone su dei pagliericci. Sono proibiti lenzuola e altri arredamenti del letto. Nel dormitorio arde sempre una lampada ad olio. Si dorme vestiti, perché i monaci siano pronti ad alzarsi appena dato il segnale.
Tutto questo non è certo confortevole, comporta un notevole sacrificio e sono molti i tentativi dei monaci e degli abati di conquistare un minimo di riservatezza durante il riposo.

 

GLI AMBIENTI

Il chiostro
Il chiostro è il giardino interno del monastero, circondato da quattro corridoi. Il suo nome deriva dal latino "claustrum" che significa chiuso. Infatti il chiostro non ha sbocchi verso l’esterno e comunica solo con il cielo per ricordare al monaco l’unico motivo della sua vita: avere la mente fissa in Dio. Il chiostro è il cuore del monastero perché è il centro della vita dei monaci: qui si trovano prima e dopo il lavoro, meditano, ascoltano alla fine della giornata la lettura spirituale, fanno le processioni nei giorni di festa solenne. Tutti i locali del monastero sono collegati con il chiostro. I suoi quattro lati, disposti ognuno secondo un punto cardinale, oltre che ospitare i luoghi della vita comune, richiamano le quattro virtù dei monaci: disprezzo di sé, disprezzo del mondo, amore del prossimo, amore di Dio. Il lato nord è quello che ricorda al monaco la virtù dell’amore di Dio: guarda a mezzogiorno, dove il sole è più alto e splendente, ed è il lato riservato alla preghiera. Il lato est è il lato della virtù del disprezzo di sé e guarda al tramonto, al sole che cala; qui si trovano gli ambienti che ricordano al monaco di non chiudersi in sé, confidando solo sulle proprie forze. Il lato sud ricorda al monaco la virtù del disprezzo del mondo e guarda alla notte. Il lato ovest è il lato della virtù dell’amore del prossimo e guarda all’alba, al sole che sorge; qui si fa la carità ai pellegrini, ai malati, ai poveri.

Il lavabo
Nel lato sud del chiostro, in prossimità del refettorio dei coristi, si trova il lavabo, dove i monaci possono lavarsi la mattina, prima dei pasti e prima di andare in chiesa. Spesso è coperto per riparare i monaci durante i giorni di cattivo tempo. L’acqua, opportunamente incanalata, giunge qui dal corso d’acqua che scorre nei pressi dell’abbazia e che alimenta anche la cucina e i servizi. La posizione del lavabo non è centrale rispetto al chiostro, ma rispetto alla costruzione dell’intero monastero perché questa fonte d’acqua ricordi sempre al monaco il centro della sua vita: Cristo, fonte d’acqua viva.

La sala capitolare
Qui i monaci si riuniscono ogni giorno per la lettura di un capitolo della Regola di S.Benedetto: da questo il nome di sala capitolare. Sempre qui i monaci si riuniscono per ascoltare il Martirologio, prendono le decisioni importanti per la comunità, eleggono gli abati, accolgono i candidati alla vita monastica e danno l’estremo saluto ai defunti. La sala capitolare è, quindi, per la vita del monaco, il locale più importante dopo la chiesa. Per entrare nella sala capitolare i monaci scendono alcuni gradini in segno di umiltà, visto che qui i religiosi si autoaccusano davanti ai confratelli delle proprie mancanze nei confronti della Regola e l’abate assegna le punizioni. Il sedile dell’abate è al centro della parete orientale, mentre gli altri monaci trovano posto sul sedile in muratura che corre lungo le pareti. Sulla parete occidentale, quella che si apre sul chiostro, ci sono delle finestre, alle quali si affacciano i conversi per assistere alle riunioni, visto che essi non hanno diritto di accesso

 

L'EDIFICAZIONE
IL LINGUAGGIO


L’architettura monastica, attraverso il suo linguaggio materiale, deve ricordare ogni giorno al monaco i valori della sua vita spirituale e deve essere introduzione all’incontro con Dio.
Visitando un’abbazia non sempre, noi uomini d’oggi, siamo in grado di leggere questo messaggio nella sua completezza. Per avviarci a comprendere questo linguaggio, prendiamo come esempio la chiesa abbaziale cistercense di Morimondo. Già da un esame esterno la struttura ci parla dell’umiltà: l’utilizzo dei mattoni, fatti di argilla che per la zona non è un materiale ricercato o prezioso, le murature lineari e sobrie, comprese quelle delle absidi, l’assenza di un alto campanile, ma la semplice presenza di una torre nolare, che si innalza all’incrocio tra transetto e presbiterio, da dove risuonava l’unica piccola campana del monastero. Sulla facciata si intravedono delle scodelle maiolicate inserite fra i mattoni, simboli della carità dei monaci verso i pellegrini che qui trovavano cibo e ospitalità.
La chiesa, come tutte le chiese antiche, è orientata, cioè ha l’abside rivolta verso est: la luce entrando la mattina dalle finestre dell’abside ricorda al monaco, già dalle prime ore del giorno, che Cristo è la vera luce del mondo. Anche la pianta della chiesa ha un suo significato simbolico: è una pianta a croce latina che viene facilmente associata al corpo di Cristo in croce. In alcune chiese, sempre facendo riferimento al corpo di Cristo in croce, l’abside è inclinata rispetto all’asse centrale per ricordare il capo reclinato del Cristo morente. Quando i monaci cistercensi che vivevano nel monastero si sistemavano nel coro per cantare le lodi e le preghiere a Dio, percepivano di essere il respiro e la voce di Cristo nel mondo, proprio per la posizione nella quale il coro era anticamente sistemato: in corrispondenza della cassa toracica del Crocifisso.
Per non distrarre il monaco dalla meditazione e dalla preghiera, non si trovano vistose decorazioni e gli affreschi oggi esistenti sono stati realizzati molto tempo dopo rispetto all’edificazione della chiesa. Nella sua struttura muraria si possono notare molte imperfezioni e asimmetrie, come ad esempio gli archi delle campate acuti sul lato nord e a tutto sesto sul lato sud e i pilastri e le colonne più alti a destra che a sinistra.
Tutto questo non per incapacità costruttiva, ma per richiamare sempre al monaco che solo Dio è perfetto; inoltre, per far memoria della molteplicità del creato e della fantasia del Creatore, nella chiesa si possono notare capitelli tutti differenti l’uno dall’altro.
Camminando dalla porta d’ingresso e dirigendosi verso l’altare, ci si può accorgere che il pavimento della chiesa sale: Cristo salendo al cielo promise di "attirare tutti a sé". Anche le proporzioni, oltre che per motivi di praticità costruttiva, non sono lasciate al caso, ma attraverso i loro numeri ricordano i fondamenti della fede. 1 e 3 come l’Unità e la Trinità di Dio ad esempio attraverso le tre finestre in un’unica abside, 8 per ricordare il giorno della risurrezione dei corpi con gli otto lati dei pilastri che sorgono a metà navata. Passando al chiostro i suoi quattro lati ricordano al monaco le sue quattro virtù e, visto che il chiostro comunica solo con il cielo, richiamano la sua mente ad essere sempre fissa in Dio. Infine c’è da notare che tutti i locali, qualunque sia lo scopo al quale essi sono adibiti, hanno una struttura simile, semplice, lineare ed al tempo stesso elegante perché per il monaco ogni attività, e non solo la preghiera, deve essere una lode a Dio.

Tempo della chiesa e tempo del mercante

Il Medioevo cristiano occidentale ha assimilato in maniera profonda il senso trascendente ed escatologico del tempo: il dies è scandito dal rintocco delle campane dei monasteri e delle chiese che segnano l’ora della preghiera, del lavoro, dei pasti e del sonno. Si tratta della prima esperienza del tempo autenticamente condivisa da una larga fascia della popolazione, entro spazi geografici profondamente diversi.
“Il tempo ormai si è fatto breve” (I Corinzi, 7,29): la fine del tempo storico e l’avvento del tempo del Giudizio viene avvertita in ambienti religiosi anche poco ortodossi, come le eresie escatologiche o le forme estreme del millenarismo.
Nella comunità (koinè) del tempo cristiano condiviso comincia a farsi strada, a partire dal Basso Medioevo, l’idea di un tempo diverso che è il tempo dei commerci, del periodo che separa l’impegno di pagamento dal saldo. Come ha insegnato Le Goff,  ) al tempo della Chiesa comincia ad affiancarsi il tempo del mercante: il primo appartiene a Dio, il secondo appartiene all’uomo. Venne allora dibattuta la questione se il tempo, che appunto appartiene a Dio, potesse essere oggetto di scambio e compravendita come avviene nelle dilazioni di pagamento o nell’usura. Eppure aldilà delle quaestiones teologiche, il tempo diviene misurabile, segna le distanze in giornate di viaggio delle merci, scandisce le giornate e gli orari dei mercati pubblici: si diffondono le torri degli orologi erette spesso di fronte alle torri campanarie, il tempo si urbanizza e si distacca progressivamente dal ritmo dell’ambiente naturale, della semina e del raccolto.
La pittura introduce la prima dimensione temporale con l’approfondimento del campo e la visione simultanea delle figure in azione, la letteratura rivoluziona il tempo del racconto, dalla visione eterna o atemporale (la grande visione dantesca) alla visione storica, dinamica, fatta di cornici, flash-back, intreccio (Boccaccio).
Tempo della Chiesa e tempo del mercante sono compresenti nella prospettiva dell’uomo medievale e questo porta a una concezione soggettiva e individuale del tempo. Così Le Goff: “Forse c’è un nesso più stretto di quanto si creda e di quanto essi stessi senza dubbio pensassero fra le lezioni dei maestri di Oxford e di Parigi e le imprese dei mercanti di Genova, Venezia, Lubecca, al tramonto del Medioevo. Forse proprio sotto la loro azione congiunta il tempo si spezza e il tempo dei mercanti si libera dal tempo biblico, che la Chiesa non sa conservare nella sua ambivalenza fondamentale” (J.Le Goff,Tempo della Chiesa, tempo del mercante, 1977)

 

 

 

Fonte: https://3bcorso2012-13.wikispaces.com/file/view/2.+Il_monachesimo_occidentale.doc

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