Risorgimento italiano

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Risorgimento italiano

Capitolo VII

 

GLI ANNI DECISIVI DEL RISORGIMENTO ITA­LIANO (1859-1860). - Dopo il Convegno di Plombières numerosi indizi rivelarono all'Europa la guerra imminente.
Il 1° gennaio 1859, Napoleone III, in occasione dei rice­vimento del corpo diplanìatic~ p e, gli auguri dí Capodanno, si dolse con l’ambasciatore austriaco Hübner che le relaziori della Francia col governo austriaco non erano così buone come nel passato.
Il 10 gennaio dell0 stesso anno, Vittorio Emanuele II, in occasione dell'apertura del Parlamento, pronunciò nel di­scarso della Corcna le famose parole: nel mentre che ri­spettiamo i trattati, non siamo insensibili al grido di dolore che da tante parti d'Italia si leva verso di noi »
Frattanto il Cavour, dato il carattere difensivo dei patti di Plombières, cercava in ogni modo di provocare l'Austria alla guerra: egli si accordò con Garibaldi e gli affidò l'orga­nizzazione di un corpo di volontari, detti Cacciatori delle Alpi; favorì l’esodo in Piemonte dei giovani coscritti lom­bardi che venivano accolti con simpatia nell'esercito piemon­tese (l'Austria stessa dichiarò che questa era ragione sufficiente di guerra); chiese in Parlamento prestiti straordinari; preparò, mediante la Società Nazionale, una rivoluzione nel­l'Italia centrale (Massa e Carrara), per provocare il granduca di Toscana che era sotto la protezione dell'Austria, ecc.
Ma l'opera del Cavour trovò contro di sè gravi difficoltà, sia per parte dello stesso Napoleone III che, sotto l'influenza dell'opinione pubblica francese, ostile alla formazione di un grande Stato nell'Italia settentrionale e piena di timori per il dominio temporale dei Papi, parve esitare (il Cavour stesso fu costretto a correre a Parigi, per ricordare all'impe­ratore i patti di Plombières ); sia per parte dell'Inghilterra che, per scongiurare la guerra, offerse la sua mediazione, suggerendo l'idea di un Congresso europeo.
Napoleone III accettò volentieri la proposta e Vittorio Emanuele II fu costretto a piegarsi dinanzi alla volontà del­le grandi Potenze.
Cavour visse giorni di angosciosa esasperazione: un Con­gresso avrebbe portato a risultati parziali, annullando tutta la sua paziente opera diplomatica per il compimento dell'in­dipendenza italiana.
Ad ogni modo l'orgoglio dell'Austria mandò a vuoto le trattative diplomatiche: essa propose che al Congresso non dovessero partecipare gli Stati italiani; che non si dovesse discutere di alcuna modificazione territoriale; e, temendo che la politica franco-piemontese tendesse a procrastinare le cose per preparare meglio la guerra, inviò un ultimatum al Piemonte per l'immediato disarmo dei volontari (23 aprile 1859).
Il Piemonte non potè far altro che rifiutare le arbitrarie imposizioni austriache, rendendo così inevitabile lo scoppio delle ostilità. Aveva così inizio la seconda guerra dell'indi­pendenza italiana.

LA SECONDA GUERRA D'INDIPENDENZA (1859) - Prima fase della guerra (29 aprile-7 giugno). Il 29 aprile l'esercito austriaco, agli ordini del generale Gyulai, passò il Ticino ed avanzò fino a Chivasso (a 30 km. circa da Torino), nella speranza di battere l'esercito piemon­tese prima che giungessero gli aiuti francesi; ma trovò un ostacolo inatteso nell'allagamento del terreno basso e palu­doso (risaie) della Sesia, provocato dai Piemontesi.
Questo ostacolo, ritardando la marcia dell'esercito austriaco, fu fatale al Gyulai, poichè frattanto i Francesi pote­rono congiungersi coi Piemontesi (12 maggio), mentre Na­poleone III, sbarcato a Genova, assumeva il comando su­premo.
L'esercito franco-piemontese finse allora di ammassarsi sulla destra del Po, come per tentare di passare il fiume a Piacenza; mentre in realtà il grosso dell'esercito doveva pas­sare il Ticino più a nord, puntando con la maggiore celerità possibile su Milano allo scopo di tagliare agli Austriaci la via del Quadrilatero.
Infatti, mentre le truppe franco-piemontesi fingevano di puntare su Piacenza, infliggendo al nemico la sconfitta di Montebello (20 maggio), il grosso dell'esercito francese si spostava rapidamente verso il Ticino, passandolo al ponte di Boffalora.
Intanto Vittorio Emanuele II, per mascherare il movi­mento, si scontrò con gli Austriaci a Palestro (30-31 mag­gio), e, con l'aiuto di un reggimento di zuavi francesi, li respinse tanto valorosamente da meritarsi dai suoi alleati il titolo di caporale d'onore.
Il Gyulai, accortosi dell'equivoco, accorse allora per arre­stare l'avanzata nemica su Milano, ma a Magenta (4 giu­gno), dopo una battaglia a lungo incerta, fu sbaragliato dal generale francese Mac-Mahon, a cui Napoleone III diede poi il titolo di duca di Magenta.
Quattro giorni dopo Napoleone III e Vittorio Emanue­le II facevano il loro ingresso trionfale a Milano, mentre gli Austriaci si ritiravano al di là del Mincio, sgombrando tutta la Lombardia.
Frattanto Garibaldi coi suoi Cacciatori delle Alpi, passato il Ticino a Sesto Calende, aveva sconfitto gli Austriaci a Varese (24 maggio) e a S. Fermo (27 maggio), entrando in Como; e per Lecco, Bergamo, Brescia, era passato in Valtel­lina, col proposito di penetrare nel Trentino e tagliare in tal modo la ritirata agli Austriaci.
La rivoluzione dell'Italia centrale. - La guerra eb­be le sue ripercussioni nell'Italia centrale, dove gli elementi rivoluzionari (questa volta organizzati nella Società Nazionale)insorsero contro í rispettivi governi, invocando l'an­nessione al Piemonte.
A Firenze una grande dimostrazione popolare costrin­se il granduca Leopoldo II, che aveva rifiutato di parteci­pare alla guerra come alleato del Piemonte, ad abbandonare la Toscana (27 aprile).
Fu istituito un governo rovvisorio, a capo del quale Vittorio Emanuele nominò, come proprio rappresentante, un commissario regio, il conte Carlo Boncompagni, già am­basciatore piemontese presso il granduca.
A Parma fu costretta alla fuga la duchessa Maria Luisa, vedova di Carlo III (9 maggio), e fu nominato commissario regio il conte Diodato Pallieri.
A Modenafu costretto alla fuga il duca Francesca V (11 giugno), e fu nominato commissario Luigi Carlo Farini. Nelle Romagne, dopo il ritiro delle guarnigioni au­striache da Bologna e da Ferrara, fu nominato coimmissario regio Massimo d'Azeglio.
Anche le Marche e l'Umbria tentarono di insorgere contro il governo pontificio, ma il movimento fu soffocato qui na­scere dalle truppe svizzere, che a Perugia operarono una brutale repressione (stragi di Perugia, 20 giugno).
Naturalmente tutte queste rivoluzioni destavano le più vive preoccupazioni di Napoleone iII, facendo prevedere la formazione di un grande Stato unitario ai confini della Fran­cia e l'estensione del movimento rivoluzionario fino allo Stato pontificio.
Seconda fase della guerra (7 giugno-6 luglio). - La seconda fase della guerra si svolse sulle rive del Mincio. L'esercito austriaco, che ora si trovava sotto il comando dello stesso imperatore Francesco Giuseppe, avendo ricevuto dei rinforzi, volle ritentare l'offensiva, e, ripassato il Mincio, occupò le alture a sud del Garda, nella speranza di separare e battere le forze franco-piemontesi per marciare poi su Milano.
Napoleone III volle cacciare gli Austriaci da quelle al­ture e respingerli al di là del Mincio, ritenendo a torto che il grosso dell'esercito nemico non avesse ancora passato il fiume; ma i Francesi a Solferino e i Piemontesi a S. Mar­tino (24 giugno) si trovarono di fronte ad una resistenza accanita, e solo dopo ripetuti assalti riuscirono ad aver ragione dell'avversario.
Le due battaglie si conclusero con enormi perdite da en­trambe le parti.
Tutto procedeva favorevolmente per gli alleati, quando improvvisamente Napoleone III concluse con Francesco Giu­seppe l'armistizio di Villafranca (11 luglio 1.859), in cui si stabilivano le seguenti condizioni:
a) la Lombardia (tranne Mantova e Peschiera) era ceduta alla Francia, che a sua volta la consegnava al Pie­monte.
b) la Toscana, Parma,Modena e le Romagne avreb­bero dovuto tornare ai loro principi «legittimi », ma senza intervento straniero.
c) gli Stati italiani, compresa la Venezia austriaca, avrebbero formato una Confederazione sotto la presidenza onoraria del Papa.
L'armistizio di Villafranca fu considerato dagli Italiani un vero tradimento; ma dal punto di vista francese essa costituiva una inevitabile necessità, per un duplice ordine di ragioni­:

  1. politiche, in quanto le rivoluzioni dell'Italia cen­trale avevano - come si è accennato - destato le più vive preoccupazioni di Napoleone III, facendo prevedere la formazione di un grande Stato unitario ai confini della Francia e l’estensione del movimento rivoluzionario fino allo Stato pontificio;
  2. militari, in quanto l’esercito austriaco aveva opposto a Solforino e a S.Martino una valida resistenza; mentre la Prussia stessa (che Napoleone sperava neutrale), temendo la rinascita di una egemonia napoleonica in Europa, andava mobilitando ai confini della Francia.

Si aggiungano le preoccupazioni dell'imperatore francese per le impressionanti perdite di vite umane subite a Sol­ferino.
Ad ogni modo, mentre Vittorio Emanuele II dovette con molta amarezza subire il fatto compiuto, Cavour,accorso da Torino, manifestò il suo vivissimo sdegno, non esitando a rassegnare le proprie dimissioni.
Napoleone III, a sua volta, rinunciò a Nizza e alla Savoia.

LE ANNESSIONI DELL'ITALIA CENTRALE. - L'armistizio di Villafranca, che aveva risolto soltanto a metà il problema dell'indipendenza (poichè l'Austria continuava a mantenersi saldamente in Italia) e che pareva dovesse ri­mandare ad un lontano avvenire il problema dell'unità (poichè i prìncipi spodestati si erano visti riconosciuto il diritto di rientrare nei loro domini), si rivelò invece un valido strumento per far progredire l'unificazione della pe­nisola, mediante l'annessione dell'Italia centrale.
Infatti i patti di Villafranca avevano stabilito che i prin­cipi spodestati sarebbero dovuti rientrare nei loro possessi, ma senza intervento straniero (l'Austria era convinta che le stesse popolazioni, come già nel 1849 in Toscana, avreb­bero richiamato i loro prìncipi spontaneamente); e Vittorio Emanuele, per suggerimento di Napoleone, si era limitato a firmare «pour ce qui me concerne», come per sottinten­dere che riceveva la lombardia, ma non prendeva alcun impegno per l’assetto dell’Italia centrale.
Dopo Villafranca il ministero Rattizzi-Lamarmora (succeduto al ministero Cavour) fu costretto a richiamare i commissari regi; ma le popolazioni elessero, al posto dei commis­sari regi, dei dittatori (che derivavano il loro potere dalla volontà popolare), come Bettin Ricasoli per la Toscana, Luigi Carlo Farini per l'Emilia e la Romagna; convocarono delle Assemblee costituenti, col compito di decretare l'an­nessione al Piemonte (ma l'Austria e la Francia vi si oppo­sero decisamente); e si prepararono in ogni modo alla resi­stenza.
Nel frattempo, due fatti intervennero a risolvere la situa­zione in favore del Piemonte:
a) l’Inghilterra, ove era salito al potere il ministro li­berale Lord Palmerston, anche per sottrarre il nuovo stato che stava per sorgere nel Mediterraneo alla influenza della Francia, cominciò ad appoggiare apertamente l'Italia e ad insistere presso tutti i governi perchè la volontà delle popo­lazioni dell'Italia centrale fosse rispettata.
b) Napoleone III si accostò nuovamente al Piemonte e ai liberali italiani, facendo intendere che, in cambio di Nizza e della Savoia, si sarebbe disinteressato dell'Italia centrale.
In queste circostanze riprese il potere Cavour, il quale, sicuro del consenso inglese e francese, mandò una nota ai governi d'Europa, per comunicare che Vittorio Emanuele II non avrebbe potuto più a lungo op­porsi al volere delle popolazioni; e promosse i plebisciti (11 e 12 marzo 1860), che dettero una enorme maggio­ranza per l'annessione al Piemonte.
In tal modo la Toscana, l'Emilia e la Romagna entrarono a far parte del Regno di Vittorio Emanuele II; mentre Nizza (con grande dolore di Garibaldi) e la Savoia (con non minore dolore di Vittorio Emanuele II) venivano cedute alla Francia.

 

LA SPEDIZIONE DEI MILLE. - Il Regno delle Due Sicilie non aveva partecipato alla guerra d’indipendenza, e, di fronte ai successi della politica e delle armi piemon­tesi, aveva assunto un atteggiamento di decisa ostilità.
Il giovane re Francesco II (Franceschiello), succeduto al padre nel maggio 1859, proprio quando si annunciavano i primi successi della guerra, invece di ascoltare i consigli di Vittorio Emanuele II, che lo esortava a concedere la Costi­tuzione e a combattere l'Austria, seguì la politica reazio­naria del padre.
Intanto, in seguito alle annessioni dell'Italia centrale, il sentimento dell'unità si era diffuso anche nel Meridione. Il partito rivoluzionario prese questa volta la mano al Ca­vour, e promosse la spedizione dei Mille.
In tal modo, mentre il partito sabaudo compì la conquista dell'Italia settentricnale e centrale, il partito rivoluzionario compì quella dell'Italia meridionale.
La rivoluzione in Sicilia. - La scintilla del moto ven­ne dalla Sicilia, in cui le tendenze autonomiste avevano ormai ceduto alle tendenze unitarie, sia del Mazzini (che nel 1857 aveva promesso la spedizione di Carlo Pisacane), sia e più della Società Nazionale (che tra i fondatori aveva avuto proprio un siciliano, La Farina).
A capo dei rivoluzionari siciliani era un giovane avvo­cato, Francesco Crispi.
Egli si recò con alcuni patrioti (il siciliano Rosolino Pilo, il genovese Nino Bixio, ilmilanese Bertani, ecc.) presso il governo piemontese per sollecitare una spedizione militare in Sicilia; e poichè Cavour vi si mostrò contrario per ti­more di un intervento delle Potenze straniere e della Francia (che temeva per il potere temporale del Papa), Crispi si rivolse a Garibaldi, che promise il suo aiuto nel caso che fosse scoppiato un serio moto insurrezionale nell'isola.
Si formarono allora a Palermo due comitati: uno di nobili, l'altro di popolani (con a capo lo stagnino Francesco Riso), che si accordarono per insorgere il 4 aprile 1860: ma l'insurrezione fu facilmente domata in città, e si rianimò solo nelle campagne per opera di Rosolino Pilo, sbarcato qualche giorno dopo a Messina con pochi compagni.
Ad ogni modo la notizia del moto indusse Garibaldi ad intervenire.
Pare che su questa decisione abbia avuto una certa parte anche Vittorio Emanuele II, che avrebbe favorito segreta­mente l'impresa; più cauto fu invece l’atteggiamento di Cavour, sempre preoccupato di evitare complicazioni inter­nazionali.
La spedizione (6 maggio–20 giugno 1860). - 1. Al­l'alba del 6 maggio i volontari garibaldini, accorsi in numero di oltre un migliaio da ogni parte d'Italia, dopo aver finto di impadronirsi di due piroscafi della Società Rubattino, il Piemonte e il Lombardo, salparono da Quarto (presso Ge­nova) diretti alla conquista della Sicilia e di tutta l'Italia meridionale.
Il giorno seguente sbarcarono a Talamone (in Toscana), ove Garibaldi si fece consegnare da quel forte le poche armi che vi si trovavano; e 1'11 maggio, eludendo la caccia delle navi borboniche, approdarono a Marsala,porto che proprio in quei giorni era stato sgomberato dalle forze militari.
Mentre avveniva lo sbarco sopraggiunsero due navi bor­boniche, che incominciarono a bombardare il porto e la città; ma, per la presenza di due navi inglesi, che correvano peri­colo di essere colpite, dovettero cessare il fuoco, e i Gari­baldini poterono ultimare lo sbarco.
A Salemi (14 maggio), sulla via di Palermo, Garibaldi pubblicò un proclama, in cui dichiarava di assumere la dittatura della Sicilia in nome dell’Italia e di Vittorio Emanuele II; e si unì con le prime squadre di insorti siciliani (i cosiddetti «picciotti»).
A Calatafimi (15 maggio) Garibaldi si scontrò con le truppe borboniche, agli ordini del generale Landi, che sbarravano la via di Palermo: la battaglia fu lunga e difficile; ma con una serie di assalti alla baionetta alla sera era vinta.
Rimaneva da conquistare Palermo, ma poiché la città dalla parte occidentale (Monreale) era ben difesa, Garibaldi operò un'abile mossa strategica:finse di ritirarsi nell'interno del­l'isola, seguito dall'esercito borbonico; ma, giunto in pros­simità di Corleone, ordinò che i carriaggi e una squadra di volontari continuassero per quella via, mentre egli a grandi marce ritornava sui suoi passi, si univa a Gibilrossa con 3.000 Siciliani al comando del La Masa, e piombava quasi di sorpresa in Palermo dalla parte di oriente (Porta Ter­mini) (27 maggio).
La battaglia per la conquista della città durò tre giorni; finché il generale Lanza, comandante della piazza, fu co­stretto ad un armistizio (30 maggio) e infine alla resa (6 giugno).
A questo punto il Cavour, visti i felici successi dell'im­presa, cominciò ad aiutare apertamente la spedizione dei Mille, sia favorendo nuove spedizioni di volontari, condotte dal Medici e dai Cosenz, sia inviando la stessa flotta piemon­tese, agli ordini dell'ammiraglio Persano, nel porto di Pa­lermo.
Rimaneva ora da conquistare la Sicilia orientale, ilche avvenne con la difficile battaglia di Milazzo (20luglio), contro il grosso delle truppe borboniche comandate dal co­lonnello Bosco.
In tal modo tutta l'isola era liberata.
2. Alla conquista della Sicilia seguì quella del Napole­tano.
Garibaldi, eludendo la crociera delle navi borboniche, nella notte dal 19 al 20agosto sbarcò in Calabria, occupò Reggio, e proseguì la marcia verso Napoli, tra lo sfacelo del­l'esercito borbonico e l'accoglienza trionfale delle popola­zioni.        .
Francesco II, dopo aver invano concesso la Costituzione e offerto l'alleanza al Piemonte, fu costretto a fuggire dalla capitale (6 settembre), dove il giorno seguente Garibaldi entrava tra le acclamazioni della popolazione.
Tuttavia, nonostante lo sfacelo generale, una buona metà dell’esercito borbonico (circa 50.000 uomini) era ancora in­tatta, e si era ritirata sulla linea del Volturno, facendo centro sulle formidabili fortezze di Gaeta e di Capua; mentre i Ga­ribaldini, in numero di circa 20.000 e privi di una flotta, minacciavano di trovarsi in condizioni piuttosto critiche.
Il 1° e il 2 ottobre ebbe infatti luogo la famosa battaglia del Volturno, in cui l'esercito borbonico sferrò un formi­dabile contrattacco, puntando su Napoli; ma, dopo una serie di tenaci combattimenti, con gravi perdite da ambo le parti, i garibaldini riportarono una completa e decisiva vittoria.

L'intervento piemontese. - 1. L'intervento piemon­tese fu deciso dal Cavour per un duplice ordine di motivi:
a) politica interna, in quanto si trattava di affermare l’autorità della monarchia di fronte al prestigio acquistato dagli elementi rivoluzionari; tanto più che il Garibaldi, col l'annessione della Sicilia al Piemonte, faceva nascere il sospetto di subire l'influenza dei mazziniani più radicali (il Mazzini era subito accorso a Napoli).
b) politica estera, in quanto si trattava di impedire che Garibaldi, come andava dichiarando, proseguisse la propria impresa e si dirigesse fino a Roma, provocando l’intervento della Francia.
Cavour ebbe a questo proposito un colloquio segreto con Napoleone III, il quale, anche per riacquistare le simpatie del popolo italiano, che dopo le annessioni dell'Italia centrale si erano rivolte all'Inghilterra, promise una benevola neutralità con le famose parole: « Faites vite! ».
Il 7 settembre 1860 il governo piemontese intimò al Papa il licenziamento delle milizie straniere, che, sotto il comando del generale Lamoricière, sierano segnalate in feroci repres­sioni e contribuivano a mantener vivo il fermento nelle Marche e nell'Umbria; e, ricevuta una risposta negativa, fece varcare i confini dello Stato pontificio da un esercito comandato dal generale Manfredo Fanti.
Il Fanti operò su due colonne, l'una sotto il generale Della Rocca, che doveva svolgere la sua azione nell'Umbria: e l'al­tra sotto il generale Cialdini, che doveva svolgere la sua azione nelle Marche.
La colonna del generale Della Rocca non incontrò molta resistenza, mentre la colonna del generale Cialdini si scontrò a Castelfidardo (18 settembre) con gli zuavi pontifici, che, per quanto inferiori di numero, si batterono valorosamente e, sconfitti, si rifugiarono in Ancona.
La città, assediata per terra dal Fanti e per mare dal Persano, dopo breve resistenza si arrese (29 settembre), mentre le Marche e l'Umbria, con voto plebiscitario, procla­mavano la loro annessione al regno di Vittorio Emanuele II.
2. Appena l'esercito piemontese ebbe varcati i confini del Napoletano, si manifestò un dissidio fra il Cavour e il Ga­ribaldi per il plebiscito: ilCavour desiderava convocare subito i comizi per il timore di un intervento diplomatico (proprio in quei giorni l'Austria, la Russia e la Prussia, dopo aver rotto le relazioni col Piemonte, avevano indetto un Congresso a Varsavia); il Garibaldi, invece, desiderava muovere prima di tutto su Roma.
Il Cavour chiamò allora il Parlamento a giudice tra lui e Garibaldi, ed ottenne un decreto con cui, per volontà della nazione, erano convocati i comizi in Sicilia e nel Napoletano.
Garibaldi dovette cedere, e convocò i comizi, che diedero un'enorme maggioranza per l'annessione al regno di Vittorio Emanuele II (21 e 22 ottobre).
Il 26 ottobre 1860 ebbe luogo l'incontro di Teano (presso Caserta), in cui Garibaldi salutò Vittorio Emanuele II col fatidico grido: « Saluto il Re d'Italia! », consacrando in tal modo il ritorno della rivoluzione sotto il segno della monar­chia: il 7 novembre il re e il generale entravano in Napoli tra l'entusiasmo della popolazione; il 9 novembre Garibaldi, deposta la carica di dittatore e rifiutato ogni compenso, partiva per Caprera con un sacco di sementi e con un rotolo di merluzzo salato.
3. Intianto l'esercito piemontese conduceva a termine l’impresa garibaldina.   
Le milizie borboniche, dopo la sconfitta del Volturno, si erano rinchiuse nella fortezza di Gaeta, dove, incitate dalla presenza del re e da quella della giovane regina Sofia di Baviera, opponevano una valida resistenza.
La città fu in principio assediata soltanto per terra, perchè Napoleone III, preoccupato della soverchia potenza piemontese, aveva inviato una flotta per impedire il blocco dalla parte del mare; ma, in seguito alle rimostranze energiche di re Vittorio Emanuele II e dell’'Inghilterra, la flotta fran­cese fu ritirata e la città costretta alla resa (13 febbraio 1861),
Francesco II e la regina Sofia, su una nave francese, parti­rono per Roma.

LA PROCLAMAZIONI- DEL REGNO D'ITALIA
Il 18 febbraio 1861 si inaugurò a Torino il primo Parla­mento Italiano; e il 17 marzo dello stesso anno Vittorio Emanuele fu proclamato Re d’Italia.
Il nuovo regno comprendeva ormai gran parte del terri­torio nazionale; rimanevano ancora fuori da esso il Veneto e lo Stato Pontificio.
Per il Veneto il Cavour cercò di iniziare trattative diplomatiche con la Prussia, nel caso di un conflitto austro­-prussiano; per lo Stato pontificio (comprendente Roma e la re­gione del Lazio), col Segretario di Stato di Pio IX, cardi­nale Antonelli: ma in entrambi i casi non riuscì a conclu­dere nulla.
Tuttavia, particolarmente per Roma, il Cavour non desistette dalla sua idea, e nel memorabile discorso tenuto nelle sedute del 25-27 marzo, che potrebbe considerarsi come il suo testamento politico, proclamò in Parlamento che « Roma deve essere la capitale d'Italia, perchè essa è l'unica città che non abbia una storia semplicemente municipale; perchè senza Roma capitale d'Italia, l'Italia non si può costituire ».
Meno di tre mesi più tardi, a soli 51 anni di età, il grande statista cessava di vivere (6 giugno 1861).

 

Fonte: http://www.calamandrei2013.altervista.org/risorgimento2.doc

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