Storia 1970 - 1980

Storia 1970 - 1980

 

 

 

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Storia 1970 - 1980

giovani e società  DAGLI ANNI ’70 AD OGGI
Gli anni settanta hanno rappresentato un momento cruciale per le società occidentali , e per l’Italia in particolare. Dal punto di vista politico e sociale sono stati segnati da turbolenze varie, dalla contestazione studentesca alla lotta armata, dalle maggiori rivendicazioni sindacali all’aumento di disoccupazione, dalla ridefinizione dei partiti classici (soprattutto della sinistra) alla nascita di nuovi soggetti politici.
Per il mondo giovanile indubbiamente il ’68 aveva rappresentato una svolta e, dal­le ricerche di quegli anni, si comprende quanto fosse elevato il silenzioso potenziale contestativo dei giovani, quan­to fosse viva l'ansia di rinnovare la società attraver­so una critica radicale alle sue istituzioni, e quanto fosse allettante la speranza di poter influire sulle strut­ture politiche. “Dapprima si mise sotto accusa l’autoritarismo nella scuola, poi si lottò per avere parte alla gestione del potere della scuola, infine si tese ad analizzare le in­terdipendenze tra scuola e società” (Tomasi, 1986, 105).
“Considerati i modi in cui quella ondata di ribellione investì il mondo degli adulti, sfuggirono in quegli anni le ragioni profonde, il significato, le istanze di un movimento così diffuso” (Tomasi, 1986, 105). In genere il mondo adulto si sentì minacciato dalla violenza contestativa (verbale e fisica) e si chiuse a riccio, nella difesa della tradizione. Infatti “uno degli elementi più tipici fu il rifiuto della tradizione elaborata e trasmessa dagli adulti; si ingenerò così il fenomeno del ‘giovanilismo’. Il rifiuto della tradizione postulava quello dell'autorità, reputata dannosa alla propria libertà” (Tomasi, 1986, 105).
In realtà, ciò che la contestazione esprimeva, al di là delle formule e degli stessi proclami giovanili, era la percezione di un bisogno di rinnovamento di una società, ormai inadeguata ai processi che essa stessa aveva ingenerato.  Infatti, mentre gli anni sessanta potevano apparire come il punto culminante di un processo di sviluppo ininterrotto dal dopoguerra in poi, gli anni settanta (ma anche l’ultima parte degli anni sessanta) rivelarono molta più inquietudine e confusione. Dal punto di vista economico mostrarono evidenti segni di crisi, decretando la fine del concetto di “sviluppo illimitato”. La fine di tale concetto non riguardava solo l’economia, ma la stessa concezione del mondo, che aveva guidato fino ad allora la “modernità”. Di fatto, si cominciò a parlare di “svolta epocale” e si tentò progressivamente di ridefinire la nuova epoca, ricorrendo ai “post” (post-industriale, post-moderno, post-fordista, ecc.) per distinguerla dalla precedente, senza però segnarne una cesura definitiva.
Anche dal punto di vista dell’analisi sociale si pose l’accento sulle difficoltà crescenti di una società sempre più complessa ed ingovernabile, contro le letture dicotomiche e i nessi causali lineari, tipici delle analisi degli anni precedenti.

Sistema politico e sociale

Negli anni ‘70

Il sistema politico in Italia negli anni ’70, frastornato dalla rivolta studentesca del ’68 e dalle sue propaggini, dalle manifestazioni sindacali, dalla nascita di nuovi momenti politici ad ispirazione rivoluzionaria, dal terrorismo e dalle stragi, si rivelò incapace di gestire la trasformazione. Non riuscì a cogliere o gestire le novità che si stavano profilando. La stessa opposizione di sinistra si trovò spiazzata rispetto alle contestazioni che l’attaccavano da sinistra: divisa tra tentativi di ricompattazione e tentazioni di “cavalcare la tigre”, cioè di approfittare del momento di turbolenza politica e sociale per sferrare un attacco decisivo al sistema politico dominante.  Le opposizioni di destra risposero agitando lo spauracchio della rivoluzione per catturare maggiori consensi e, nello stesso tempo,  favorendo i movimenti eversivi al proprio interno. Le forze di governo risposero impulsivamente all’inizio con la repressione, per poi tentare un dialogo con le forze moderate di sinistra ed avviando il primo governo di unità nazionale, in cui il PCI, per la prima volta dopo il 1948 diede un appoggio esterno al governo di centro-sinistra. L’esperimento finirà con il sequestro dell’on. Aldo Moro da parte delle “Brigate rosse” (1978) e, dopo una tormentata vicenda, con la sua morte l’anno dopo.
In seguito a queste problematiche il paese fu investito da una crisi di consenso generale. Di fronte alle carenze sociali, di fronte alle tensioni e frustrazioni tipiche del modello di sviluppo adottato, non solo le classi sociali maggiormente investite dalla crisi economica ma anche buona parte del ceto medio entrò in crisi avanzando dubbi sulla validità del sistema economico e politico.
Molto di tale clima corrispondeva ad una realtà, di fatto, conflittuale: le lotte operaie e studentesche ne erano un indicatore. Classi e gruppi sociali maggiormente esposti alla crisi del sistema scesero sul campo per rivendicare i loro interessi, la loro visione della realtà, il loro peso nel costruirla. La lotta per il potere di acquisto dei salari, per il posto di lavoro, per l’occupazione, per il diritto allo studio divennero oggetto di rivendicazione e fonte di instabilità sociale...
Ma molto di tale clima di tensione venne alimentato intenzionalmente da delitti che costellarono di un’incredibile scia negativa la storia italiana di quel decennio. E’ la famosa “strategia della tensione”: piazza Fontana, l’Italicus, la questura di Milano, Brescia, la morte di procuratori della Repubblica, incidenti e provocazioni varie, sequestri, fino a quello più clamoroso di via Fani del Presendente della DC, Aldo Moro...

Nella seconda metà degli anni ‘70 si determinò un profondo mutamento del costume e della condizione giovanili in Italia. All’epoca dell’impegno politico e della militanza attiva per una trasformazione del sistema si andò sostituendo un atteggiamento meno idealista e più pragmatico, in concomitanza con una situazione socialmente più instabile. Etrarono pesantemente in crisi le organizzazioni della sinistra extra-parlamentare. L’ottimismo che aveva caratterizzato il clima giovanile all’inizio degli anni Settanta cedette il passo a sempre più inquietanti simboli di morte. Sancita la fine del tempo dell’utopia e dei progetti totalizzanti, il futuro divenne incerto, e fu abbandonata l’idea di poterlo mutare con un’azione collettiva. Emarginati dalle aree produttive e decisionali del paese, i giovani degli anni ‘70 furono costretti a cercare nuove strade per definire la loro identità . Le risposte organizzate dei gruppi giovanili in questo periodo imboccarono una doppia strada: pratica della violenza come necessità individuale e collettiva da una parte, negazione dello spirito competitivo o esaltazione di componenti ludico-erotiche dall’altra. Di fronte all’insensibilità e alla fondamentale immutabilità del sistema politico ed al prevalere in economia delle leggi del mercato sui diritti e bisogni dell’uomo, nei più prese il sopravvento un senso d’impotenza e di rassegnazione. Dopo anni di turbolenze i giovani abbracciarono un individualismo non conflittuale e difensivo. Disdegnando i movimenti di massa e le ideologie, rimaneva loro solo l’aggregazione

gli anni ‘80

In vari paesi, a cominciare da Gran Bretagna e USA, salirono al potere partiti con programmi neo-liberisti. Ciò diede il via alla deregulation, che comportò riduzione di limiti, dei controlli e delle tasse all’iniziativa privata, privatizzazioni degli enti statali, ampie dismissioni e ristrutturazioni degli apparati produttivi.
Ciò ebbe forti ripercussioni anche in Italia. Negli anni ‘80 la politica risentì di una certa stanchezza, frutto sia del lungo impegno dei partiti italiani nel combattere il terrorismo e confrontarsi con l’estremismo politico, ma anche della percezione dell’inadeguatezza nelle strategie politiche rispetto ai mutamenti sociali, economici e culturali. Mentre all’estero si facevano esperimenti neo-liberisti, in Italia prevalevano tentativi di riformare i partiti tradizionali adeguandoli alle mutate esigenze sociali. Ciò fece assumere alla politica italiana un orientamento molto pragmatico, nel tentativo di rispondere direttamente alle esigenze della società. Ciò consenti all’Italia di ottenere alcune progressi, “verso una libertà politica reale, sulla strada dell’uguaglianza e nella partecipazione alla vita sociale” (Malizia, 1991, 21).
Accanto a questi progressi non mancarono le ombre. La politica, ispirata a questi criteri, si presentava vivace e dinamica, ma anche spregiudicata. In quegli anni, accanto alla soluzione di alcuni annosi problemi, all’impulso per nuove opere pubbliche e ad un trend migliore dell’economia, aumentò anche il debito pubblico e la corruzione nei partiti. Questi problemi si innestavano nella cronica lentezza della macchina burocratica italiana e nell’incapacità di fronteggiare realmente le emergenze di una società in rapida evoluzione. Emblematico, a questo proposito, fu il tentativo di risponder alla crisi del welfare state: adottando gli stessi principi dell’economia liberale: riduzione dell’intervento statale e promozione dell’iniziativa privata.
Questa situazione generale non poteva non avere analoghi riscontri sul costume sociale. Anche in Italia si andavano diffondendo “i valori cosiddetti neo-borghesi come la competitività, la personalizzazione e la privatizzazione dei bisogni sociali, il rifiuto della mediocrità, la rivalutazione della professionalità e della responsabilità e la voglia di imprenditorialità” (Malizia – Frisanco, 1991, 22). Con essi, si estendevano individualismi esasperati, competitività rampante, prassi egoistiche e corporative. Si notava aumento di conformismo determinato dalla pubblicità, livellamento verso il basso, assemblearismo improduttivo, emergenza di un individualismo egoistico e corporativo. Anche molti giovani finirono per assumere questo tipo di valori. Da una parte infatti si assisté ad un progressivo disinteresse e allontanamento dalla politica e dalla militanza politica attiva; dall’altra, un certo nucleo di giovani fece propri i valori della competitività e li portò alla esasperazione, dando luogo a fenomeni sociali come lo “yuppismo”.

Gli anni ‘90

Nel quadro relativamente tranquillo e scontato degli anni ottanta, si inserirono avvenimenti di portata internazionale che sconvolsero gli assetti tradizionali e rimisero in discussione il quadro politico consolidato. Questi hanno preso l’avvio con il sovvertimento politico avvenuto nel blocco sovietico alla fine degli anni ’80, inizio anni ’90.
L’avvenimento più rilevante fu, simbolicamente, la caduta del muro di Berlino (1989), con l’implosione dell’impero sovietico, la sua dissoluzione in tante repubbliche nazionali e, di conseguenza, la frantumazione dell’Est europeo. Tali vicende sconvolsero la storia e cambiarono la geografia politica del pianeta. L’effetto più rilevante, a livello mondiale, fu la caduta del principale baluardo dell’ideologia comunista, la conseguente crisi delle visioni del mondo ispirate a forme di egualitarismo sociale o socialiste, e l’egemonia indiscussa del modello liberista. Anche i partiti legati a quel particolare tipo di pensiero entrarono in crisi, dissolvendosi o rinnovandosi profondamente.

Con la caduta del muro di Berlino e gli avvenimenti dell’Est europeo risultò non più così essenziale il baluardo della democrazia eretto dalla DC e dagli altri partiti che dal dopoguerra avevano, con formule diverse, governato l’Italia e assicurato la sua permanenza nell’area occidentale. Così si ritenne che fosse giunto il momento di cambiare. La corruzione che aveva caratterizzato in maniera più marcata l’ultimo decennio divenne l’occasione per dare una spallata al sistema. Attraverso una serie di processi ad amministratori dei partiti di governo, avviata da un pool di giudici di Milano, si diede inizio alla stagione di “Tangentopoli” che raccolse e condensò la voglia di pulizia morale e di onestà dei cittadini, insieme alla volontà di riscossa dei partiti rimasti da sempre all’opposizione. Ciò portò alla progressiva dissoluzione o cambiamento dei vecchi partiti che avevano per cinquant’anni governato l’Italia: DC, PSI, PSDI, PRI, PLI. 
Nello stesso tempo nuove istanze politiche e nuovi partiti nascevano dalla frantumazione del vecchio quadro politico. Già prima dell’89 in Italia erano emerse forti spinte particolaristiche, con manifestazioni di xenofobia ed esaltazione delle tradizioni locali. La nascita del movimento politico della “Lega Nord”, fornì una base ideologica ed un’organizzazione politica a queste istanze, provenienti soprattutto da ambienti dell’artigianato, proprietà terriera, media e piccola industria delle aree pedemontane e rurali del Nord Italia.
Anche l’esperimento politico di “Forza Italia”, promosso da un imprenditore milanese, Silvio Berlusconi, fu in qualche modo una conseguenza del caduta del muro di Berlino. Esso, con alcuni principi del neoliberismo economico, ma soprattutto con un elevato senso di pragmatismo, raccolse parte delle istanze dell’elettorato moderato, rimasto orfano di punti di riferimento dopo la dissoluzione della DC e del PSI.
Anche i giovani seguirono, in qualche modo, tali andamenti politici. Secondo lo IARD, nel 1996 si ebbe un’ulteriore polarizzazione delle posizioni giovanili verso gli estremi, e, nelle preferenze elettorali, un consistente spostamento verso destra con propensione per i partiti di nuova fondazione (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 108-109). Soprattutto la Lega Nord, all’inizio, registrò una notevole crescita di consensi tra l’elettorato giovanile. Tuttavia, dagli approfondimenti condotti dallo IARD, non risultò che ciò significasse un aumento del pericolo separatista contro le tendenze universalistiche, tradizionalmente retaggio dei giovani. Anzi apparve chiaro che i giovani italiani, pur interessati alle vicende politiche, reagivano di fronte alla minaccia separatista recuperando il valore della patria, fino ad allora poco considerato. Conseguenza di ciò fu la rivalutazione dell’istanza localista senza perdere il senso di un’appartenenza più vasta. La cosa apparve così chiara che l’estensore, che pur aveva intitolato il capitolo “l’Italia: un puzzle di piccole patrie” (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 145), concludeva definendo i giovani “localisti, italiani e cosmopoliti, senza contraddizioni” (Buzzi – Cavalli - de Lillo, 1997, 168). 

Sistema economico

Il sistema economico registrò negli anni ‘70 la prima crisi dal dopoguerra in poi. Già il 1971 era stato uno dei peggiori dal punto di vista del reddito: “profitto zero”: caduta della produzione industriale, flessione negli investimenti e nei consumi privati, contrazione dell’occupazione, stagnazione dell’economia. A questo quadro contribuivano sia componenti interne (aumento di conflittualità sindacali, manifestazioni di piazza, tensioni politiche, ecc.) ma anche componenti internazionali che registravano i primi segnali di turbolenze economiche. A rendere ancor più difficile la questione scoppiava nell’ottobre 1973 la “crisi energetica”, conseguenza delle misure restrittive assunte dai Paesi Arabi produttori di petrolio in seguito alla guerra del Kippur. Di fronte alla crisi economica, i governi occidentali adottavano misure restrittive dei consumi, destinate a riflettersi pesantemente sulle abitudini dei cittadini. “Si diffondeva la sensazione che gli equilibri economici mondiali fossero di fronte ad una svolta: il modello di sviluppo economico che per un quarto di secolo aveva assicurato all’Occidente un continuo aumento della ricchezza e dei livelli di vita, appariva irrimediabilmente compromesso” (Mion, , 1990, 33).
In seguito alla crisi economica e alla caduta di fiducia nel modello di sviluppo occidentale intervengono ulteriori mutamenti nel sistema economico, Gli aspetti di novità di quegli anni furono:
a) produzione industriale: crisi del modello tradizionale di produzione industriale, diminuzione della produzione, ricerca di nuovi modi di produrre e di riduzione dei costi per le materie prime;
b) occupazione: contrazione dell’occupazione con gravi ripercussioni sia sui livelli di occupazione per i già occupati sia per i giovani in cerca di prima occupazione;
c) espansione del terziario, che per ora stenta ad organizzarsi;
d) ampliamento del lavoro autonomo sia a livello industriale che nei servizi, con aumento della flessibilità ma anche con notevoli problemi di controllo (lavoro sommerso)
Sono i segni di un mutamento “strutturale” e non solo congiunturale, che introduce in quelli che sono le caratteristiche di una società post-industriale.

Anni ’80: d auna società post-industriale ad una gloabale

Negli anni ’80 l’economia riprese il sopravvento sulla politica, che negli anni ’70 aveva avuto un ruolo egemone. L’economia risolse le sue crisi cambiando radicalmente il modo di produzione e di distribuzione delle merci, e le stesse concezioni che l’avevano guidata per tutta la fase dell’espansione industriale. Per questo motivo questo periodo fu denominato “post-industriale”.
A livello industriale la tendenza prevalente fu la “deverticalizzazione” dei grandi stabilimenti, con l’attribuzione all’esterno (piccole imprese) di parte del ciclo produttivo. Iniziò in quegli anni la rivoluzione microelettronica ed informatica. Il modello produttivo che s’impose fu quello della “Toyota”, che rese obsoleta l’organizzazione “fordista” o “taylorista” del lavoro. I termini emergenti furono “flessibilità”, “creatività”, “qualità”, “piccolo è bello”, superando le logiche disumanizzanti della catena di montaggio. La nuova industrializzazione comportò la dislocazione degli stabilimenti in aree più convenienti per il costo della manodopera. Nacquero i fenomeni della “delocalizzazione” delle industrie e della “globalizzazione” dei mercati.
La terziarizzazione dell’economia si estese sempre più. L’intreccio tra terziario e cultura comportò una razionalizzazione dei comportamenti ed una ristrutturazione dei processi decisionali, un allargamento delle capacità conoscitive. Crebbe la domanda di qualità nella produzione. La scienza e la tecnologia ebbero un ruolo sempre più rilevante nei processi produttivi.
Vennero incrementati i consumi. Per poter reggere all’aumento di produzione necessitavano nuovi bisogni che potevano essere soddisfatti solo da prodotti sempre più sofisticati. La spinta ai consumi fu sostenuta dalla pubblicità e dall’opera suadente dei mass-media. La nascita di tante radio e TV private si reggeva su questo presupposto.
Il modello di vita occidentale e consumista venne diffuso capillarmente in tutti i continenti, creando un’omogeneizzazione della cultura e dei consumi, funzionale alla grande distribuzione, ma con effetti distruttivi sulle culture locali e disgregativi sul tessuto sociale.
Un altro effetto di questa rivoluzione fu il problema occupazionale. La rivoluzione microelettronica e informatica, la “deverticalizzazione” e la “delocalizzazione” consentirono di ridurre notevolmente la manodopera o di avvalersi di manodopera a basso costo. La nuova fase espansiva creò lavoro in attività interstiziali, con proliferazione di tante piccole attività produttive precarie, si diffuse il lavoro occasionale, part-time, ecc. Tutto ciò permetteva di sfuggire più facilmente al controllo dei sindacati e degli ispettori del lavoro, con aumento del lavoro nero, sottopagato, senza protezione sociale. Questo tipo di produzione comportò, infatti, oltre all’espansione industriale, un aumento significativo di incidenti e i morti sul lavoro.
La crisi occupazionale segnò significativamente la condizione giovanile di quegli anni. Se gli anni di transizione (1979-80) furono di ripresa economica, ciò non durò, perché legato a fattori effimeri (lavoro nero, economia sommersa, dilatazione spesa pubblica). Il resto dei primi anni ‘80 registrò un aggravamento del problema. Da una parte c’era l’urgenza di reinserire nel lavoro i disoccupati, prevalentemente adulti; dall’altra di accogliere i giovani alla ricerca del primo posto. Le misure legislative adottate per risolvere i problemi occupazionali dei giovani, pur lodevoli nelle intenzioni, non riuscirono a determinare una vera inversione di tendenza a causa della consistenza quantitativa del fenomeno. Così il tasso di disoccupazione continuò a crescere nella prima parte del decennio, con allungamento dei tempi di ricerca della prima occupazione. Ciò favorì anche, tra i giovani, l'interesse per il lavoro indipendente, benché, l'occupazione dipendente conservasse una forte attrazione. Insieme ne venne una notevole flessibilità e mobilità, la disponibilità a "provare" professioni diverse, a "crearne" di nuove, a passare dal ruolo di studenti a quello di lavoratori a quello di inoccupati con notevole disinvoltura. In genere prevaleva un atteggiamento pragmatico, dove convivevano esigenze espressive accanto a quelle strumentali.
Le difficoltà occupazionali, insieme all’allungamento del tempo di formazione e la procrastinazione del momento d’entrata nella vita adulta fece parlare della condizione giovanile come di un periodo di obiettiva “emarginazione”. Nel rilevare tale situazione Cavalli parlò di una trasformazione della fase giovanile da “processo” a “condizione”, con effetto macroscopico di allungamento della fase di socializzazione, ma anche di mutamento nei modi di vivere la giovinezza e nell’evoluzione verso la maturazione personale e sociale.

gli anni ‘90

        Gli avvenimenti a livello nazionale e internazionale ebbero notevoli ripercussioni a livello economico. La caduta del regime sovietico comportò l’oblio delle teorie interventiste dello stato e l’adozione a raggio universale dell’economia di mercato. L’indirizzo neo-liberista dalla Gran Bretagna e dagli Stati si estese a tutta l’Europa, occidentale prima e poi orientale, con non indifferenti problemi a livello sociale.
Ma, nonostante l’entusiasmo suscitato da questi avvenimenti e la fiducia incondizionata nelle regole del mercato e nel capitalismo, dopo qualche anno la situazione economica non fu così brillante come ci si era illusi. “L’Occidente, finita la grande contrapposizione [con l’impero sovietico], ha conosciuto una lunga congiuntura negativa, con alti tassi di disoccupazione” (Detragiache, 1996, 107). ).
Tutto questo ebbe notevoli ripercussioni anche in Italia. In un primo momento (fine degli anni ’80, inizio anni ’90) la situazione economica sembrò migliorare, ma dopo il ’93 essa cominciò a deteriorarsi e a peggiorare notevolmente. Al grande sforzo per una nuova fase di espansione e sviluppo degli anni ’80, succedette una certa stanchezza, anche per effetto della depressione internazionale. Si notò con preoccupazione che era “entrata in crisi la tensione ad innovare e a fare qualità”; in particolare che si erano “appannate fantasia e creatività” (Malizia, 1997, 10). Anche lo stato non era più in grado di sostenere e pilotare l’espansione economica.
Ciò influì sull’andamento dei tassi di disoccupazione. La ricerca IARD del ‘92 aveva registrato, infatti, una bassissima percentuale di giovani in cerca di prima occupazione (3.7%) e il numero più basso da quando erano cominciate le ricerche IARD di giovani in cerca di lavoro (26% sotto i 25 anni, 28.8% sotto i 30). Ma qualche anno dopo (’93) la situazione precipitò nuovamente e le condizioni lavorative peggiorano di molto. La ricerca IARD del ‘96 registrò un debole aumento della ricerca di prima occupazione (5.4%) e uno più marcato di lavoro in genere (33.3% sotto i 25 anni, 36.8% sotto i 30), con un aumento complessivo di 6-7 punti percentuali di giovani con problemi occupazionali. A questo si aggiunse l’aumento delle disuguaglianze territoriali (favorito il Nord-Est, sfavorito il Sud e le Isole), dando luogo a differenti opportunità d’impiego per i giovani, disparità nella qualità del lavoro e nella retribuzione, maggiori discriminazioni per sesso e cultura. Una leggera inversione di rotta si registrò alla fine degli anni ’90 non per effetto del miglioramento del quadro economico, ma per la maggior flessibilità del mercato e la capacità dei giovani di adattarsi alle nuove situazioni.
Queste alternanze economiche ebbero effetti anche sulla percezione dei bisogni da parte giovanile. Fino al ‘92, gli andamenti furono in sintonia con le previsioni di Inglehart: diminuiva l’importanza del lavoro nella gerarchia dei valori (cedendo il posto agli affetti), crescevano le attese di autorealizzazione e autonomizzazione, con notevole disponibilità alla flessibilità. Ma dopo il ‘92 le attese rispetto al lavoro si invertirono: aumentavano le domande in merito allo stipendio e al reddito, mentre diminuivano rispetto all’ambiente, ai rapporti, all’autoespressione.
Le diverse situazioni sociali e culturali influirono a loro volta nella tipologia delle risposte. I giovani più scolarizzati tendevano ad essere relativamente più soddisfatti del lavoro, lo concepivano più in termini autorealizzativi, ma anche di carriera, mentre i meno scolarizzati mostravano maggior apprezzamento per la dimensione relazionale ma anche per quella retributiva. Pertanto elementi espressivi (o postmaterialisti) si intrecciavano con quelli strumentali (o materialisti) in entrambi i casi, rendendo difficile una lettura lineare dell’evoluzione dei bisogni e dei valori giovanili in merito al lavoro.

Il paradigma della complessità

Negli anni ‘80 divenne sempre più frequente da parte dei sociologi applicare all’analisi della società la categoria della complessità . Con tale termine si volle sottolineare la forte differenziazione funzionale dei vari sistemi tra di loro e dei singoli sottosistemi al loro interno e la moltiplicazione delle relazioni tra loro . Pertanto la complessità non era una caratteristica delle cose o delle persone, piuttosto una modalità di descrizione di situazioni o problemi caratterizzati da numerose interdipendenze relazionali. Di questa configurazione della società c'era chi sottolineava di più la moltiplicazione di possibilità, la crescita di oppor­tunità, di organizzazione, ma non mancarono alcuni che fecero no­tare la progressiva ingovernabilità dei sistemi, la mancanza di un centro organizzatore, la crescita di entropia e la moltiplicazione di codici incommensurabili .
In quegli anni si registrò un’accelerazione nella pluralizzazione dei centri di potere e dei sistemi di riferimento e di significato, con effetti di frammentazione e disgregazione della realtà sociale. Questo comportava per gli individui un aumento di opportunità ed una diminuzione del controllo sociale. Mentre ciò accresceva le possibilità per il singolo, aumentava anche il carico di responsabilità personale e la probabilità di non riuscire a far fronte alle richieste della società . Perciò tale assetto della società poneva notevoli problemi di integrazione, di adattamento e di identità . Queste problematiche investirono soprattutto i giovani, alle prese con problemi ad inserirsi ed integrarsi nella società. L’adattamento divenne la strategia vincente in tale contesto, che, se permetteva di far fronte ai problemi immediati, diventava problematico rispetto all’assunzione di un’identità matura. Infatti l’adattamento si presentava come “una strategia di basso profilo, sommersa, senza differimenti di bisogni ed aspettative, portata avanti da una soggetto debole che in ultima istanza costruisce la sua identità quasi per differenza” (Cipolla, 1989, 19).
La capacità di adeguarsi di fronte alle molteplici richieste della società e la rinuncia alla difesa di principi precostituiti rese questa generazione molto più flessibile e adattata alla realtà, ma ebbe come prezzo l’incoerenza, che stava diventando, insieme alla soggettivizzazione dell’etica, uno degli aspetti più caratteristici della cultura giovanile. Il mondo giovanile si frantumò in innumerevoli rivoli e la ricerca di autorealizzazione assunse l’aspetto della ricerca di percorsi individuali di maturazione. Era la complessità ad esigere frantumazione e comportamenti “incoerenti” . Essa poi, interiorizzata, divenne condizione esistenziale: segno della flessibilità e dell’adattabilità ai mutamenti richiesti dal contesto, ma anche di debolezza ed insicurezza personale.

Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione sociale

        Accanto alla differenziazione funzionale, che sarebbe alla base della complessificazione della vita, l’affermazione della modernità si è avuto attraverso la sviluppo dei mezzi di comunicazione sociale, che permette l’incremento della comunicazione di notizie e la possibilità di interagire tra vari soggetti, indipendentemente dal potere politico costituito (Ungaro, 2001, 10-12). Negli anni ’80 si ebbe una accelerazione di tale sviluppo, con la nascita di nuovi mezzi di comunicazione e con la proliferazione degli stessi o di altri, fino ad allora riservati a pochi privilegiati.
In quegli anni si ebbe la diffusione delle radio e televisioni private, l’introduzione dei videogiochi e dei primi computer, la comparsa dei primi CD e la diffusione di sistemi digitali e miniaturizzati di lettura/diffusione musicale (CD, cuffiette, lettori compressi) o video.
La diffusione di tali mezzi contribuì all’evoluzione di un nuovo tipo di uomo, molto più digitale, dove la realtà virtuale si confondeva e a volte superava quella reale. Al linguaggio concettuale, logico, geometrico del passato (concentrato sulla parte sinistra dell’emisfero cerebrale) si sostituisce, per effetto del rapporto privilegiato con i “media” il linguaggio analogico, simbolico, emotivo, intuitivo, creativo della parte destra. Di conseguenza, anche il tipo di cultura della società, soprattutto delle giovani generazioni, divenne più “visivo”. Si privilegiò un approccio emotivo e concreto alla realtà a scapito di quello analitico, ma freddo e distaccato, della logica scientifica, libresca.       
Il linguaggio giovanile si modificò, uniformandosi alla logica degli “spot” e dei “flash”. Le parole vennero usate come slogan, atte a colpire più per la loro capacità evocativa, che per il contenuto verbale. La grammatica ed il vocabolario si impoverirono, con preferenza per una comunicazione sintatticamente scorretta, ma efficace sul piano emotivo. Il linguaggio giovanile, in seguito a questi mutamenti, stava discostandosi notevolmente dalla tradizione.
L’uso di tali mezzi contribuì ulteriormente al distacco dai valori tradizionali, alla superficialità, al sensazionalismo, al presentismo, alla prevalenza del principio del piacere su quello della realtà. Rispetto alla storia e alla complessità sociale essi hanno operato in termini di “semplificazione, manicheizzazione, attualizzazione” (Cavalli 1985).
Da ciò seguì tutta una serie di atteggiamenti e di comportamenti nuovi, primo fra tutti l’enorme importanza attribuita al look (Battellini, 1986, 86). La moda c’era sempre stata, il nuovo era costituito dalla velocità del cambiamento. Il fast-food può costituire il simbolo di quella generazione . Consumare i fretta, essere sempre sulla cresta dell’onda, essere “in” divennero gli imperativi di quel tempo. Ciò poteva dipendere dai ritmi di una società che andava sempre più di corsa, dai rapporti umani sempre più frettolosi: da qui l’esigenza di comunicare al primo impatto, il proprio modo d’essere, o per lo meno, di voler sembrare, anche la cura dell’estetica in generale, del viso, del corpo, fatta per rispondere a questa logica che privilegiava ciò che si vede (Battellini, 1986, 86-87).  Vivere alla ricerca indiscriminata del look, della «politica dello stile», all'inseguimento di un'identità fittizia da reinventare continuamente portava alla frammentazione in diversi stili di vita. Tale uomo poteva considerare il mondo un dato labile, manipolabile. Il suo imperativo era l'autorealizzazione personale, ma il suo cammino si prospettava instabile, fondato come è su scelte pragmatiche, edonistiche e relative. 
Di qui L'evoluzione dall'etica protestante a stili di vita più tipicamente edonistici, che Bell ha analizzato [Bell 1976], implica quindi una svolta verso valori espressivi, meno legati al dato utilitaristico e più centrati sui bisogni di autorealizzazione. L'avanzata delle classi medie, la terziarizzazione della popolazione attiva, l'aumento del potere d'acquisto e la maggiore dispersione dei redditi nelle categorie socio-professionali (che le rende delle variabili esplicative poco rilevanti) comportano un'evoluzione sociale verso una società in cui sono gli stili di vita a contare sempre più.
  Il continuo susseguirsi di mode e di stili di consumo favoriva in loro il consolidarsi di una cultura dell’immediatezza.

La cultura post-moderna

Le trasformazioni a livello strutturale ebbero notevoli ripercussioni a livello culturale con andamento circolare e interattivo: la cultura risente delle trasformazioni sociali e si adegua; ma è anche vero l’incontrario: la società sceglie il tipo di cultura che le fornisce gli strumenti migliori per interpretare la situazione e adattarsi. Ovviamente, con effetti di feed-back continui, per cui è difficile decidere “cosa influenzi chi”. Ciò risultò particolarmente vero in quegli anni.
Le accelerazioni che aveva assunto negli ultimi anni la modernità, assunsero un ritmo così rapido e vorticoso da far pensare di trovarsi in un altro tipo di civiltà, affatto diversa da quella che l’aveva preceduta. Tale mutamento fu etichettato come “postmoderno”. Con tale termine, inventato dall’architettura ma preso a prestito anche dalla filosofia e sociologia, si volle dare un nome alle caratteristiche che andava assumendo la modernità. Anche se il conio del termine risale agli anni ’70, la sua applicazione sociologica su larga scala avvenne proprio in quegli anni, come si può evincere da varie pubblicazioni dell’epoca: segno che solo allora si cominciò prendere coscienza di trovarsi non solo di fronte ad un diverso modo di produrre (postindustriale), o di organizzarsi della società (più complesso), ma anche ad una vera svolta epocale.
In realtà è questione dibattuta tra i teorici se si tratti di un mutamento radicale, oppure semplicemente un’accelerazione della modernità. C’è chi pensa che la modernità sia un periodo non ancora concluso, per cui la interpreta come un progetto incompiuto (Habermas), una modernità radicale (Giddens e Luhmann), una modernità esplosa (Touraine) .
Altri invece intendono con il termine “postmodernità” una rottura radicale rispetto al passato. Gli elementi assolutamente nuovi sarebbero: “l’assenza di una descrizione unitaria del mondo, di una razionalità valida per tutti, di un concetto di giustizia condiviso, ma anche la riscoperta dei limiti delle azioni umane, la tolleranza della diversità, il rifiuto di basarsi esclusivamente su valori materialistici” (Ungaro, 2001, 20).
Alla forza delle ideologie o delle “grandi narrazioni” che avevano caratterizzato la “modernità”, succederebbe un atteggiamento più rinunciatario e insicuro. E’ di quei tempi “la scoperta che nulla è dato conoscere con certezza, dal momento che tutti i precedenti fondamenti dell’epistemologia si sono rivelati inattendibili; il fatto che la storia è priva di ogni teleologia e che di conseguenza non si può difendere plausibilmente alcuna versione di progresso; e infine la nascita di un nuovo programma sociale e politico in cui assumono crescente importanza le preoccupazione ecologiche e forse i nuovi movimenti sociali in genere” (Giddens, 1994, 53). Prendeva così corpo una forma mentale che metteva radicalmente in dubbio la stessa possibilità di un fondamento non illusorio per le convinzioni che fino ad allora avevano guidato la cultura moderna.
Entrò così in dubbio la validità del ragionamento umano , i valori e le convenzioni sociali e soprattutto l'idea stessa di uomo e di società .
Il tipo di pensiero a cui ci si faceva riferimento era piuttosto quello di Nietszche o di Heidegger, di Gadamer, di Derida, di Lyotard. Sul versante scientifico il “principio di indeterminazione” di Eisenberg diventò la pietra di confronto per tutte le teorie.

Postmaterialismo e postmodernità

I valori postmaterialisti vennero da vari autori e dallo stesso Inglehart, associati alla nuova cultura. Fu lo stesso autore a trattare la cosa in maniera sistematica nel suo libro: “Modernization and postmodernization. Cultural, economic and political change in 43 societies” (1996), uscito in Italia col titolo “La società postmoderna” (1998). In essa affrontò il rapporto tra “posmaterialismo” e “postmodernizzazione”, affermando che il postmaterialismo è un processo che contribuisce in maniera cospicua alla “postmodernizzazione” e ne definisce contenuti e prospettive. Per dimostrarlo indicò le convergenze tra le sue ricerche sul postmaterialismo e i tratti della società postmoderna.

Correlazione tra sviluppo economico e culturale

I risultati delle ricerche condotte in 43 paesi, da quelli più avanzati a quelli più arretrati, gli avevano fornito conferme convincenti all’ipotesi materialismo/postmaterialismo. Oltre a registrare una costante aumento del postmaterialismo tra le società avanzate dell’Occidente, in particolare tra i giovani ed i settori più benestanti e colti della popolazione, egli andava scoprendo che i paesi più poveri si trovavano ancora alle prese con i bisogni materiali di sopravvivenza, mentre nei paesi più ricchi il processo di “postmaterializzazione” si andava affermando sempre più, pur con alterne vicende.
Il lavoro più interessante fu di accostare i tassi di sviluppo al tipo di cultura. Apparve evidente che, a seconda del livello economico raggiunto, ogni società riproduceva un pattern culturale preciso. Le società che vivevano in un’economia di sussistenza, riproducevano anche una cultura in cui la tradizione aveva un ruolo molto importante, e le norme erano ancorate ad un’autorità trascendente. Mentre le società in via di modernizzazione tendevano ad attribuire molta importanza alla scienza-teconologia, al successo, ad avere un’autorità di tipo razional-secolare, e quindi ad interessarsi di più della politica e a darsi norme che derivavano dal consenso sociale.
Infine, le società che avevano superato il livello di sopravvivenza e vivevano nell’abbondanza, tendevano a mutare i loro criteri in base ai nuovi bisogni che la loro condizione evidenziava: meno importanza alla scienza-tecnologia, preferenza per i temi ecologici e per la qualità della vita, depotenziamento dello stato e della burocrazia, più libertà, più fantasia ed autoespressione . Ma nello stesso tempo continuava il processo di secolarizzazione messo in atto dalla modernizzazione: la riduzione dell’importanza della famiglia, la maggior tolleranza verso il diverso, la parità di diritti tra uomo e donna, ecc. Cioè, il carattere postmaterialista sembrava correlarsi più probabilmente con le tendenze postmoderne che con quelle tipiche della modernità (secondo il modello weberiano).
Pertanto, concludeva, “il postmaterialismo costituisce una componente centrale dei valori postmoderni” (Inglehart 1998, 126).

Correlazione tra postmaterialismo e postmodernizzazione

Sulla postmodernizzazione Inglehart aveva avanzato alcune osservazioni, distinguendo tra aspetti che erano, a suo avviso, accettabili ed altri che non condivideva.
a) Riconosceva, con i tanti autori postmoderni, che fosse in atto una “deenfatizzazione” della:

  1. efficienza economica;
  2. autorità burocratica;
  3. razionalità strumentale, scientifica.

b) Condivideva la richiesta di una società più umana, in cui ci fosse:

  1. più spazio per l’autonomia personale, per la cultura;
  2. maggior tolleranza per la diversità, contro l’uniformità e la gerarchizzazione precedente;
  3. maggior spazio per l’autoespressione e l’autoaffermazione;
  4. più spazio all’estetica;
  5. recupero selettivo del passato;
  6. ricerca della qualità della vita.
  1. Condivideva anche una certa critica alle “metanarrazioni” (ideologiche, politiche, religiose), ma rifiutava posizioni estreme come quelle di Lyotard e Braudillard che tendevano ad assolutizzare il ruolo della cultura. Per lui postmodernità voleva dire aumento dell’influenza della cultura sulla vita sociale, ma non riduzione alla sola cultura. La realtà rimaneva con la sua componente oggettiva, non riducibile a solo pensiero. Natura e cultura erano egualmente presenti e solo dal loro rapporto è possibile la vita dell’uomo e della società. Come già aveva sostenuto in un’opera precedente (1990) egli concepiva la società come un’interazione continua tra fattori economici, politici e culturali. Ciò che caratterizzava la società postmoderna era l’importanza che stava acquisendo la dimensione culturale rispetto a quella economica e politica.

 

  1.   Respingeva anche il radicalismo estremo che negava ogni fondamento sul quale fondare criteri morali universali. Egli invece condivideva con Habermas la convinzione che fosse possibile “una base razionale per la vita collettiva […] quando le relazioni sociali sono organizzate in modo tale che la validità di ogni norma dipende al consenso raggiunto in una comunicazione libera dal dominio” (Inglehart, 1998, 45).
  1.   Come pure rifiutava il pregiudizio anti-occidentale di Derida. Egli sosteneva che, se è vero che la società industriale e moderna è nata in occidente, essa non è solo occidentale. Gli elementi fondamentali della “modernizzazione” sono stati l’industrializzazione, l’urbanizzazione, la secolarizzazione, la burocratizzazione e una cultura basata sulla burocrazia: “una cultura che richiedeva il passaggio da una status ascritto ad uno status acquisito, da forme diffuse a forme specifiche di autorità, da obbligazioni personalistiche a ruoli impersonali e da leggi particolaristiche a leggi universali” (Inglehart, 1998, 50). Tali aspetti non sono esclusivi della società occidentale. Se hanno preso l’avvio in occidente fu per merito dell’etica protestante che cambiò il sistema di valori: l’accumulazione economica non più osteggiata o tollerata, ma incoraggiata. Tale mutamento culturale aprì la strada al capitalismo e all’industrializzazione. Ma laddove si danno gli stessi mutamenti culturali, come per esempio in Estremo Oriente dove prevale la cultura confuciana, avviene lo stesso processo. E l’industrializzazione è perseguita come una meta desiderabile da tutte le nazioni, indipendentemente dalla loro posizione geografica o culturale.

Cambio epocale

Ciononostante, egli sosteneva di trovarsi di fronte ad un cambiamento culturale senza precedenti. Il cambiamento dalla società moderna a quella postmoderna veniva fatto risalire ai limiti raggiunti dalla società moderna, che egli spiegava con la tesi dell’“utilità marginale decrescente dei profitti economici”. Questa motiverebbe il fatto che, una volta raggiunti certi livelli di vita, non interessa più accumulare ricchezza, ma invece accedere ad una maggior qualità di vita. Quindi, anche per lui, come per Habermas, la società postmoderna si presentava come un “progetto incompiuto”, che richiede di essere rivisto, ma non ripudiato. La postmodernizzazione doveva rappresentare il completamento del processo di modernizzazione, non la sua negazione.
Tuttavia i benefici della modernizzazione non andavano dimenticati o sottovalutati, anche se era ormai giunto il momento di cambiare corso, perché essa aveva imposto costi non più necessari: i sacrifici per il successo e l’eccessiva diffusione dell’organizzazione burocratica .
Così ecco emergere nuovi valori e stili di vita, più funzionali alla situazione determinatasi in seguito al raggiungimento di una notevole sicurezza materiale. Ma il “postmaterialismo” implicava il superamento del “materialismo”, ma non il suo rinnegamento: “i postmaterialisti non sono non materialisti, e neppure antimaterialisti. Il termine «postmaterialista» indica un set di fini che sono ritenuti importanti dopo che le persone hanno ottenuto la sicurezza materiale e proprio perché l’hanno ottenuta. […] L’emergere del postmaterialismo non riflette un capovolgimento delle preferenze, ma un mutamento delle priorità: i postmaterialisti non attribuiscono un valore negativo alla sicurezza economica e fisica – la valutano positiva come tutti – ma, diversamente dai materialisti, danno priorità all’autoespressione e alla qualità della vita” (Inglehart 1998, 57).
La società postmoderna attribuisce molta più importanza ai problemi della qualità della vita ed esige livelli molto più alti di prestazioni sociali. Le attese sono per un lavoro sicuro, un aumento degli standard di vita, guide illuminate, un governo generoso, un’assistenza sanitaria d’alta qualità, l’armonia razziale, un ambiente pulito, città sane, un lavoro soddisfacente e soddisfazione personale.
Questi elementi costituiscono per la società moderna «entitlements», “titoli” o diritti espressi con una convinzione nuova, una maggiore sensibilità che definisce gli atteggiamenti degli occidentali nei confronti delle condizioni sociali, delle istituzioni nazionali e anche del mondo. Sempre più si crede che certe cose sono (o dovrebbero essere) garantite. Non è che la gente non si preoccupi, ma si preoccupa di cose diverse.
Questi atteggiamenti sarebbero destinati, sempre a giudizio dell’autore, a diffondersi progressivamente e a diventare patrimonio comune di quote sempre maggiori di popolazione, non solo nelle nazioni occidentali, ma in tutti quegli stati che intendono intraprendere la strada verso la modernizzazione. Perciò il pattern culturale postmoderno e/o postmaterialista starebbe per affermarsi come un modello culturale universale verso cui tutto il mondo sarebbe incamminato. Ovviamente se perduravano le condizioni economiche e politiche.

L’Italia fra tradizione e postmodernità

Il problema se ci si trovasse di fronte ad un cambio epocale o solo ad un mutamento di valori venne affrontato anche dalla versione italiana della ricerca europea EVSSG (Gubert, 1992). Si trattava di capire dove stesse andando la società, se verso un riequilibrio dei valori, come sosteneva il coordinatore italiano della ricerca, dopo le accelerazione dei decenni precedenti, oppure verso una nuovo civiltà, dai contorni ancora poco definiti. L’analisi dei valori divenne allora la cartina di tornasole per verificare l’ipotesi più probabile.

I valori degli italiani

Per quanto riguarda i valori della famiglia, della sessualità e della coppia negli anni ’90, si rilevarono comportamenti e valori contraddittori: si era assistito ad un calo di accordo tra le coppie, era aumentata la disponibilità alla libertà nei comportamenti sessuali; ma nel contempo era aumento il consenso al matrimonio come istituzione (auto-fondata sulla relazione), l’amore incondizionato dei figli per i genitori, la soddisfazione per la vita di famiglia.
Per i valori del lavoro: era aumento il peso, già elevato, delle motivazioni strumentali, come il guadagno, ma anche le motivazioni di tipo espressivo-comunicativo, specie tra i giovani.
Era ulteriormente calata la partecipazione ad associazioni, specie in quelle religiose, sindacali, politiche, di volontariato sociale, ma per alcuni tipi (associazioni culturali, associazioni che si occupano del “Terzo Mondo”) essa era cresciuta.
Si voleva che la società assegnasse meno peso al denaro, al lavoro, all’acquisizione di beni materiali a favore, invece, di una maggiore attenzione alla crescita della persona, alla vita di famiglia, alla qualità all’ambiente, ma a livello concreto si dava più importanza a mete di natura economica, anche se cresceva pure la preoccupazione per garantire i diritti di libertà di parola e di partecipazione sociale e politica.
Era calata la fiducia nello Stato, nelle sue istituzioni, l’impegno nei partiti e nei sindacati, ma era cresciuto l’interesse e la partecipazione politica. C’era stata una perdita delle posizioni politicamente conservatrici, ma era aumentato di molto il favore per l’autonomia dell’imprenditore e la fiducia nel grande padronato.
Era cresciuta la convinzione che dovessero esserci dei criteri validi in ogni circostanza per decidere ciò che è bene e ciò che è male, ma nel contempo era aumentano il permissivismo e l’incertezza di giudizio etico su azioni un tempo ritenute sicuramente immorali.
Era aumentata la riflessione sul senso della vita e della morte, l’importanza del riferimento religioso per sé e nell’educazione dei bambini, la pratica religiosa, ma era diminuita l’affiliazione alla chiesa e la credenza nelle “verità”, specie di tipo escatologico, che tradizionalmente avevano fatto da supporto all’esperienza religiosa e che costituivano parte importante del patrimonio di fede cristiano.
Era aumentato il senso di soddisfazione per la vita che si conduceva, ci si sentiva meno annoiati e meno soli, meno tesi ed insoddisfatti, era aumentato il senso di fiducia nella gente, ma si era rilevato più desiderio di star lontani da categorie o gruppi che potevano portare disturbo, più desiderio di cambiare la società.

Postmaterialismo o riequilibrio? Modernità e tradizione nel caso italiano

Di fronte a questi dati Gubert propose alcune riflessioni conclusive. Ponendosi il problema se questi fossero indicatori di progresso o di ritorno al passato, di postmaterialismo o di materialismo, di postmoderno o di pre-moderno, egli suggerì un’altra ipotesi, quella del riequilibrio. Con tale termine intedeva dire che, di fronte all’incertezza se cultura post-materialistica stesse crescendo o si se stessero recuperando i valori tradizionali, si stava delineando un duplice andamento: “aspetti trascurati della tradizione riemergerebbero, ristabilendo così un equilibrio più accettabile tra soddisfacimento di bisogni di tipo prevalentemente materiale ed altri di tipo prevalentemente spirituale, tra una socialità da ‘soci in affari’, come la chiamava F. Toennies, ed una socialità più comunitaria ed attenta alla solidarietà (a cominciare dalla famiglia per arrivare allo Stato ed alle organizzazioni internazionali), tra lo sviluppo della razionalità strumentale e l’attenzione, anche razionale, ai valori, alla dimensione del ‘senso’ della vita e dell’universo” (Gubert, 1992, 571). Egli concludeva, sottolineando come “per alcuni aspetti l'ipotesi del riequilibrio può senz'altro sostituire quella evolutiva, ma a patto che essa non interpreti il riequilibrio come riproposizione tali e quali di elementi della tradizione. E proprio le apparenti contraddizioni mettono in evidenza le diversità rispetto al passato” (Gubert, 1992, 572).
Tra le principali contraddizioni rilevò quella della famiglia, dove il recupero era fondato solo (per la gran parte delle persone) “sulla gratificazione derivante dalle relazioni tra i suoi membri” (Gubert, 1992, 572); del lavoro, con la compresenza di motivazioni strumentali e auto-realizzative; del modello di sviluppo, con richieste di attenzione alle dimensioni umanistica ed ambientale, ma con modi di intervento diversi dall’azione politica classica: l’individuo “vuole mantenere senza deleghe il controllo della sua quota di potere politico” (Gubert, 1992, 573). Ma era soprattutto nel recupero dei criteri per stabilire ciò che è bene e ciò che è male che appariva un cambiamento di rotta in relazione al passato: l’atteggiamento morale sembrava meno intransigente per i valori materiali e le convenzioni sociali, mentre era assai più esigente quando entravano in gioco le persone, il rispetto per esse (Gubert, 1992, 573).
A questo punto egli avanzò ipotesi che, per quanto attiene l’etica, la “transizione post-moderna rappresenti solo un ulteriore sviluppo della modernità” (Gubert, 1992, 574). E che i cambiamenti in atto segnassero, per molti aspetti, un recupero di dimensioni che agli inizi degli anni Ottanta sembravano meno rilevanti (Dio e famiglia). Arrivò così a suggerire di utilizzare il termine “postmaterialista” piuttosto che “postmoderno” per interpretare il momento storico-culturale , in quanto la tendenza prevalente sembrava indicare un aumento di individualismo e di edonismo, “secondo una dinamica dei bisogni ben illustrata da Maslow” (Gubert, 1992, 575).
L’Italia, poi, nel contesto europeo, sembrava caratterizzarsi per una maggior tendenza post-materialista: maggior peso alla famiglia, alla religione, e valori socio-politici più aperti alla dimensione umanistica. Ma anche per un minor permissivismo etico, per una più forte appartenenza alla Chiesa ed una maggiore fiducia in essa, per una più elevata condivisione di valori di giustizia sociale. Questi, egli notava, erano elementi propri della tradizione, che si mescolavano con elementi nuovi. Per questo avanzava l’ipotesi “che la caratterizzazione dell’Italia rispetto alla media europea derivi dal congiungersi di due fenomeni, il permanere più forte di valori tradizionali e l’emergere di valori secondo una prospettiva post-materialista” (Gubert, 1992, 576).

Tradizione e modernità nei valori degli italiani

Come nell’edizione precedente, i ricercatori italiani avevano una questione prioritaria da affrontare, essa “concerneva il permanere o meno di orientamenti di valore che, nonostante la secolarizzazione che rende sempre più autonome le diverse sfere culturali da quella religiosa, possono essere considerati eredità del patrimonio tradizionale comune alla cultura europea, fortemente impregnato di cristianesimo” (Gubert 2000, 475). 
Dall’indagine emergono  conferme e nuove indicazioni.
Per quanto riguarda la famiglia, si può dire che i sintomi di recupero di valori tradizionali (cristiani) evidenziato dal confronto tra i dati del 1981 e del 1990 non risultano confermare negli anni Novanta l’inversione di tendenza. Se per valori tradizionali si intende la desiderabilità di una vita di famiglia fondata sul matrimonio, con forti, stabili e incondizionati rapporti di solidarietà interna tra genitori e tra genitori e figli, compresi quelli concepiti ma non ancora nati, che trova nel suo fondamento religioso una delle ragioni forti di tale solidarietà, si deve dire che negli anni Novanta si registra un loro arretramento, anche se talora non è tale da riportare alla situazione del 1981. Aumenta la quota di coloro che giudicano il matrimonio un’istituzione sorpassata (pur senza raggiungere quella del 1981), diminuisce il valore attribuito al generare figli per essere felici, diminuisce l’incondizionatezza della solidarietà tra genitori e figli, aumenta la legittimazione dell’aborto quale mezzo di controllo delle nascite, diminuisce l’importanza di trasmettere ai bambini non solo l’obbedienza, ma anche l’altruismo e la fede religiosa (sia pure senza raggiungere i bassi livelli del 1981), aumenta l’accettabilità dell’omosessualità. Se a questo si aggiungono dati del solo 1999 quali il prevalere dell’opinione che debbano essere equiparate ai fini delle politiche sociali coppie sposate e coppie conviventi non sposate, si comprende come negli anni Novanta sia ripreso l’allontanamento dai valori tradizionali della famiglia. Non mancano, tuttavia, fatti che non sono coerenti con tale tendenza di mutamento. In linea generale è diminuita la giustificazione sia dell’adulterio, sia del divorzio che dell’aborto. Con riguardo a quest’ultimo è diminuita la sua giustificazione per i motivi ritenuti più diffusamente sufficienti, quale il pericolo per la salute della madre e la malformazione del nascituro, mentre è aumentata quella per i motivi ritenuti meno diffusamente sufficienti (controllo delle nascite per coniugi che hanno già figli o l’essere la madre non sposata), ma in generale, complessivamente, è diminuita. È altresì diminuita l’approvazione del fatto che una donna non sposata possa avere figli, se li desidera. Ancora, sono i laureati ad essere meno favorevoli ad una produzione in eccesso di embrioni ai fini della fecondazione artificiale.
Riguardo al giudizio etico, negli anni Ottanta si era assistito ad un aumento generale della permissività (o meglio dell’incertezza etica), pur con una diminuzione di sostegno a posizioni di relativismo etico totale. Negli anni Novanta il relativismo etico totale non è ulteriormente diminuito (come lo era negli anni Ottanta), ed è aumentato il rifiuto di una posizione di assoluta certezza etica su che cosa sia bene e che cosa sia male in ogni circostanza. Di conseguenza è incrementata la quota di coloro che rifiutano le due posizioni estreme, specie da parte dei più istruiti. Per contro, oltre a registrare un prevalente giudizio di inammissibilità per tutti i ventidue comportamenti considerati, per alcuni di essi la tollerabilità è aumentata, proseguendo un andamento ventennale (omosessualità, eutanasia, assunzione di droghe leggere, non pagare il biglietto sui mezzi di trasporto, suicidio. prendersi un’auto non propria per divertimento), mentre per altri è diminuita, e non solo per azioni contro i doveri verso lo Stato (accettare bustarelle, cercare di ottenere benefici cui non si ha diritto, evadere le imposte), ma anche per azioni relative a relazioni interpersonali (aborto, adulterio, prostituzione, dire il falso).
Una terza area valoriale è quello della religiosità. I risultati dell’indagine del 1999 confermano e rafforzano i segnali di inversione di tendenza debolmente presenti nel 1990, rispetto all’81. Il dato più pesantemente in controtendenza riguarda l’appartenenza ecclesiale, che diminuisce. Gli altri, invece, testimoniano tutti una ripresa di interesse religioso, e non solo nelle forme generiche e varie legate al sentimento religioso, ma anche in quelle istituzionalizzate. Aumentano la percezione di importanza della religione nella vita, l’attenzione al problema del senso della vita, la definizione di sè come persona religiosa, l’importanza percepita di Dio nella vita, la frequenza della preghiera personale, la credenza in Dio e nelle verità cristiane, la pratica religiosa, l’impegno in associazioni religiose, la soddisfazione per l’azione della Chiesa, la fiducia nella Chiesa, che tra le istituzioni considerate è quella che riscuote il maggior grado di fiducia.
Meno chiari sono orientamenti in riferimento alla patria, ossia l’appartenenze e la lealtà tra i diversi livelli di organizzazione politica della società.
Per quanto riguarda l’area delle appartenenze socio-territoriali, i risultati della ricerca confermano che i sentimenti di appartenenza si distribuiscono in modo composito e non esclusivo, con tendenza a combinare livelli locali con livelli sovranazionali. Rispetto al 1990, emerge nel 1999, con una frequenza limitata ma significativa, il modello di appartenenza definibile come “glocalista”, mentre, rispetto alle attese generate dalla globalizzazione, negli anni Novanta si rafforzano le appartenenze regionali a scapito di quelle sovranazionali cosmopolite.
Negli anni Novanta diminuisce l’importanza attribuita ad aspetti del lavoro quali il reddito, la sicurezza del posto, l’utilità sociale del lavoro stesso, mentre cresce quella attribuita al riconoscimento e al prestigio sociale, al poter esprimere una propria personale responsabilità, al poter disporre di più tempo libero, al non essere troppo “sotto pressione”. Risulta evidente il progredire della sensibilità verso dimensioni non materialistiche del lavoro, testimonianza, secondo talune ipotesi, dell’emergere di una cultura post-moderna del lavoro. Non si può, tuttavia, trascurare il fatto che, per es., le dimensioni “materialistiche” del guadagno e della sicurezza trovano più attenzione nelle grandi città, che pur dovrebbero essere luogo privilegiato dello sviluppo post-moderno. Né si può trascurare il fatto che l’obiettivo del l’autorealizzazione nel lavoro non è solo più condiviso dai ceti più istruiti, che dovrebbero essere più sensibili alla post-modernità, ma anche dai più anziani e dai residenti nel Sud, i quali, viceversa, custodiscono maggiormente i valori della tradizione.

La via italiana alla postmodernità

L’autore nella conclusione discute ampiamente, riprendendo i vari ambiti nell’indagine per verificare se le ambiguità presenti nei valori degli italiani siano segno di modernità (nella sua versione più recente, detta postmodernizzazione), oppure si sia in presenza di un recupero del passato (tradizione). Già nel paragrafo precedente sono state avanzate varie riserve sulla tesi del ritorno alla tradizione. Come si vede, almeno nel caso italiano, dove pure la tradizione ha un peso così forte, i nuovi assetti valoriali e sociali non sono tali da prefigurare un ritorno al passato. Piuttosto siamo in presenza di contaminazione della modernità con elementi del passato, frutto di attività combinatoria. Tuttavia, anche rispetto alle ipotesi postmoderne, l’Italia si differenzia nei riguardi di quei paesi dove il processo di modernizzazione è avvenuto in tutta la sua profondità. Pertanto alcuni segnali rimangono sostanzialmente equivoci e difficili da interpretare. L’autore ne fa qualche esempio: 
Se il post-moderno nell’etica significa un’accentuazione del relativismo assoluto, un’accentuazione del soggettivismo, si è già visto come gli andamenti siano tutt’altro che univoci; si fa anzi strada un’opzione che rifiuta sia le certezze assolute e incondizionate, sia la dichiarata impossibilità per principio di distinguere il bene dal male. Per alcuni ambiti cresce l’incertezza etica, ma per altri diminuisce e nel complesso prevale la capacità di un giudizio negativo su tutta la serie di azioni “devianti” poste a valutazione.
Se il post-moderno nella religione significa la totale soggettivizzazione dell’esperienza religiosa, un suo prescindere dagli aspetti istituzionali sia nell’organizzare la credenza che le azioni religiose (Dobbelaere, 1995), non si può escludere che presso taluni tale fenomeno non si verifichi, ma nell’insieme la ripresa della religiosità, al di là della possibile riduzione del significato della celebrazione religiosa dei principali momenti di passaggio nella vita (nascita, matrimonio, morte) […] sembra configurare un’inversione di tendenza rispetto all’allontanamento dalla religiosità tradizionale, della quale una componente rilevante è anche quella istituzionale. Ciò ovviamente non significa che la maggioranza degli italiani sia osservante delle prescrizioni ecclesiastiche (Gubert 2000, 480).
Nell’area dei valori politici, due sono i gruppi di indicatori più direttamente rilevanti in merito allo sviluppo di una sensibilità post-moderna: il tipo di mutamento desiderato nei modi di vita e la priorità assegnata ad alcune mete politiche.
Per quanto concerne il primo gruppo, […] non è facile distinguere quelli tipicamente post-moderni da quelli tradizionali pre-moderni. Dare più spazio alla vita di famiglia, dare più importanza alla maturazione delle persone, preferire modi di vita più semplici e naturali non è solo sintomo di post-modernità; tali desideri non sono estranei all’orizzonte valoriale tradizionale. Considerando il modello di differenziazione sociale relativo al desiderio di modi di vita più semplici e naturali, emerge, anzi, come esso si avvicini assai a quello proprio di valori tradizionali.
Per quanto concerne il secondo gruppo di indicatori, relativo alle mete politiche, si può ricordare come aumentino di importanza negli anni Novanta quelli che Ronald Inglehart ritiene indicatori di orientamento post-materialistico (partecipazione alle decisioni politiche e salvaguardia della libertà di parola), ma aumenti di importanza anche una di natura diversa, il mantenimento dell’ordine, a scapito della lotta all’inflazione. Si può ricordare anche come diminuisca negli anni Novanta la disponibilità a sacrificare denaro proprio per migliorare la qualità dell’ambiente. Pure in questo caso, quindi, la tendenza non è univoca, anche se in prevalenza va forse nella direzione della post-modernità. La concretezza dei problemi della collettività politica (negli anni Ottanta l’inflazione e negli anni Novanta l’ordine pubblico) risulta interferire e modificare orientamenti che nelle attese dovrebbero rivolgersi verso bisogni di livello superiore a quello della sicurezza.
Quanto, poi, la priorità assegnata alla salvaguardia della libertà di parola oppure alla partecipazione politica sia coerente con la modernità o la post-modernità non è del tutto chiaro, se si pensa ai valori proposti dalla rivoluzione francese, uno dei quali è la libertà (Gubert 2000, 481).
Egli rileva l’insufficienza degli schemi concettuali per comprendere la situazione italiana, che rivela delle peculiarità specifiche.
Più che rendere evidente un trapasso da una sensibilità moderna ad una post-moderna, l’esame dei valori socio-politici merita segnalazione per l’evidenziazione di situazioni che non si inquadrano in alcuno degli schemi. Basti segnalare il calo di importanza delle appartenenze sovranazionali cosmopolite, nonostante che esse risultino incentivate da più elevata istruzione, la prevalenza di atteggiamenti di attribuzione di funzioni forti di filtro ai confini nazionali nei confronti dell’immigrazione, accentuata nei giovani e al Nord, la diminuzione di riconoscimento di responsabilità sociale nel causare la povertà, con i ceti più disponibili alla modernità maggiormente a favore di una spiegazione della povertà sostanzialmente fatalista (sia pure imputando il progresso e non la sfortuna), la minore sensibilità al valore della giustizia distributiva da parte dei medesimi ceti, l’esistere di riserve sulla bontà del sistema democratico più sviluppate tra i giovani e al Nord, l’ampia percezione che i diritti umani in Italia siano poco o punto rispettati, l’ampia sfiducia verso le istituzioni pubbliche, il calo di interesse dei giovani per la politica.
Si tratta di fatti che testimoniano una crisi del rapporto tra istituzioni politiche e società, il cui rilievo risulta certamente maggiore di eventuali spostamenti dei valori socio-politici in direzione non materialista, anche se non si deve trascurare che tale crisi può proprio trarre alimento anche da mutamenti nelle aspirazioni e nelle attese, il cui fondamento è rintracciabile nella dinamica dei bisogni, sulla quale si basa anche l’ipotesi dell’evoluzione post-materialista e post-moderna (Gubert 2000, 481-482).
Non si può negare che vi siano tendenze di mutamento in direzione post-moderna, ma si tratta tutt’altro che di tendenze chiare ed uniformi. Non sono chiare per la difficoltà di capire il confine, in taluni casi, tra moderno e post-moderno e in altri tra tradizionale e post-moderno. Non sono uniformi perché alcuni valori, ritenuti non post-moderni, nella famiglia, nel lavoro, nella valutazione etica, nell’area religiosa e nella politica trovano negli anni Novanta rafforzamenti.
Considerando congiuntamente quanto emerso da una rilettura rapida dei risultati con riferimento alle due principali ipotesi che motivano la ricerca, pur con le limitazioni di una prima analisi dei dati, si può dire che nella realtà italiana, come già anticipato con riferimento ai valori politici, paiono muoversi contemporaneamente tre correnti culturali, quella modernizzatrice, quella post-moderna e quella legata alla tradizione. […]
La società italiana si è ampiamente modernizzata, le solidarietà comunitarie di sangue e di luogo, per dirla con Toennies, si sono largamente sfaldate; i valori della solidarietà si sono indeboliti specialmente tra i ceti più evidentemente portatori della modernità, il senso del dovere si fa più tenue in ragione della forza del principio di piacere, la questione del senso ultimo della vita poco può dire sul come una persona o l’intera società debbono agire nella vita quotidiana o nei grandi momenti della storia. L’indebolimento della incondizionatezza della solidarietà familiare, la sottovalutazione delle conseguenze sociali di comportamenti individuali quali suicidio, eutanasia, assunzione di droga, aborto, omosessualità, ecc. un’interpretazione prevalentemente forte della laicità, la prevalenza di una posizione etica relativista, le quote minoritarie di praticanti religiosi regolari, una concezione autoritaria della legge, per non ricordare il quasi ossessivo richiamo di leader della politica e dell’economia alla necessità di “modernizzare” il paese, sono tutte conseguenze evidenti dell’operare di tale corrente culturale (Gubert 2000, 482).
Sembra che la società italiana sia riuscita, da una parte a perseguire una strada della modernizzazione e dall’altra di evitare, grazie alla sua attenzione alla tradizione, certi estremismi tipici di processi troppo azzardati.
È proprio la riconsiderazione di alcune unilateralità e di alcune esasperazioni della modernità da parte della componente più intellettuale delle forze sociali modernizzatrici, è proprio l’affermarsi non generale, ma in alcuni ambiti e per alcuni elementi, della corrente culturale post-moderna che consente la vitalità di una terza corrente culturale, quella più legata alla tradizione, negli ultimi decenni considerata addirittura scomparsa.
[…]
In Italia, vuoi per la sua articolatissima morfologia territoriale, vuoi per il ritardo dei processi di industrializzazione specie in alcune aree, vuoi per una presenza istituzionale più forte della Chiesa Cattolica o per altre ragioni ancora, la dialettica modernità-postmodernità è iniziata quando ancora la tradizione trova aree e ceti nei quali essa ha una sua vitalità. Il Sud, i numerosissimi piccoli centri rurali, gli anziani, le persone meno scolarizzate, le donne specie se casalinghe, gli agricoltori sono altrettante aree sociali che hanno conservato tratti della cultura tradizionale ancora vitali quando già inizia qua e là la crisi della modernità.
Già negli anni Ottanta, ma ancor più per taluni aspetti negli anni Novanta, come s’è visto, elementi della cultura tradizionale hanno riconquistato spazi (Gubert 2000, 483).
In base a questa analisi l’autore conclude con una previsione a breve, che vede proseguire il processo combinatorio delle tre culture presenti in Italia (tradizionale, moderna e postmoderna).
Il futuro prossimo dei valori degli italiani non è la modernità, non è la post-modernità, non è la tradizione: è una mescolanza di tutto ciò che trova tendenziali parziali consonanze tra post-modernità e tradizione e fra modernità e post-modernità. Risulta sconfitta la pretesa della modernità di rappresentare il futuro evolutivo, progressivo e progressista, ma essa rimane tuttora in campo, specie laddove il confine tra essa e la post-modernità non è chiaro, laddove la post-modernità rappresenta la continuazione della modernità, nella valorizzazione della soggettività individuale che indebolisce legami istituzionali e certezze etiche e gnoseologiche, nel premio all’orientamento edonistico rispetto a quello al sacrificio per il compimento del proprio dovere, nella tendenziale separazione tra risposta religiosa al problema del senso ultimo della vita e altri ambiti della vita. Risulta peraltro altrettanto sconfitta la pretesa della post-modernità di rappresentare l’unico esito della crisi della modernità, proprio perché tale crisi ed alcune sottolineature valoriali che essa provoca ridanno spazio e prospettiva anche a mutamenti che si pongano come direttamente continuatori, con adattamenti, della tradizione, specie laddove questa dà risposte al problema del senso ultimo della vita, limita l’assolutezza individualistica ed edonista sia in campo etico e gnoseologico, sia nel campo delle relazioni umane, riscoprendo la distinzione tra bene e male, vero e falso e rivalorizzando solidarietà interpersonali ed appartenenze non solo episodiche o occasionali o strumentali nella famiglia e negli abiti di vita sociale comunitaria (Gubert 2000, 485) .

La relativizzazione e soggettivizzazione dell'etica

Una prima risposta a questo tipo di preoccupazione la diedero gli autori del rapporto italiano della ricerca EVSSG dell’81 (Calvaruso – Abbruzzese, 1985). Essi rintracciarono nella complessità sociale il motivo fondamentale della crisi dei valori e quindi della situazione problematica a livello sociale e personale. Essi riconoscevano che l’evoluzione della società metteva in crisi molte certezze consolidate. Ma questo non dipendeva da scelte rinunciatarie da parte degli individui, bensì dalla necessità di adattarsi ad una nuova realtà sociale. Infatti con termine “complessità” si intendeva sottolinea la forte differenziazione funzionale dei vari sistemi tra di loro e dei singoli sottosistemi al loro interno e la moltiplicazione delle relazioni tra loro . La frammentazione della realtà sociale e la pluralizzazione dei centri di potere e dei sistemi di riferimento e di significato, provocava effetti disgregatori sul tessuto sociale e sulla struttura cognitiva dei soggetti. La perdita di un centro unitario, fonte di legittimazione, di controllo e di riferimento, la pluralizzazione dei centri e dei sistemi davano luogo a logiche diverse, che tendevano ad elidersi a vicenda e postulavano la fine di una visione unica del mondo. Ne conseguiva che, al succedersi delle diverse visioni del mondo, si succedevano diverse interpretazioni della realtà e quindi una diversa gerarchia dei valori.

 

Se la complessità diventa l'ambiente sociale e culturale in cui stanno crescendo le nuove generazioni è in questo sistema che vanno cercate le motivazioni del comportamento giovanile. Esso si presenta come una risposta adattiva a tale situazione.
Di fronte alla moltiplicazione dei riferimenti, ad una certa rigidità interna delle istituzioni, e alle esigenze dovute alle diverse appartenenze, il soggetto è costretto a comportarsi secondo logiche diverse e a volte tra loro incompatibili. Ne consegue la necessità di ridurre l’intensità di adesione ai valori ed introdurre una certa relatività tra principi assoluti. Non per niente gli autori appena citati suggeriscono di distinguere tra rottura dell’omogenietà e dell’univocità dei valori e il loro declino, come pure di distinguere tra declino dell’intensità ed il variare del campo d’applicazione. Infatti il sistema dei valori sembra risentire delle seguenti dinamiche:
- mutamento dei criteri di riferimento che presiedono al comportamento e alle scelte delle istituzioni in quanto tali: l’evoluzione del riferimento pragmatico nei partiti, nelle istituzioni di rappresentanza parlamentare ed in altre realtà sociali, sono quindi il primo elemento scatenante di un processo di progressivo «scolorimento» della gerarchia dei valori;
- ambiguità crescente tra riferimento etico e riferimento pragmatico in istituzioni, come la Chiesa e la Famiglia, che sono state, per secoli, il principale centro di elaborazione e diffusione dei principi che regolano la gerarchia dei valori;
- una diminuita funzione etica delle istituzioni in quanto tali, sempre più percepite e giudicate in base alla loro operatività concreta e sempre meno « ascoltate » come centri capaci di porre un ordine all’interno del politeismo dei valori, stabilendovi una gerarchia di priorità;
- conseguente e progressivo riorientamento dei comportamenti individuali che ricominciano a cercare all’interno di loro stessi, della rete di relazioni informali, della tradizione locale, i criteri di orientamento, dato che nessuna istituzione sembra più fornirli in modo credibile;
- progressiva perdita di peso degli insiemi normativi che continuano ad essere diffusi dalle istituzioni stesse, e che tuttavia perdono la loro capacità di affermarsi, in quanto non più sostenuti da un riferimento etico presente nell’istituzione e collettivamente avvertito all’esterno di essa (Calvaruso - Abbruzzese, 1985, 199).
Per questo appare in crescita la relativizzazione dell’etica, soprattutto per quanto riguarda la posizione su questioni attinenti la sfera più personale e soggettiva, come quella sessuale, familiare o la gestione della stessa vita. Chi, per cultura, professione o stato sociale si trova più facilmente coinvolto in sfere di appartenenza molteplici e distinte, deve, per necessità adattarsi alle situazioni e relativizzare alcuni principi etici. Tale situazione sta diventando prevalente non solo in Europa ma anche in Italia, e viene percepita come segno di progresso e apertura mentale, mentre l’assolutizzazione dell’etica rimane un tratto tipico delle persone più religiose (credenti e praticanti) e tradizionali. I giovani esprimono in maniera preferenziale il tratto soggettivo dell’etica.
In tale contesto sarebbe errato valutare i comportamenti secondo criteri tradizionali. Il giovane, stando alle inchieste esaminate, non ha rinunciato ad essere protagonista dei suoi riferimenti culturali e morali, a governare il proprio campo d'azione e di ridefinizione, a ricercare una risposta al problema del significato e dell'identità personale. Non ci troviamo quindi di fronte "ad un'eclisse della coscienza morale dei giovani" (Garelli, 1984, 6), ad una assenza di valori.
Ciò che cambia non è la tensione morale, bensì i contenuti di essa ed i modi di formazione ed espressione. Non sono più possibili quei percorsi di appropriazione dei valori e delle norme che avevano contraddistinto le stagioni precedenti. La situazione di complessità, di pluralismo e relativismo culturale rende impraticabile un percorso unitario, coerente, logico, comune. Non rimane che l'interiorizzazione della frammentarietà sociale.
Si rinuncia a cammini precostituiti, ad un'obbedienza a valori consegnati dalla tradizione, ad una norma che si presenti con i caratteri dell'oggettività e dell'assolutezza. E' questo che il giovane non può più accettare. Non che dichiari destituito di valore ciò che prima lo era, ma non ha più quel valore assoluto che vi si attribuiva un tempo.
Di fronte ad un mondo che sembra aver smarrito il senso di ciò che fa, il giovane non rinuncia a ricercare un senso "suo", ad elaborare dei criteri personali di orientamento morale. Ma l'unica via è quella della riduzione personale della complessità: individuare alcuni criteri che servano da guida nell'affrontare la quotidianità. Non può chiudersi in un programma valido per sempre, in una fedeltà a vita. Per trovare il senso alle azioni quotidiane sarà necessario restringere gli obiettivi, le prospettive, i modelli di realizzazione a misura delle proprie capacità e possibilità. Di fronte al mercato dei significati della società pluralista d'oggi egli si dota di un atteggiamento selettivo che gli permette di svolgere una funzione di filtro tra le tante proposte e individuare un proprio cammino di realizzazione. Questo non vuol dire rinunciare ad essere protagonisti, a porsi il problema di senso, solo che questo va risolto in modo personalissimo.
E' il principio della soggettivizzazione dell'etica, che è il contrario della deresponsabilizzazione, ma è anche il non volere affrontare problemi più grossi di quelli che si possono risolvere. E' un ethos che vuole misurarsi con le sfide della cultura contemporanea e conservare la capacità di decisione e di adattamento in relazione alle condizioni di vita quotidiana. E' cercare la propria via di realizzazione, di ritagliarsi una propria identità peculiare, di non confondersi con le condizioni standard. E' assumersi la responsabilità delle proprie scelte: il che  richiede una prolungata riflessione. Per questo si preferisce non scegliere o fare scelte non irreversibili: si vuole conservare intatta la propria autonomia e non delegare a nessuno (movimento, gruppo, chiesa, partito) la determinazione del proprio futuro. Per questo le appartenenze sono "a tempo", gli impegni di corto respiro, i legami provvisori.
Recupero dell'etica in chiave personale vuol dire anche riappropriarsi dei propri desideri, persino dei propri istinti, cercare nelle relazioni interpersonali, nella gestione della propria sessualità quella sincerità e verità di rapporto che una morale oggettivata aveva mortificato.

Trasformazione dei criteri di azione, degli orientamenti etici

Ciò che un tempo costituiva la continuità tra nuove e vecchie generazioni era la persistenza di principi unitari di riferimento. Ora questi, per effetto delle trasformazioni socio-culturali, stanno radicalmente cambiando.
Lo stesso concetto di bene e male non ha più lo stesso significato di un tempo: bene e male non si presentano più per le giovani generazioni come principi assoluti di una morale oggettiva. Essi valgono solo come principi soggettivi,  "personali", "contingenti". Valgono qui ed ora, in base alla situazione concreta, personale, valutati in base alla capacità di assicurare benessere, felicità o no. Diventando relativi, essi perdono il carattere di incompatibilità che li distingueva precedentemente. Nello stesso soggetto si può incontrare sia l'uno che l'altro: essi fanno parte inscindibilmente dell'esperienza umana, forze contrapposte ma compresenti nella realtà come nella coscienza. E quindi giudicare buona o cattiva un'azione dipende dalla situazione, dal soggetto, da un'infinità di altre variabili.
In mancanza di una autorità effettiva che legittimi le norme non rimane che la propria sensibilità ed esperienza il criterio per giudicare e valutare tra le varie proposte. La soggettivizzazione dell'etica comporta la prevalenza dei criteri interni, soggettivi, estremamente personalizzati. Ciò può essere definito col termine della "normatività dell'esperienza": rifiutato il principio di autorità, venute meno le evidenze oggettive di palusibilità, l'esperienza diviene il criterio di bene autoevidente.
Stanno perciò mutando i criteri etici che regolano le scelte degli individui.

I giovani e la società

2 tesi: giovani prodotto della società,
giovani sistema indipendente, cultura giovanile
giovani e interdipendenze sociali

In questo quadro globale la situazione giovanile non differisce molto da quella della società più generale, se non per una maggior percezione dei disagi ed una sorprendente capacità di adattamento.
La mancanza di un collante sociale e la moltiplicazione dei centri di acculturazione ha indebolito notevolmente la coscienza giovanile di essere “classe” o almeno “generazione”. Le appartenenze si moltiplicano, le identità si frantumano, i caratteri sfumano, la condizione giovanile si perde in mille rivoli e si trasforma in tante “condizioni” particolari.
Ci si domanda addirittura se esista una “condizione giovanile”, cioè un qualche carattere distintivo dei giovani rispetto alla società degli adulti. Sembra di assistere ad una “dissolvenza” della condizione giovanile per lasciare il posto ad una sempre maggior pervasività del modello giovanile nella società. Vi sono dimensioni della vita urbana che, all’insegna dell’informale della moda, per esempio, accomunano quindicenni e quarantacinquenni, padri e figli che condividono simboli e stili di vita, modi di essere, di pensare e di viaggiare alla ricerca di comfort e di funzionalità. Si parla, a questo proposito, di “gioventù espansa”, una realtà che supera i confini e non riconosce bandiere, trasversale nei consumi, informale e trasformista, ma anche omologata e coatta . Va perciò rilevato che, a livello sociale, si sta assistendo ad una mutazione del concetto di gioventù dai confini anagrafici sempre più labili e dilatati.
Questa generazione si presta perciò a letture molteplici e contraddittorie: dalla marginalità alla centralità, dall’appartenenza alla partecipazione, dall’integrazione alla differenziazione. Si ha praticamente un misto di compenetrazione dei giovani nei processi sociali e di distinzione da essi.
È difficile perciò distinguere ciò che caratteristico dei giovani e ciò che invece è prodotto della società. Tuttavia, almeno per il loro carattere anticipatorio, i giovani si prestano ad analisi particolari, nel tentativo di capire alcuni fenomeni che, comunque, li contraddistinguono.

La crisi delle istituzioni tradizionali e nuove agenzie di socializzazione

Negli anni ’70, anni di profondo mutamento sociale, le istituzioni tradizionali (stato, famiglia, scuola, chiesa) entrarono in crisi: crisi di funzione. In genere non riuscirono a cogliere le nuove domande emergenti dalla collettività e dai giovani in particolare, e ad elaborare delle risposte all’altezza della situazione. Esse, infatti, erano state pensate e strutturate in un periodo storico precedente, e non dimostrarono la capacità di recepire, nelle tendenze al mutamento, i nuovi bisogni che andavano emergendo.
Dagli anni ’80 in poi c’è stato un recupero di alcune istituzioni. La famiglia gode della massima fiducia da parte dei giovani. Anche la Chiesa, che sembrava destinata ad essere spazzata via come un residuo medioevale, ha sorprendentemente recuperato posizioni. La stessa scuola, pur con la sua endemica incapacità di stare al passo con i tempi, riscuote una notevole credito di fiducia da parte dei giovani, anche perché è l’unica istituzione pubblica che sentono vicina. Lo stato è l’unica realtà che non ha recuperato. Ma questo fa parte di una situazione endemica della popolazione italiana, più tendente verso il particolarismo che verso la lealtà nazionale. In ogni caso, nel caso dello stato bisogna distinguere tra istituzione e istituzione. Se si parla di governo, di burocrazia, di politici, di partiti (e analogamente di sindacati, anche se non sono organizzazioni statali) la fiducia è ai livelli minimi; se invece si parla di giustizia, di forze dell’ordine o di militari il livello di fiducia è tra i più alti. Segno forse del bisogno di sicurezza e delle garanzie che tali istituzioni offrono. Così pure c’è fiducia nei rappresentanti del sistema economico (banche, industriali) e dell’informazione (scienza e comunicazione sociale).
Tuttavia questi recuperi di fiducia non debbono trarre in inganno. In parte risentono della ricompattazione attorno ad alcune certezze dopo la critica radicale degli anni ’70. Ma ciò non significa un ritorno al quadro sociale precedente. Già negli anni ’80, a fronte dell’inversione di tendenza dimostrata dai giovani, i ricercatori avvertivano che «le istituzioni non riscuotono molta fiducia, ad eccezione di alcune. […] Il consenso resta così privo di referenti determinati, il sistema è riconosciuto come legittimo, ma tra le istituzioni che ne rappresentano i centri funzionali vitali, ben poche meritano fiducia allo stato attuale» (Calvaruso – Abbruzzese, 1985, ). Ed aggiungevano che, se la rivolta generazionale e la critica radicale erano scomparse, non per questo si poteva pensare ad un recupero del consenso precedente: la cessazione della conflittualità non significava «una delega in bianco per nessuna istituzione, la quale in ogni caso deve riconquistarsi la propria legittimità» (Calvaruso – Abbruzzese, 1985, ).
La vicenda delle istituzioni è stata seguita nelle successive indagini “EVS” da Abbruzzese, il quale ha rilevato l’equivoco di fondo presente nel presunto recupero di credibilità delle istituzioni, quando permane il soggettivismo. Afferma che «dopo la perdita di fiducia nelle istituzioni (già avvertibile nell’indagine del 1981) viene meno anche quella sui benefici sociali e di status derivanti dall’impegno professionale. Valgono di meno il lavoro – nelle sue ricadute sociali e nelle sue potenzialità realizzative – e la politica attiva, intesa come militanza disinteressata e generosa per il partito e il sindacato. Al loro posto si affermano l’attenzione alla qualità della propria vita ed al proprio universo di relazioni» (Abbruzzese, 1995, 189). Il tentativo di ricostruire un tessuto sociale senza rinunciare all’individualismo è visto dall’autore con notevole sospetto, che lo ritiene destinato all’insuccesso. La convergenza su alcuni valori e su alcune forme di socialità rappresenta più una sommatoria di attenzioni individuali che un consenso comune. Quindi il tessuto sociale non viene ricostituito, la norma non nasce dal riconoscimento di principi comunque validi, ogni cosa è sempre soggetto al principio della gratificazione individuale, e quindi fluida.
Le istituzioni recuperano valore e fiducia solo nella misura in cui rispondono a bisogni specifici, valutati con criteri soggettivi. Sovente è la qualità della relazione che conferisce valore alle istituzioni. Ma tale strada è pericolosa: «il personalismo è la forma di devianza più rischiosa per chiunque ricopra una funzione all’interno di un’istituzione. La dimensione relazionale, per tale strada, se da un lato riscuote consensi, dall’altro non ricuce necessariamente il rapporto tra individuo ed istituzione ma anzi rischia di far conflagrare il personalismo all’interno di quest’ultima» (Abbruzzese, 1995, 198).
Le conseguenze potrebbero essere di «defezione di responsabilità verso terzi, di un abbandono crescente delle funzioni educative[…], [e di] dimissioni dalle funzioni fondative» (Abbruzzese, 1995, 196) da parte delle istituzioni. Condizionare il valore di ogni istituzione alla qualità della relazione e, in definitiva, ad un principio di gratificazione implica un aumento di compiti per la persona ed una fragilità complessiva del sistema.
L’effetto perverso potrebbe essere un sovrainvestimento individuale, con il rischio che diventi soggettivamente insostenibile per il soggetto. Così l’individualismo rimane l’unica via percorribile, ma con effetti disintegratori sul sistema sociale.
La crisi delle istituzioni dunque come crisi di mediazione dei bisogni, che rimangono privi di canalizzazioni socialmente accettabili, ma anche come crisi di regolazione generale del comportamento sociale e quindi come frustrazione della domanda di cambiamento, partecipazione e responsabilità. Ciò implica la mancanza di strutture capaci di mediare tra sociale e individuale, cioè di assicurare quel processo di socializzazione integrativo che è necessario al ragazzo nel suo processo di maturazione e accesso all’età adulta.
Il quadro della crisi richiama alla mente il modello durkheimiano: lo sfondo è quello dell’anomia, oggettivamente definita come scollamento tra sistema normativo e sistema strutturale per effetto di diverse velocità di cambio e per fatti traumatici storicamente ben accertabili; soggettivamente equiparata a stati d’animo variabili tra il disagio, l’angoscia, la sfiducia nei riguardi di un sistema normativo che non è più in grado di governare il rapporto tra individuo e società, perché obsoleto, delegittimato, contraddittorio.
A questo punto il discorso dovrebbe farsi analitico e riferirsi più specificamente alle diverse istituzioni, da quelle politiche, alle altre quali la chiesa, la scuola, l’esercito, ecc. Si tratta in genere di canali di comunicazione verticale che restano ancora ostruiti e che perciò rendono precari la continuità culturale, il senso della tradizione e, in ultima analisi, la progettazione del futuro.
Però, ai fini della nostra trattazione, è sufficiente analizzare quelle istituzioni che più direttamente entrano nel processo di socializzazione adolescenziale.

La famiglia

La famiglia, nella sua forma moderna, garantisce alle persone il soddisfacimento di alcuni bisogni primari: il bisogno psicologico di sicurezza, di affetto, di stare insieme, di soddisfare le esigenze del sesso, di procreare.
Ma oltre ad essere il luogo della risposta ai bisogni psicologici e biologici tipicamente umani, la famiglia è anche l’area della riproduzione del sistema sociale sia a livello della conservazione che della cultura sociale, intesa come insieme dei codici e delle tecniche del vivere. Infatti è all’interno della famiglia che si realizza il primo e più rilevante stadio dei processi di socializzazione e di inculturazione, attraverso i quali avviene l’interiorizzazione dei valori sociali e degli stili di vita che sono tipici di un certo sistema sociale. Ciò significa che all’interno della famiglia si gioca gran parte della possibilità del nuovo individuo di adattarsi al sistema sociale e di elaborare un progetto di vita evolutivo o regressivo. Ora, nell’attuale società caratterizzata da una alto livello di complessità e differenziazione, nonché dalla carenza di un sistema di fini che coordini le attività delle istituzioni e dei sistemi sociali con quelle dei soggetti, ricade nella famiglia la maggior parte del compito di socializzazione e di integrazione. Infatti, anche per Luhmann il sistema famiglia è l’unico dove il sistema psichico individuale può essere persona. Tuttavia tale compito diventa soverchiante rispetto alle possibilità della famiglia, perché essa stessa è inserita in questa realtà sociale ed importa complessità, che vuol dire flessibilità ma anche insicurezza e disorientamento. Tali caratteristiche ridimensionano la capacità educativa e strutturante la personalità e riducono il peso dell’autorità familiare sul processo di socializzazione.
Pertanto, pur rilevando dalle statistiche un recupero della centralità della famiglia ciò non indica che la famiglia stia bene. Dalle analisi sociali emerge un’intrinseca debolezza della famiglia nucleare per quanto attiene le capacità educative, in quanto, potendo contare solo su uno o due ruoli educativi adulti al proprio interno, quando va in crisi uno di essi, o addirittura entrambi, gli effetti all’interno del processo formativo diventano immediatamente rilevanti.
Questo viene evidenziato dalle situazioni più gravi di disagio di alcune situazioni familiari:

  1. svantaggio economico;
  2. basso livello di istruzione dei genitori;
  3. disoccupazione o occupazione precaria dei genitori;
  4. isolamento relazionale nel contesto urbano della famiglia;
  5. coppia genitoriale separata o conflittuale;
  6. assenza o carenza del ruolo educativo e normativo da parte dei genitori;
  7. comunicazione violenta di uno o di entrambi i genitori nei riguardi dei figli.

Per esempio, i giovani che compiono atti di violenza, come le “baby gangs”, provengono generalmente da famiglie «che hanno alle spalle almeno una separazione o comunque una situazione di disagio; sono molti i genitori che non sospettavano neanche che i propri figli potessero essere coinvolti in comportamenti trasgressivi o che non controllano ciò che i loro figli portano a casa o portano via da casa» (Dipartimento di giustizia minorile 2001, 41).
A questo quadro tradizionale della povertà dell’ambiente familiare, si aggiungono forme nuove di abbandono e incapacità di assolvere i compiti familiari, che colpiscono famiglie benestanti e cosiddette “normali”
Gli studi relativi al clima familiare hanno evidenziato l'incidenza negativa sia di uno stile educativo permissivo e tollerante, sia di quello coercitivo. In entrambi i casi è probabile l'assunzione da parte del bambino di condotte aggressive, nel primo caso per l'incapacità a porre adeguati limiti al proprio comportamento, nel secondo per la tendenza a legittimare l'uso delle stesse modalità comportamentali esperite nella relazione parentale.
A detta degli esperti sono normali «anche le famiglie nelle quali il dialogo tra genitori e figli è sbrigativamente basato sulla soddisfazione dei bisogni e dei desideri, piuttosto che sulla lenta e faticosa negoziazione ed elaborazione di quest'ultimi, che costringe a motivare i no e i sì e ad essere coerenti con le prescrizioni date, oggi normalmente non esistente. Normali, inoltre, sono anche le famiglie in cui entrambi i genitori lavorano, stanno fuori casa tutto il giorno e confessano di cominciare ad avere problemi nel tenere i figli, non tanto e non solo come custodia, ma soprattutto come stile relazionale ed educativo, fin da quando hanno 3 anni» (Dipartimento di giustizia minorile, 2001, 40).
La mancanza di un vero dialogo tra genitori e figli rende impossibile la crescita di questi ultimi. Questa mancanza di autentico dialogo sarebbe dimostrata anche dalla mancanza di conflitto interno alla famiglia. Tale mancanza può sembrare, a prima vista, positivo. Ma il fatto che il conflitto diventi latente non aiuta a crescere, non fa maturare la personalità e, soprattutto, non risolve il conflitto. Così questo conflitto è a sua volta causa di malessere e disagio, come rileva il rapporto Censis del 2001: «oggi […] il conflitto sembra definitivamente derubricato. […] Ma alla omologazione delle opinioni fa da contraltare l’autopercezione della distanza rispetto alle generazioni adulte e anziane […], soprattutto nei linguaggi espressivi e nei luoghi di socializzazione. Ci si trova così di fronte ad una realtà in cui l’aderenza sostanziale a modelli valoriali convenzionali convive con la spinta potenziale alla alterità generazionale […]. Per i genitori l’adesione giovanile a valori ed orientamenti convenzionali ha una funzione tranquillizzante, così come per i figli l’accettazione di comportamenti codificati è altrettanto rassicurante e tende ad evitare qualsiasi forma di conflitto, a mimetizzare ciò che si è per far emergere solo ciò che si ritiene giusto mostrare. […] Un dissenso silente, fatto di continue dissociazioni tra ciò che è giusto essere e ciò che si è intimamente e che può diventare potenzialmente dirompente proprio per la complessità della gestione di questo fragile equilibrio» (Censis, 2001, 27-29).
Pertanto la crisi della famiglia si avverte nella sua incapacità di “filtrare” o rendere dialettici al suo interno (in modo da garantire una arricchente convivenza) i modelli culturali presenti a livello sociale. I modelli culturali, le problematiche, le tensioni esterne, sovrastano molte volte la famiglia, impedendole quella funzione di “mediazione” tra personalità e società che dovrebbe qualificare la socializzazione primaria, di cui gli adolescenti hanno particolare necessità. E ciò soprattutto in un contesto di elevato pluralismo ideologico e culturale.
Per Donati tale situazione testimonia che non c’è più nulla da comunicare, che non esiste differenza a livello di valori tra le generazioni, perché, vivendo in una società eticamente neutra, non c’è più nulla da trasmettere: «Il conflitto fra genitori e figli è scomparso, perché entrambi vivono alla giornata. Non litigano più solo perché parlano di cose banali. Il clima familiare non è problematico solo perché si rinuncia a fare delle scelte che costano sacrifici. I genitori educano senza assumere, né chiedere ai figli che si assumano, precise responsabilità etiche. Vivono nelle ansie e nei timori, ma senza decidere nulla eticamente. Il conflitto, perciò, diventa latente, e si sposta su un altro terreno, quello di convinzioni intime che non sono oggetto di comunicazione» (Donati – Colozzi, 1997, 29).
Così prevale una funzione di “parcheggio” della famiglia, una struttura in funzione dei bisogni individuali di cui il giovane approfitta opportunisticamente, ma incapace di costituire per i propri membri uno spazio di costruttivo e arricchente confronto alla luce delle istanze e problematiche emergenti dalla società.

La scuola

Il ruolo socializzante della scuola durante l’età giovanile è in discussione: alcuni studiosi pensano che la scuola sia decisamente il fattore più importante di trasmissione di contenuti culturali in questa età, altri invece ritengono che il ruolo della scuola sia di fatto solo istruttivo-informativo riducendosi all’insegnamento di nozioni e di abilità che facilitano meramente l’adattamento professionale alla società.
In realtà si può dire che:

  1. Generalmente la scuola assolve, almeno in modo indiretto, alla funzione di trasmissione di contenuti culturali, ma di solito tali contenuti sono un riflesso speculare delle caratteristiche strutturali e culturali della società stessa.
  2. L’influsso della scuola, a parte la qualità dei contenuti trasmessi, è comunque notevole in quest’età anche perché catalizza le possibilità di formazione di una ideologia, soprattutto attraverso alcune discipline particolarmente formative.
  3. L’influenza è legata poi anche alla personalità degli insegnanti, al carattere anticipatore dei suoi contenuti, al grado di conflittualità rispetto ad altri fattori socializzanti. Su questo ultimo punto si potrà notare che, rispetto a tutte le altre fonti di “inculturazione”, la scuola gode del vantaggio di un più lungo contatto, di un influsso graduale, di una vera esperienza di gruppo; ciò sembra ricompensare le carenze di profondità e di strutturazione dei valori trasmessi.
  4. In particolare riferimento al problema dei valori, occorre sottolineare che è attraverso la scuola che i giovani vengono a contatto con gli aspetti più riflessi della cultura, soprattutto quelli connessi con le moderne scienze antropologiche e quelle più ancora radicate nelle scienze storiche, filosofiche e letterarie.

A fronte di queste funzioni della scuola, si rileva la costante incapacità della scuola italiana a rispondere a quelle domande sia di cultura sensata, di preparazione alla vita che si traduce in inserimento sociale e preparazione professionale che proviene dalla società e dal mondo giovanile.
I giovani italiani pur avendo avuto una buona scolarizzazione, sono stati per decenni in ritardo rispetto alle altre nazioni europee. Ultimamente il gap si è ridotto ma ci sono dubbi sulla qualità della scuola italiana. I recenti tentativi, di Berlinguer prima e della Moratti oggi, di modernizzare la scuola italiana hanno dimostrato, dalle resistenze che hanno suscitato, quanto il problema sia vasto e complesso.
I nodi ancora irrisolti riguardano: il ritardo nei riguardi dell’Europa; il basso grado di efficienza ed efficacia del sistema scolastico; le disparità territoriali, di genere e di classe sociale; la domanda di personale qualificato (Besozzi, 1998, 23-26).
In merito alle disfunzioni della scuola, la dispersione scolastica ne è l’indicatore più significativo. “La relazione sull’infanzia e l’adolescenza 2000” riconosce che «il 5% della popolazione italiana non riesce a completare il corso di scuola media» e che «permane una percentuale ancora piuttosto alta di uscite dal sistema scolastico dopo il primo anno di scuola secondaria superiore» (Presidenza del Consiglio, 2001, 51)
La ricerca Labos (1994) ha chiarito l’esistenza del nesso, anche se in modo non deterministico, tra la dispersione scolastica e le varie forme di disagio o di devianza in cui sfociano alcuni percorsi esistenziali giovanili.
Sovente proprio i giovani che avrebbero un maggior bisogno dell’attività formativa della scuola, vuoi per gli svantaggi sociali e familiari di cui sono portatori, vuoi per motivi personali, sono quelli che spesso sono precocemente espulsi da essa o marginalizzati. Molte situazioni di disagio o carriere devianti hanno alle spalle un’esperienza scolastica negativa. La dispersione scolastica è, infatti, un fenomeno sociale fortemente correlato con i percorsi del disagio e della devianza giovanile.
Non è perciò un caso che nelle storie dei giovani, vittime del disagio, si riscontri una serie frequente di vicende scolastiche negative. Questo è stato evidenziato anche da altre ricerche. In particolare una ricerca del CEIS di Roma, condotta da Pollo, ha messo in luce l’intreccio che si stabilisce tra disagio scolastico e tossicodipendenza. In particolare il metodo delle storie di vita ha permesso di ricostruire la catena causale innescata da incidenti relazionali con insegnanti: «problema relazionale con uno o più insegnanti, perdita di fiducia in sé e/o negli insegnanti perdita di interesse per lo studio e abulia» (Pollo, 1999, 226).

La Chiesa

La crisi della Chiesa è intimamente connessa al progetto moderno-illuminista, e va sotto il nome di “secolarizzazione”. Con tale termine si vuole esprimere la «rimozione del dominio religioso, istituzionale e simbolico, dai settori della società e della cultura» (Dani - Roggero, 1987, 1821). Tale operazione viene da Weber giustificata come “disincantamento del mondo”, cioè un processo di “razionalizzazione”, tipico della modernità, che, nel rapporto tra mezzi e scopi, esclude pregiudiziali di valore (sovente di tipo religioso).
E’ dagli anni ‘70 che la religione in Italia sta subendo un graduale processo di erosione numerica e di emarginazione sociale, riducendosi progressivamente ad un fatto meramente privato. «Le immagini più evocate sono quelle di una costante curva discendente, di in continuo processo di riduzione , che vanno sotto il nome di caduta della pratica religiosa, di diminuzione di fanciulli catechizzati, di crisi o di crollo delle vocazioni, di obsolescenza di strutture, di perdita di senso religioso, di disaffezione dalle chiese, ecc.» (Garelli, 1991, 9). Nonostante una ripresa della domanda religiosa agli inizi degli anni ’80, tale andamento non si è arrestato.
Tuttavia in Italia «la religione cattolica sembra ancora manifestare un’insospettata vitalità, una forte capacità di tenuta, grazie alla quale essa assolve ad una importante funzione di equilibrio nella dinamiche sociali. La stessa cultura postmoderna in Italia sembra connotarsi come un equilibrio tra tradizione e modernità, ed in questo ambiguo “cocktail” la religione di chiesa sembra godere di una certa ripresa: per esempio la celebrazione religiosa dei principali momenti di passaggio nella vita (nascita, matrimonio, morte) […] sembra configurare un’inversione di tendenza rispetto all’allontanamento dalla religiosità tradizionale, della quale una componente rilevante è anche quella istituzionale. Ciò ovviamente non significa che la maggioranza degli italiani sia osservante delle prescrizioni ecclesiastiche» (Gubert, 2000, 480). Per cui si osserva da una parte un processo di soggettivizzazione dell’etica e dell’esperienza religiosa, dall’altra la tenuta dei riferimenti religiosi.
Di conseguenza anche la funzione socializzatrice della Chiesa cattolica subisce il condizionamento di tale ambiguità sociale. Da una parte si ricorre ancora massicciamente ai sacramenti e ci si assoggetta alle richieste della Chiesa per prepararvisi, dall’altra la pratica religiosa e l’osservanza etica risponde a criteri soggettivi.
Il fatto più sorprendente è il forte impegno nella preparazione ai sacramenti dell’iniziazione cristiana (battesimo, cresima, eucaristia), controbilanciato dall’esodo massiccio dalla Chiesa una volta completato questo iter formativo . Con il sospetto che ciò che è stato appreso non sia stato adeguatamente interiorizzato e, quindi, non si traduca in atteggiamenti e comportamenti corrispondenti alla fede dichiarata.
Questo fenomeno è stato anche statisticamente documentato .

Sono pertanto assai pochi, tra i ragazzi che hanno partecipato ai corsi di catechismo in vista dell’iniziazione cristiana, coloro che ne hanno effettivamente interiorizzato il messaggio. Questo avviene molto più probabilmente con coloro che, volontariamente, si aggregano in associazioni, gruppi o movimenti cattolici.
Questo variegato modo di rapportarsi alla Chiesa appare anche dai dati dell’ultima indagine IARD, dove l’80% dei giovani si dichiara di fede cattolica, tre quarti dei quali considerano importante la fede nella loro vita, ma solo il 35% le assegna moltissima importanza. Il 41%, frequenta le funzioni religiose, ma solo il 27% lo fa con frequenza. Il 18% partecipa a gruppi o associazioni religiose (cfr. Buzzi – Cavalli - De Lillo, 2002, 367-373). L’associazionismo religioso è secondo in Italia solo a quello sportivo, ma c’è una forte caduta di partecipazione man mano che gli anni avanzano. Questi dati confermano tendenze già evidenziate in passato: cioè una forma a “scalare” dell’impegno e pratica religiosa, «la religiosità si presenta come un fenomeno non solo a molte dimensioni, ma anche a molte intensità» (Buzzi-Cavalli-De Lillo, 2002, 375). Per quanto la religione in Italia tenga, è evidente la caduta di partecipazione che data dagli anni ’70.
Gli effetti della scarsa incidenza della socializzazione religiosa sono constatabili anche dal comportamento dei giovani credenti, dove valori che riguardano la vita e la sessualità (aborto, divorzio, rapporti sessuali, bioetica, ecc.) non godono delle stesse valutazioni della gerarchia (cfr. Buzzi-Cavalli-De Lillo, 2002, 380). Ma nemmeno tutti i contenuti dottrinali della fede sono accettati tranquillamente dai credenti. Soprattutto sull’aldilà, sono molti i dubbi, le perplessità o i rifiuti della dottrina tradizionale. Lo stesso dicasi dei miracoli e del peccato (cfr. Mion, 1991, 198-199).
In compenso, se si confronta la posizione dei giovani religiosi cattolici su temi sociali e civili come la giustizia, l’uguaglianza, la pace, la solidarietà, la Patria (oltre che sui temi dell’etica familiare e sessuale) essi dimostrano punteggi più alti dei non religiosi (cfr. Buzzi-Cavalli-De Lillo, 2002, 380-381). Pertanto l’appartenenza religiosa, anche se non riesce a contrastare efficacemente le tendenze secolarizzatrici della società, riesce comunque a fornire motivazioni sufficienti per un impegno civile più pronunciato, talmente che Cartocci (2002), in seguito ad una recente indagine sul senso civico dei giovani, ha constatato che «in generale gli studenti cattolici praticanti manifestano una maggior apertura verso gli altri, più fiducia nelle istituzioni; risultano anche quelli più severi verso le trasgressioni e più critici verso l’arte di arrangiarsi»(Cartocci, 2002, 228). Fino ad arrivare ad affermare che “la rete della parrocchie e degli oratori appare oggi una delle poche palestre di civismo” ”(Cartocci, 2002, 228) presenti nel paese. Egli individua il motivo di questa caratteristica nell’esperienza positiva in seno alla famiglia, nei gruppi, nelle associazioni, nei rapporti interpersonali. Le buone ragioni della convivenza (convivenza fondata su valori comuni che hanno alla base la fede) alimentano progetti e ideali che permettono una presenza sociale costruttiva, senza farsi condizionare dalla cattiva pedagogia delle istituzioni e dal clima di lamento sulla situazione nazionale veicolato dai mass media e dall’opinione pubblica. Trova che «la pratica religiosa introduce elementi di arricchimento dei punti di vista sul mondo, in buona misura dissonanti sia rispetto ai messaggi dei media, sia anche rispetto alle materie scolastiche» (Cartocci, 2002, 229). Arriva persino a ritenere la pratica religiosa una forma di “mobilitazione cognitiva”, invertendo con ciò il significato che l’adesione alla fede aveva in Inglehart.
Ciò conferma quanto già osservato da Mion negli anni ’90, che cioè «la religiosità sta acquistando oggi più di ie­ri un valore fondamentale anche nella formazione dell'identità giovanile. [Essa] diventa un tratto centrale, molto im­portante, attorno a cui unificare le altre dimensioni umane per la costruzione della propria personalità. […]Una tessera importante e tra le più valide con cui dare senso al mosaico della propria vita nel segno dell'autorealizzazione» (Mion, 1995, 46)..
Pertanto l’adesione e la pratica religiosa sembra rappresentare un elemento di contrasto al disagio e alle forme di confusione valoriale e disimpegno civile, ma la sua scarsa incidenza numerica ne riduce sensibilmente l’apporto.

Il gruppo dei pari

"Nella nostra società urbana-(post)industriale, il gruppo dei coetanei assume durante l'adolescenza un'importanza che non aveva prima e non conserverà in seguito" (Lutte, 1987, 223). L’importanza del gruppo va cercata nel bisogno di affiliazione o di appartenenza, nel bisogno di indipendenza dagli adulti e nel bisogno di organizzarsi autonomamente in un contesto di società che emargina di fatto l'adolescente e frustra le sue aspirazioni.
Il gruppo può considerarsi "l'habitat privilegiato degli adolescenti non solo per il fatto che essi vi investono gran parte del loro tempo, ma soprattutto perché esso rappresenta un'interfaccia significativa tra il soggetto e la società circostante nel processo di formazione delle opinioni e delle forme di rappresentazione di sé e degli altri" (Salvini, 1994, 53).
Il gruppo, quindi, è funzionale al momento di transizione dell'adolescente dallo status infantile a quello adulto. Nel gruppo l'adolescente può trovare uno spazio in cui può esprimersi con maggiore libertà ed autonomia e la necessaria sicurezza per superare i compiti di sviluppo connessi a tale fase evolutiva. Il gruppo dei pari, infatti, diviene luogo dove condividere la propria "immaturità". Qui l'immaturità e l'incompiutezza possono, in un confronto paritario, generare quei processi creativi che aiutano l'adolescente nella sua crescita (Baldascini 1993, 149162).
Le attività comuni nel gruppo sono la possibilità per sperimentare e conoscere i propri limiti e risorse, i limiti delle proprie prestazioni fisiche e le possibilità che derivano dalle recenti trasformazioni del corpo, i limiti delle nuove acquisizioni psichiche e la sperimentazione delle proprie capacità di ragionare, teorizzare, verbalizzare.
Il gruppo costituisce l'ambito in cui gli adolescenti elaborano, nell'interazione reciproca tra di loro, il proprio modo di inserirsi tra gli adulti. Il gruppo è ponte tra (individuo e la società, perché è spazio in cui il giovane può guadagnare la propria affermazione. Nel gruppo l'adolescente negozia con i pari un proprio spazio d'iniziativa, assumendo proprie responsabilità e rinunciando in parte al proprio narcisismo. Il gruppo consente di soddisfare il "bisogno di autonomia, di protagonismo, di sperimentazione, la voglia di fare e rischiare in proprio" (Altieri 1987, 57).
Questo bisogno di protagonismo, autonomia e sperimentazione porta l’adolescente a contrapporsi alla società degli adulti, a costruire un sistema di valori e norme alternativo al sistema sociale vigente. In questo processo il gruppo fornisce un sostegno emotivo e culturale, aiutandolo a superare le angosce di separazione connesse con questo strappo. Il gruppo, infatti elabora un sistema di regole, di valori, ma anche di codici comunicativi come il linguaggio, il vestito, i luoghi di ritrovo, gli interessi, i gusti musicali, gli atteggiamenti e comportamenti che costituiscono la cultura del gruppo e servono come elemento di differenziazione dagli altri gruppi e soprattutto dagli adulti. Il gruppo diventa un "luogo di elaborazione di senso" e "mondo vitale" (Colozzi cit. da Baraldi 1989, 302) per molti adolescenti. Il gruppo diventa dunque un riferimento anche dal punto di vista normativo tanto che i comportamenti e gli atteggiamenti vengono generalmente uniformati a quelli dei coetanei (Maggiolini, Riva, 1999). Il gruppo adolescenziale richiede autentiche dimostrazioni di fedeltà; spesso sottopone a "prove di iniziazione" i nuovi arrivati per valutarne la forza e il coraggio - ed eventualmente assegnare loro un ruolo - e rappresenta anche lo spazio che accoglie l'emergenza dell'agire deviante (Bandini - Gatti, 1987; De Leo - Patrizi, 1999). Baldascini (1995) sostiene la sostanziale importanza del gruppo per fare l’esperienza della “devianza” in adolescenza.
Il forte senso di lealtà che si sviluppa verso le norme, i codici, le figure di riferimento del gruppo, può portare al "conformismo". Questo legame di dipendenza impedisce a volte al singolo di sottrarsi alle proposte del gruppo e di mantenere il proprio punto di vista, con il rischio dell'esclusione con l'accusa di essere codardo o traditore. Ciò diventa preoccupante nel caso di forme di devianza particolarmente gravi.
Se la trasgressione fa parte dell’esperienza “normale” dell’adolescente, appare necessario tracciare confini concettuali fra le azioni di trasgressione che assumono una funzione di crescita per i soggetti e le azioni delinquenziali. Il comportamento deviante si manifesta soprattutto in gruppi che fanno della violenza, della trasgressione, dell’antisocialità il loro codice di comportamento. È noto, infatti, che le azioni devianti, per lo più, non sono vissute in solitudine, ma la maggior parte dei reati sono commessi in “coimputazione”: ciò vale in misura maggiore per i comportamenti devianti dei minorenni tra i quali sono spesso rilevabili comportamenti violenti connotati in termini espressivi (vandalismo o atti di aggressività).
Potremmo aggiungere l'opportunità di distinguere fra i significati espressivi dell'agire deviante e le sue dimensioni più tipicamente strumentali (De Leo, 1998). Queste ultime, prevalenti nella classica banda dedita abitualmente ad atti delinquenziali con la finalità di trarre profitto, appaiono più sfumate nei gruppi di giovani presenti nella realtà italiana.
In ogni caso, nonostante le apparenze, la cultura dei gruppi adolescenziali è molto meno differenziata da quella dominante di quanto appaia. La cultura e le attività del gruppo sono di carattere consumistico (Baraldi 1989, 301). Essa si nutre degli stimoli che provengono dal mondo adulto, particolarmente dai mass-media, anche se viene poi rielaborata autonomamente dal gruppo.
Si dice addirittura che, pur avendo un forte orientamento anti-adulto, il gruppo riveli una specie invidia dello stato adulto e che il disprezzo che gli adolescenti manifestano verso gli adulti mascheri una specie di "complesso dell'uva acerba" (Lutte 1963, 614). Le attività dei gruppi adolescenziali possono essere considerate come “attività adulte simboliche” (Bloch – Niederhoffer, 1958).

I mass media

Lo sviluppo dei mezzi di comunicazione sociale, insieme alla differenziazione funzionale, è stato l’elemento fondamentale della modernizzazione (Ungaro, 2001, 10). Abbiamo assistito in questi ultimi decenni ad uno sviluppo impressionante di tali mezzi e potenzialità, che di fatto hanno cambiato le nostre vite più di ogni altro fenomeno.
In particolare, essi hanno avuto un influsso notevole sui processi di socializzazione ed acculturazione. Il centro di acculturazione non è più la famiglia o la scuola . La TV, i fumetti, i giornalini, la musica, Internet diventano i nuovi agenti di socializzazione e acculturazione, attraverso i quali i ragazzi imparano nuovi modelli culturali e di comportamento e attraverso cui assumono nuovi valori. Il loro influsso viene amplificato dalla socializzazione nel gruppo dei pari, che subiscono lo stesso tipo di condizionamento e perciò impongono ai coetanei i modelli recepiti dalla TV e dagli altri mezzi di comunicazione sociale.
Il fatto che la trasmissione della cultura e delle norme non avvenga più solo da generazione in generazione, bensì per via orizzontale, cambia notevolmente sia il tipo delle strutture di apprendimento che i valori di riferimento. Sembra, per esempio, che stia cambiando il modo stesso di ragionare: viene favorito lo sviluppo della parte destra del cervello, quella deputata alla costruzione delle immagini, del discorso analogico, simbolico, artistico. Questo comporta un modo diverso di accostarsi alla realtà, schemi mentali diversi. Se da una parte consentono una maggior rapidità di riflessi, dall'altra non favoriscono la sua "ritenzione". Ne risulta danneggiata la capacità di riflettere, elaborare gli stimoli in base a principi razionali .
Altri effetti della forte esposizione ai mass-media consistono nella sensibilizzazione, presentificazione, superficializzazione e relativizzazione. La presenza istantanea a tutti gli avvenimenti del pianeta allarga il nostro universo cognitivo e ci permette di sintonizzarsi con i problemi di tutto il mondo. Tuttavia l'essere costretti a partecipare emotivamente a tutte queste evenienze crea degli esseri schizofrenici, sensibilissimi e crudelissimi o cinici nello stesso tempo, in quanto uno non può soffrire o gioire adeguatamente per più di un avvenimento per volta. E' facile che si instaurino dei meccanismi mentali e psichici come la rimozione, la negazione, la relativizzazione, la razionalizzazione il cui uso prolungato e indistinto può essere nocivo per la salute della psiche individuale e collettiva. Questa sensibilizzazione da mass-media può dar luogo a "strutture giovanili deboli che - lasciate a se stesse - rischiano di incrementare paurosamente gli ambiti dell'emarginazione, della patologia sociale, dell'infelicità umana" (Burgalassi, 1989, 70).
Cambiando perciò le strutture cognitive ed emotive, si definiscono nuovi scenari valoriali. Questo "godere l'intensità e le sensazioni della superfi­cie delle immagini" (Burgalassi, 1989, 70) senza attingere ad una maggior profondità sembra delineare un nuovo tipo di cultura. La realtà è ciò che appare e non ciò che accade. Prevale la civiltà dell'immagine. L'apparenza è più importante della sostanza. Prevale la percezione sulla riflessione, la novità sulla solidità, lo spettacolo sul lavoro. Lo stesso consumismo, indotto dalla pubblicità attraverso i mass-media, sembra sfruttare questa logica dell'apparire, che diventa "ostentazione".
La cultura delle nuove generazioni risulta essere molto superficiale ed è accusata di contribuire alla creazione di atteggiamenti superficiali. Questo ottunderebbe la capacità critica dei soggetti e favorirebbe atteggiamenti conformisti, gregari nei confronti dei poteri economici o politici (cfr. Fromm 1989) .
Ricerche condotte in America sulle conseguenze di una prolungata esposizione dei ragazzi (età prescolare e di prima scolarità) ai programmi televisivi rilevano la formazione di modelli e schemi mentali violenti, di disturbi allo sviluppo psicomotorio, di irrequietezza, impazienza, aspettative di divertimento da ogni attività o di perdita di interesse se non corrispondono a tali aspettative... (Singer & Singer, 1986). E' stato denunciato la condizione di dipendenza e passività che può indurre il rimanere ore ed ore davanti al televisore . E con la passività e la dipendenza viene meno anche la creatività .
La comunicazione faccia a faccia viene sostituita da quella attraverso il medium. Vengono accentuati fenomeni di passività, sottomissione, abulia con scarsa propensione ad affrontare le difficoltà della vita e soprattutto ad interagire  profondamente con le persone. 
Esisterebbe addirittura, secondo Braudillard (1976), una cor­relazione tra frammentazione dell'identità e immagine frammen­tata del mondo e dell'uomo confezionata dai mass-media contempo­ranei. Lo spettatore si limita a godere dell'intensità delle sensazioni provocate in lui dallo medium senza approfondire il nesso tra gli eventi e le cause e senza rendersi conto dei meccanismi che si attivano in lui .
Contro il principio della riflessione e della interiorizzazione delle norme, che costituiva il principio classico della personalizzazione ed autonomizzazione, prevale ora il principio del possesso, della quantità di stimoli, della rapidità delle risposte, sostituzioni, della "ostentazione". "Tutto si cerca al di fuori di sé, nulla che nasca dall'interno dell'uomo se non il desiderio" (Mion, 1991, 78).
Tuttavia tali e altri effetti negativi dei mas-media non sembrano agire automaticamente con effetti uguali per tutti. Le ricerche hanno dimostrato che i vari effetti cambiano a seconda del tipo di personalità, di cultura, di ambiente in cui si sviluppano. In genere sono correlati negativamente con il livello culturale, i rapporti familiari, l'atteggiamento della famiglia nei riguardi dei prodotti trasmessi, il tipo di educazione .

La crisi delle istituzioni tradizionali e mancanza di istituzioni educative alternative

Negli anni ’70, anni di profondo mutamento sociale, le istituzioni tradizionali (stato, famiglia, scuola, chiesa), entrarono in crisi: crisi di funzione. In genere non riuscirono a cogliere le nuove domande emergenti dalla collettività e dai giovani in particolare, e ad elaborare delle risposte all’altezza della situazione. Esse, infatti, erano state pensate e strutturate in un periodo storico precedente a quello in questione, e non dimostrano di essere riuscite a recepire nelle strutture e nel significato, le tendenze del mutamento, i nuovi bisogni che andavano emergendo. E’ sufficiente analizzare le diverse e negative reazioni che, almeno a parole, tali istituzioni manifestavano all’epoca a riguardo dei giovani e delle loro manifestazioni.

La situazione della famiglia

Riguardo alla famiglia è sufficiente rilevare la diminuzione verificatasi in quegli anni dei matrimoni sia religiosi che civili: la tendenza a convivere senza un riconoscimento ufficiale e formale di fronte alla collettività, divenne un fatto abbastanza diffuso e nuovo nell’Italia della seconda metà degli anni ’70.
Più in generale la crisi della famiglia si avvertì nella sua incapacità di «filtrare» o rendere dialettici al suo interno (in modo da garantire una arricchente convivenza) i modelli culturali presenti a livello sociale. I modelli culturali, le problematiche, le tensioni esterne, sovrastavano molte volte la famiglia, impedendole quella funzione di «mediazione» tra personalità e società che dovrebbe qualificare la socializzazione primaria, di cui gli adolescenti hanno particolare necessità. E ciò soprattutto in un contesto di elevato pluralismo ideologico e culturale.
In quegli anni, sembro prendere sempre più consistenza la funzione di «parcheggio» della famiglia, una struttura in funzione dei bisogni individual, ma incapace di costituire per i propri membri uno spazio di costruttivo e arricchente confronto alla luce delle istanze e problematiche emergenti dalla società. Inoltre, nel rispondere ai bisogni dei singoli membri del il nucleo familiare, la famiglia sovente faceva riferimento ad un modello arcaico, che eliminava o mortificava i rapporti sociali, che tendeva a ridurre le relazioni, che non aiutava i membri a inserirsi collettivamente. Ciò appariva sia dalle scelte segreganti la famiglia dal contesto sociale (pur rispondendo ai bisogni individuali), sia da una serie di ruoli familiari così rigidi (si pensi per molti versi a quello della casalinga) che provocavano l’annullamento sociale di alcuni membri per il soddisfacimento dei bisogni individuali degli altri.
Questo provocava la crisi della famiglia: quando i figli si stavano aprendo al nuovo clima sociale (nell’età delle scoperte e delle scelte), trovando la famiglia chiusa, come un bozzolo, la abbandonavano o la sconfessavano. Oppure, accettando la sua funzione privatistica, vi si rifugiavano come in un’oasi protetta di fronte alle difficoltà che incontravano nell’inserimento sociale.

La scuola

La scuola non rappresentò più, negli anni ottanta, un banco di prova e di scontro sociale, come nel decennio precedente. Nonostante alcune manifestazioni di protesta, rigorosamente “a-politiche”, nel complesso la maggior parte degli studenti (4/5) sembrò soddisfatta dell'istruzione ricevuta. La percentuale variava a seconda della percorso scolastico e lavorativo (Cavalli - de Lillo, 1988, 25).
Si profilava ormai sempre più la convinzione che la scuola, anche se non obbligatoria oltre i 14 anni, lo fosse nella pratica. Chi la evitava sapeva di precludersi molte opportunità d’inserimento sociale e professionale. La condizione di studente divenne un passaggio obbligato dell’essere giovane, un referente ordinario dell’identità giovanile .
Ciò non voleva dire però che la scuola fosse amata: la pretesa di trasmettere il sapere a senso unico, lo sforzo che richiedeva, l'obsolescenza dei metodi didattici, l'incapacità di preparare effettivamente ad affrontare la vita, la professione la rendevano poco attraente. Però il giovane anni ‘80, molto realisticamente, aveva capito che, se la scuola non pagava più, non essere istruiti era oggettivamente un fattore di penalizzazione (Franchi, 1988, 11). Per cui era indispensabile rimanere nella condizione di studente, per approfittare delle opportunità offerte dal sistema scolastico, insieme a quelle offerte dall’extra-scolastico. In effetti in quegli anni ci si trovò di fronte ad un duplice andamento della domanda formativa: da un lato la crescita del numero di coloro che passavano dalla scuola media inferiore alla superiore, dall’altro il calo di chi proseguiva gli studi con l’università . Apparivano privilegiati gli studi “brevi” finalizzati all’inserimento immediato nel mercato del lavoro (Bobba – Nicoli, 1988, 51).
Va però riconosciuto che la scuola si trovava di fronte a problemi enormi, che superavano la sua portata: un mercato del lavoro sostanzialmente bloccato, la mancanza di strumenti adeguati per un effettivo coordinamento tra esperienze scolastiche e sistema occupazionale, compiti impropri di parcheggio della forza-lavoro. Tutto ciò rendeva difficile il rapporto scuola - società.
Ecco allora il duplice sentimento di amore-odio che essa suscitava: si avrebbe voluto farne a meno, ma non se poteva. Scomparsa la conflittualità delle generazioni precedenti, c’era stato un ritorno all'impegno scolastico, pur in senso strumentale. “Visto che comunque a scuola bisogna andarci è meglio starci bene” – poteva essere il ragionamento di molti. Infatti la scuola era apprezzata per le possibilità di stabilire buoni rapporti con i compagni; anche con i professori si cercava, per quanto possibile, di stabilire relazioni accettabili (Cavalli - de Lillo, 1988, 26).
Accanto a questo modello di adattamento positivo, si registravano quote minori di giovani che vivevano un rapporto conflittuale o fallimentare con la scuola. Erano i cosiddetti "drop-out", che avevano interrotto il loro rapporto con la scuola. Il fenomeno delle uscite dal sistema scolastico si intensificò tra i 15 ed i 18 anni, “in parte da attribuirsi al ritardato completamento del ciclo dell'obbligo o alla frequenza di cicli brevi post-obbligo, in parte a veri e propri abbandoni delle scuole medie superiori” (Cavalli - de Lillo, 1988, 20). A questi andavano aggiunti coloro che avevano subito gli effetti negativi della selezione scolastica. A fronte di un 54% che non aveva subito interruzioni nel ciclo di studi, un 30% aveva avuto percorsi “irregolari” ed un 16% “molto irregolari”. Questi dati risultavano correlati con condizioni sociali e culturali svantaggiate.

La scuola

La scuola italiana negli anni novanta registrò da una parte l’accentuazione di fenomeni già emersi negli anni precedenti; dall’altra la comparsa di fenomeni nuovi, alcuni di segno positivo altri negativo.
Sul versante positivo si registrò in quegli anni:

  1. Una sostenuta domanda di formazione e qualificazione: dagli anni Ottanta, infatti si notò “un costante incremento dei tassi di scolarizzazione a livello di scuola secondaria superiore e di immatricolazione all'università” (Besozzi, 1998, 21). Crebbe il tasso di passaggio dalla SSS all'università e aumentarono gli iscritti in valore assoluto. Ad incrementare in qualche misura la domanda di qualificazione contribuì anche la formazione professionale regionale con una prevalenza del settore di attività commerciale e la formazione in azienda. Questo indicava una diffusa e soste­nuta domanda di istruzione che, tuttavia, si perdeva lungo il percorso (Besozzi, 1998, 21).
  2. La domanda di formazione continua: i Rapporti CENSIS e ISFOL registrarono negli ultimi anni del decennio la crescita di un fe­nomeno nuovo, in decisa controtendenza rispetto alla situazione precedente: lo “sviluppo della domanda di formazione continua e di consu­mi culturali, indice dello sviluppo di un orientamento verso la forma­zione per tutta la vita” (Besozzi, 1996, 22). Questa domanda trovò accoglienza soprattutto negli accordi sul lavoro e nelle circolari del ministero del Lavoro, che gettarono le basi per lo sviluppo di strategie in ordine alla rimotivazione, riqualificazione, riconversione degli adulti e all'attivazione delle imprese nella forma di reti interaziendali per la predisposizione di iniziative formative (ISFOL, 1997, 445-446).
  3. L’asse legislativo e l’impegno di soggetti istituzionali e non. Nella seconda metà degli anni ‘90 furono avviati o conclusi iter legislativi fondamentali per il riordino complessivo del sistema della formazione e per il governo delle varie modalità di transizione tra formazione e mondo del lavoro. La più importante fu senza dubbio la “legge quadro sul riordino dei cicli dell'istruzione” presentata dal ministro Berlinguer nel 1997. In essa si sottolineava la centralità del soggetto in formazione delle differenze interindividuali, valorizzando la personalizzazione dei percorsi, ma in stretto legame con la crescita della società. All'art. 2 (sistema di istruzione e formazione), si faceva riferimento ad un sistema che andasse oltre quello scolastico, includendo anche la formazione professionale e la formazione continua. Il diritto alla formazione si realizzava “attraverso la progressiva espansione dell'offerta di formazione profes­sionale e dell'integrazione tra questa e l'istruzione”. Ne conseguiva la necessità di flessi­bilità dei percorsi, di un rapporto stretto tra le diverse agenzie for­mative e non e l'importanza della formazione continua lungo tutto l’ar­co della vita, all'interno della quale diventavano importanti i crediti for­mativi acquisiti nel corso di esperienze scolastiche o nell'ambito della formazione professionale, crediti che consentivano di riprendere un percorso formativo interrotto facendoli valere nell'ambito nel quale si intendeva proseguire. La legge sul riordino dei cicli dell'i­struzione faceva quindi riferimento ad un sistema formativo allargato (po­licentrico) ma anche integrato e regolato. Ad un asse legislativo che si rinnovava corrispondeva una mobilitazione di vari soggetti istituzionali e anche non istituzionali, per concorrere a predisporre il cosiddetto "patto formativo" che richiedeva il decentramento istituzionale e l'autonomia decisionale ed amministrativa (Besozzi, 1998, 20-21).
  4. Il sostegno economico e culturale dell'Europa. L'Europa rappresentò una risorsa fondamentale per la messa a punto e la realizzazione di una riforma globale del sistema della formazione nel nostro paese. Una risorsa prima di tutto culturale, quale interfaccia e ambito globale delle tendenze in atto nei diversi paesi europei e nel contesto internazionale. Ma la Comunità Europea rappresentò anche una risorsa dal punto di vista economico, attraverso l'erogazione di contributi a sostegno delle diverse iniziative e dei progetti che hanno rilevanza per la formazione e istruzione dei giovani, soprattutto a livello regionale (Besozzi, 1998, 21).

Gli elementi problematici erano, invece:

  1. Il ritardo rispetto all'Europa. Malgrado il progressivo aumento della domanda di istruzione e l'innalzamento del numero di licenziati, diplomati e laureati, il nostro paese presentava nel corso degli anni ‘90 gravi ritardi rispetto all’Europa e ai paesi industrializzati per quanto riguarda il livello complessivo di istruzione raggiunto dalla popolazione adulta. Anche sugli altri livelli di scolarità si evidenziava una distanza considerevole. Il confronto con i tassi di formazione e scolarizzazione con le altre nazioni europeee evidenziavano un "deficit" formativo non indifferente, anche se in progressiva riduzione (Besozzi, 1998, 22-23).
  2. Il basso grado di efficienza ed efficacia del sistema scolastico. Ancora negli anni Novanta, i dati su ripetenze e abbandoni nella scuola media inferiore e superiore e i tassi di abbandono universitario mostravano che l’efficacia e l’efficienza del sistema scolastico italiano non erano obiettivi realizzati. Il quadro della dispersione scolastica si presentava in termini molto problematici, a partire dalla scuola media inferiore dove, ancora negli anni Novanta, su 1.000 ragazzi che iniziavano la prima media, 47 lasciano senza conseguire il titolo di licenza media inferiore (ISFOL, 1997, 266). Ma anche la dispersione nella scuola secondaria superiore e all'università evidenziava le contraddizioni presenti nel sistema: infatti, a fronte di tassi elevati di passaggio dalla scuola media alla scuola secondaria superiore e dalla secondaria superiore all'università si verificava un tasso di caduta elevato che portava a diplomarsi solo circa il 70% degli iscritti 5 anni prima e a laurearsi solo uno studente su tre. Questo faceva sì che ancora negli anni Novanta, l’Italia nel confronto europeo figurasse fra i paesi con il più basso tasso di diplomati. L’anomalia più evidente era evidenziata dalla mancata corrispondenza tra la propensione a prolungare e quindi permanere nel sistema d'istruzione e il corrispondente conseguimento del titolo finale. Un altro fenomeno importante era mostrato dai percorsi discontinui, irregolari e dai rientri in formazione (Besozzi, 1998, 23-24).
  3. Le disparità territoriali, di genere, di classe sociale. In Italia permanevano all'interno del sistema di istruzione forti disparità in relazione alla classe sociale d'origine, al genere, alla zona geografica. Si trattava di disparità che mostravano una diversa fruizione della formazione e quindi l’esistenza di profonde disuguaglianze che il sistema non era ancora riuscito a fronteggiare. Una specie di "segregazione formativa" in ordine alla forza di attrazione che il sistema esercitava verso canali o indirizzi più deboli o di minor prestigio o consistenza: era il caso per esempio delle femmine che frequentavano quasi solo certi indirizzi di scuola secondaria superiore o della fruizione da parte delle classi sociali basse soprattutto di canali formativi professionalizzanti. La frequenza ai licei e di certe facoltà più prestigiose era ancora appannaggio delle classi sociali medie e alte. Evidente anche la disparità di fruizione e di esiti al Sud e nelle Isole (Besozzi, 1998, 24).

La domanda di personale qualificato. In Italia si continuò a registrare una forte disparità di situazioni, per cui per esempio era solo la grande industria a richiedere personale altamente istruito. Le piccole imprese tendevano ancora ad assumere personale con basse qualifiche e quindi ad esprimere una domanda di forza-lavoro istruita molto contenuta. Le medie e grandi imprese richiedevano invece personale istruito, ma la loro capacità di assorbimento di giovani con elevata scolarità era limitata sia dagli oneri fiscali sia dalla regolazione istituzionale del mercato del lavoro (Schizzerotto, 1997, 357-8) L'analisi del rapporto tra domanda e offerta di lavoro mostrava pertanto come il mercato del lavoro in Italia investisse in maniera insufficiente nelle risorse umane.

L’importanza strategica del tempo libero

Lo sviluppo del tempo libero , ottenuto sia con la riduzione o modifica dei tempi di lavoro, sia con la scolarizzazione prolungata, stava diventando una realtà molto importante negli anni ‘80, tale da far credere imminente il compimento del vaticinio marcusiano di una società senza lavoro. Il tempo libero divenne un tempo strategico, su cui si concentrarono conflitti decisivi per il controllo del potere , soprattutto attraverso i “media” e l’industria del tempo libero.

La crisi delle istituzioni tradizionali e mancanza di istituzioni educative alternative

Negli anni ’70, anni di profondo mutamento sociale, le istituzioni tradizionali (stato, famiglia, scuola, chiesa), entrarono in crisi: crisi di funzione. In genere non riuscirono a cogliere le nuove domande emergenti dalla collettività e dai giovani in particolare, e ad elaborare delle risposte all’altezza della situazione. Esse, infatti, erano state pensate e strutturate in un periodo storico precedente a quello in questione, e non dimostrano di essere riuscite a recepire nelle strutture e nel significato, le tendenze del mutamento, i nuovi bisogni che andavano emergendo. E’ sufficiente analizzare le diverse e negative reazioni che, almeno a parole, tali istituzioni manifestavano all’epoca a riguardo dei giovani e delle loro manifestazioni.

La situazione della famiglia

Riguardo alla famiglia è sufficiente rilevare la diminuzione verificatasi in quegli anni dei matrimoni sia religiosi che civili: la tendenza a convivere senza un riconoscimento ufficiale e formale di fronte alla collettività, divenne un fatto abbastanza diffuso e nuovo nell’Italia della seconda metà degli anni ’70.
Più in generale la crisi della famiglia si avvertì nella sua incapacità di «filtrare» o rendere dialettici al suo interno (in modo da garantire una arricchente convivenza) i modelli culturali presenti a livello sociale. I modelli culturali, le problematiche, le tensioni esterne, sovrastavano molte volte la famiglia, impedendole quella funzione di «mediazione» tra personalità e società che dovrebbe qualificare la socializzazione primaria, di cui gli adolescenti hanno particolare necessità. E ciò soprattutto in un contesto di elevato pluralismo ideologico e culturale.
In quegli anni, sembro prendere sempre più consistenza la funzione di «parcheggio» della famiglia, una struttura in funzione dei bisogni individual, ma incapace di costituire per i propri membri uno spazio di costruttivo e arricchente confronto alla luce delle istanze e problematiche emergenti dalla società. Inoltre, nel rispondere ai bisogni dei singoli membri del il nucleo familiare, la famiglia sovente faceva riferimento ad un modello arcaico, che eliminava o mortificava i rapporti sociali, che tendeva a ridurre le relazioni, che non aiutava i membri a inserirsi collettivamente. Ciò appariva sia dalle scelte segreganti la famiglia dal contesto sociale (pur rispondendo ai bisogni individuali), sia da una serie di ruoli familiari così rigidi (si pensi per molti versi a quello della casalinga) che provocavano l’annullamento sociale di alcuni membri per il soddisfacimento dei bisogni individuali degli altri.
Questo provocava la crisi della famiglia: quando i figli si stavano aprendo al nuovo clima sociale (nell’età delle scoperte e delle scelte), trovando la famiglia chiusa, come un bozzolo, la abbandonavano o la sconfessavano. Oppure, accettando la sua funzione privatistica, vi si rifugiavano come in un’oasi protetta di fronte alle difficoltà che incontravano nell’inserimento sociale.

Crisi del modello educativo

La crisi delle istituzioni tradizionali provocò l’incrinatura e il minor peso a livello sociale del «modello educativo» dominante negli anni ’50 e ’60. Ciò fu percepito soprattutto nel mondo della scuola dove entrarono in conflitto diversi  «progetti» e «ideali» educativi, senza che alcuno sia diventato egemone. La scuola, investita anche dai problemi derivanti dal mercato del lavoro, diventò più un luogo di scontro o di abilitazione al relativismo e allo scetticismo che un momento di «formazione» della personalità (educazione degli atteggiamenti dell’impegno, della democraticità, del rispetto, dello sforzo, del confronto, della partecipazione attiva, acquisizione di ruoli sociali, abitudine alla dialettica: insegnante-allievo e adulto-giovane...).

Il fenomeno della disoccupazione giovanile

Il quadro generale dell’epoca è caratterizzato da aumentate difficoltà occupazionali, conseguenza della crisi economica avviata agli inizi degli anni ’70. In tali situazioni, i giovani normalmente rappresentano, insieme alle donne e ai lavoratori anziani, la «quota debole» del mercato del lavoro, cui si fa ricorso solo dopo aver esaurito le scorte della «quota forte» (maschi, delle classi centrali di età, che garantiscono una certa stabilità e qualificazione). Ai giovani e alle donne si apre di norma il settore dei lavori precari, non garantiti, del lavoro nero, del lavoro a domicilio... Si tratta di occupazioni che non permettono al giovane un’emancipazione e autonomia di vita. Inoltre, è forte il rischio di disoccupazione intellettuale, perché ai giovani si aprono più possibilità di lavoro in occupazioni di livello inferiore rispetto a quelle cui potrebbero aspirare col titolo di studi conseguito. In questo caso, pur in presenza di una effettiva possibilità di occupazione, il giovane vive una frattura tra le attese maturate nella scuola o forse ancor più nella famiglia, e il livello di attività che deve accettare per inserirsi socialmente attraverso una occupazione.
Tutti questi problemi erano avvertiti come cruciali dai giovani, consapevoli che la non soluzione del problema occupazionale (o la soluzione di ripiego) li confinava in una posizione di marginalità rispetto al sistema sociale o rispetto alle proprie aspirazioni e propensioni, e che tali situazioni condizionava la qualità della loro esistenza.
Inizia in questo periodo quel prolungamento della condizione giovanile che avrà uno sviluppo incredibile fino ad oggi, tale da costituire una dei problemi più rilevanti per le società occidentali, edd italiana particolare. In questi anni iniziò quell’atteggiamento di apatia e indifferenza, che caratterizza ancor oggi la gioventù: le frustrazioni, gli impedimenti, le esclusioni relegano il giovane in una condizione di insicurezza, che dal campo occupazionale si estende a tutta la sua esistenza e alle scelte di vita.

Tentativi di interpretazione della devianza e disagio

Devianza, disagio e bisogni disattesi secondo l’approccio tradizionale

Secondo questo approccio la devianza è data dalla trasgressione alle norme che reggono la società, siano essi i “comandamenti” o le leggi civili. Ma il venir meno di quei principi morali che caratterizzavano l’uomo moderno: il lavoro, la famiglia, la patria, Dio, la dirittura morale, le questioni di principio, la fedeltà alla parola data, l’impegno professionale, morale, politico, religioso, ecc. comporta una situazione di “anomia”, di disorientamento che favorisce il disordine morale e sociale. L’anarchia etica comprende la mancanza di principi morali sicuri, la dissoluzione dei valori, il relativismo morale, la morale della situazione, l’affermazione dei principi dell’edonismo e dell’individualismo.
Di conseguenza le preoccupazioni che emergono di fronte a questi mutamenti riflettono la percezione di bisogni che altrimenti verrebbero disattesi: il bisogno di appartenenza, di solidarietà, di coerenza, di orientamento,  di sistematicità e organicità, di un quadro culturale coerente e omogeneo, il bisogno di protezione sociale, il bisogno di sicurezza, il bisogno di finalizzazione, ecc.

Questa flessibilità e tolleranza, che contraddistingue sempre di più l’uomo moderno, adottata per necessità, diventanta un tratto culturale tipico della modernità, non è detto che si realizzi senza sofferenza e un senso di lacerazione intima.

 Disagio e bisogni in una società complessa

La crescita di oppor­tunità, la diminuzione del controllo sociale, comporta molti benefici per i singoli, ma anche nuove difficoltà. Infatti la mancanza di un centro organizzatore, la crescita di entropia e la moltiplicazione di codici incommensurabili per gli individui si traduce in un aumento del carico di responsabilità personale e la probabilità di non riuscire a far fronte alle richieste della società. Inoltre tale assetto della società pone notevoli problemi d’integrazione e quindi di adattamento e di identità.
Di fronte alla dissoluzione di un sistema normativo condiviso tendono ad emergere le esigenze singole e gli aspetti soggettivi ed espressivi dell’identità. Questa può assumere l’aspetto di rivendicazione radicale del diritto a definire i propri bisogni e i modi di soddisfarli. Questa rivendicazione ha come oggetto esigenze poco negoziabili (nascita, morte, affetti, relazioni, malattia, sopravvi­venza, pace, ecc.); rifiuta il controllo politico (partitico e sindacale) sulla nego­ziazione del bisogno, riappropriandosi il controllo diretto sulle condizioni di esi­stenza, indipendentemente dal sistema; tende a coniugare sempre più privato e pubblico, superandone la separatezza; tende ad avvalersi di solidarietà comuni­tarie (di piccolo gruppo) come supporto ad un conflitto di minoranze capaci di gestire in proprio il confronto.
Al centro di questa lotta riappare il “corpo”, luogo della resistenza contro la manipolazione e luogo dell’espressione del desiderio rivoluzionario; allo stesso tempo riappare il “vecchio” concetto di natura che sta a sottolineare il carattere non assoluto della storicità del bisogno; riemerge infine l’individuo come soggetto sociale irriducibile, terreno dei conflitti sociali fondamentali
Si crea conflitto attorno a questi oggetti sociali, perché i sistemi tendono ad im­porre le identità da loro predisposte (a loro funzionali) indiscriminatamente a tutti i soggetti, che in molti casi reattivamente difendono e rivendicano il pro­prio diritto all’identità. Questi conflitti si possono riprodurre anche a livello micro, in famiglia, nella scuola, nell’ambienti di lavoro, ecc. perché i sistemi di valore e l’importanza attribuita alle norme cambia a seconda della socializzazione ricevuta.
Questi conflitti, che raramente si traducono in rivolte aperte, sovente assumono aspetti striscianti attraverso cui ognuno rivendica il suo spazio d’autonomia operativa e valoriale. Si creano così frizioni, adattamenti forzati, conflitti sopiti ma non sedati, che danno luogo ad un disagio diffuso.
Infatti, anche di fronte a comportamenti ritenuti tradizionalmente aberranti, non è più possibile parlare di devianza, perché, essendo moltiplicati i centri, ogni comportamento o norma può essere considerata deviante sotto un certo punto di vista e normale sotto altri. Perciò si comincia a parlare di disagio, in quanto si percepiscono gli effetti sgradevoli di questa situazione, sia a livello individuale che societario. Ma il disagio è generato, più profondamente dalla situazione di incertezza, di disorientamento in seguito alla moltiplicazione dei sistemi e dei codici di riferimento.
Ciò è quanto sembra rilevare lo stesso Sorcioni quando afferma che “l’essenza del disagio giovanile sembra piuttosto interessare, in modo crescente, la sfera valo­riale, fino a manifestarsi […] come vera e propria crisi di identità. Disagio derivante dall’esperienza della comples­sità, inteso come profonda sensazione di smarrimento di fronte alla crescente complessità valoriale e sociale” (Sorcioni 1992, 5).

Tale opinione è sostenuta e condivisa da vari autori: “nella seconda metà del secolo XX, soprattutto a cominciare dagli anni Settanta, è avvenuto un «mutamento antropologico», cioè è sorto nel mondo occidentale (Europa occidentale e America del Nord) un nuovo modello culturale di uomo, con caratteri che lo contraddistinguono dalle figure umane del passato, anche recente” ( La Civiltà Cattolica, 2002, 524–525). Tra le date più significative vengono indicate: la pubblicazione del libro “I limiti dello sviluppo” (1970), l’esplosione della crisi petrolifera in seguito alla guerra arabo-israeliana (1973) e la conseguente crisi economica (Ungaro, 2001, 106). Ma anche atti politici dovuti all’amministrazione americana, che, sotto la presidenza di Nixon, decretò la cessazione del rapporto di parità tra dollaro e oro (1971), e la fine dei limiti alla circolazione dei capitali (1974), segnando, di fatto, l’inizio della globalizzazione (Salvini, 2002, 550). 

3s.)
“La ricerca di un’identità socialmente plausibile, e in parallelo, la crisi dei percorsi tradizionali della sua definizione caratterizza lo scenario sociale della seconda metà degli anni 70. Questa ricerca è direttamente legata al problema del senso globale da assegnare alla propria esistenza: un problema, specie per chi è studente, di non facile soluzione” (Leccardi, 1987

"Nella tradizione sociologica (da Durkheim a Simmel a Parsons) quando si parla di complessità del sistema sociale in riferimento alle moderne società industriali si istituiscono fondamentalmente due tipi di correlazioni. La prima riguarda il numero e la varietà degli elementi del sistema, la seconda il numero delle relazioni di interdipendenza tra questi stessi elementi. [...] E' quest'ultima - la densità dinamica e morale della società - la caratteristica saliente in senso sociologico che si sviluppa solo con la differenziazione e con l'affermarsi della logica della divisione del lavoro" (Sciolla, 1983, 45).
Bisogna però riconoscere che sovente tale situazione viene percepita per le difficoltà che comporta. in effetti, il concetto di "società complessa" ha cominciato a diffondersi con la crisi socio-economica degli inizi degli anni '80, nel momento in cui "l'attenzione non va più alla dinamica di sviluppo delle nostre società, ma all'arresto di questa dinamica, agli imprevi­sti effetti di­sgregatori: ingovernabilità, instabilità, diffe­renziazione e disarticolazione dei processi produttivi, dilata­zione dei set­tori distributivi e dell'amministrazione, espan­sione dell'interventismo statale, disgregazione e moltiplica­zione dei gruppi sociali, circolarità tra aspettative e frustra­zioni collettive" (Montesperelli, 1984, 25).

Secondo Donati (1985) quattro sarebbero le accezioni relative al termine "complessità" applicato alla società:
1) Complicazione, cioè "crescita quanto-qualitativa di elementi, relazioni e interazioni  in un sistema sociale dato" (p. 6).
2) Moltiplicazione di codici incommensurabili, "derivante dall'operare di più e diverse logiche fra loro incompatibili, o, incommensurabili" (p. 6).
3) Variety pool, cioè "una situazione che consente di mantenere sempre aperte un numero sem­pre maggiore di possibilità alternative (più di quante possano essere effettivamente realizzate in un dato momento)" (p. 7).
4) Entropia, "ordine (sociale) probabilistico (casuale), anziché normato, fondato sulla varia­bilità (differenza)" (p. 7).

"Col termine di società complessa si intende descrivere una realtà composta da tendenze ambivalenti, che risultano tra loro incompatibili e irriducibili; una realtà in cui uno stato di integrazione precaria orienta, ma meglio sarebbe dire costringe a scelte parziali e di medio termine, caratterizzate da scarsa capacità previsiva, e il cui esito sociale appare nel segno della non risolubilità" (Garelli, 1991, 540).

- "A livello dei soggetti la complessità assume il carattere di differenziazione sociale. Nel tempo presente gli individui e i gruppi sociali hanno a disposizione possibilità, occasioni, opportunità di scelta e di orientamento, di un livello e di una quantità inimmaginabili nel recente passato" (Garelli, 1991, 540).

- "Il principio di differenziazione e di complessificazione dei rapporti sociali così inteso definisce anche il quadro sociale entro cui si opera una radicale trasformazione del rapporto individuo/società. Il principio di individuazione, la possibilità stessa da parte dell'individuo di costruirsi un'immagine di sé ricca di contenuto e fortemente individualizzata, di non essere più assorbito dal gruppo, identificato in esso, sorge solo in un contesto sociale in cui molte e diversificate siano le forze in gioco" (Sciolla 1983, 45).

"La contingenza stessa, che per Luhmann è una proprietà dell'ordine temporale degli eventi esterni, diventa, per così dire una proprietà della percezione interna degli eventi, la matrice psicologica di quella sindrome complessa - destrutturazione, sperimentazione, paradigma della reversibilità - che tante ricerche sulla condizione giovanile hanno messo in luce” (Ricolfi - Scamuzzi – Sciolla, 1988, 111).

“Il ritmo di vita [é] sempre più frenetico sia in senso materiale che non: la frenesia la si riscontra anche a livello della modalità di consumo, inteso in senso globale del termine: oggetti, mode, culture, soggetti a rapida obsolescenza, connessa a questa logica da fast-food, causata a sua volta dalla sovrabbondanza e quindi inflazione di stimoli e possibilità, diventano meteore in un universo regolato essenzialmente dal principio dell’autogratificazione, del piacere” (Battellini, 1986, 88).

Con tali termini si indica che il progetto illuministico non è stato portato adeguatamente a termine, oppure che è stato talmente estremizzato da comportare più conseguenze dannose del previsto: “libertà che diventa licenza, scienza che si diventa anti-umana, ecc.” (Ungaro, 2001, 16).

Il pensiero postmoderno, comprende tutte quelle filosofie e posi­zioni teoriche che, fin dalla fine del secolo scorso, hanno espresso una forte critica alla ragione, intesa come "capacità proget­tuale di una soggettività che si dispiega verso un oriz­zonte di fini di cui ritiene di possedere la chiave" (Villani, 1985, 5-6). Esso reagisce ad un'impostazione classica della razionalità, non riconoscendole più la validità di cui aveva goduto fino ad al­lora, ponendo con ciò in crisi i fondamenti stessi su cui pog­giava, particolar­mente quello epistemologico e quello ontolo­gico. Nello stesso tempo rinuncia, per principio, a cercare un proprio fondamento, in quanto ritiene che la ragione umana non sia, di per sé in grado di raggiungere la verità e di trovare un fondamento ad una forma di pensiero che non sia ideologica.

"L'idea forza della modernità è il progresso, inteso come orientamento a un modello di vita e di azione, come aspirazione ai valori ultimi, fondati sulla capacità dell'uomo di esercitare la ragione per un'opera di chiarificazione, di illuminazione (di qui il nome di illuminismo come tratto qualificante la modernità) nei confronti del mondo e di se stesso. Ora - come hanno puntualizzato, sia pur da angolazioni contrapposte, J. F. Lyotard e J. Habermas -, ciò che definisce l'essenza della condizione postmoderna è proprio la negazione della capacità umana di chiarificazione: questa condizione si impernia sul disconoscimento dei valori ultimi, in grado appunto di chiarire, cioè di fondare, giustificare, legittimare un qualsiasi ordina­mento della società (fosse anche rivoluzionario o riformatore), di motivare e orientare comportamenti, di conferire un senso unitario e quindi un'effettiva intelligibilità alla vita umana e alla società" (Vaccarini, 1990, 128-129).

“L’importanza attribuita alla scienza e alla tecnologia era stato l’elemento centrale della modernità. Ma le popolazioni di paesi con alte percentuali di postmaterialisti (alla fine del continuum postmoderno) tendono ad avere poca fiducia che i progressi scientifici aiuteranno piuttosto che ledere l’umanità […]; analogamente tendono a mettere in dubbio che assegnare una maggiore importanza alla «tecnologia» sarebbe una buona cosa. Al contrario, le stesse società hanno alti livelli di consenso nei confronti dei movimenti per l’«ecologia». Il fatto che le società informate alla sicurezza tendano a rifiutare la scienza e la tecnologia è il punto principale di allontanamento dalla fiducia fondamentale della modernizzazione - un’altra ragione del perché questa dimensione riflette un cambiamento nella direzione postmoderna” (Inglehart, 1998, 124).
“Oltre all’importanza attribuita alla scienza e alla tecnologia, un’altra caratteristica chiave della modernizzazione è stata la tendenza a burocratizzare tutti gli aspetti della vita. Ma i valori postmoderni sono connessi con il declino del consenso per un governo grande: credere che lo Stato (piuttosto che l’individuo) possa assumersi più responsabilità per assicurare che ciascuno «provveda a» («responsabilità dello Stato»), è legato ai valori di sopravvivenza, e non ai valori di benessere; lo stesso accade per la «gestione pubblica/dei dipendenti» piuttosto che per la gestione privata. Il consenso per un governo grande era la componente principale per la modernizzazione. Il fatto che non sia connesso con i valori postmoderni è un’altra indicazione che la postmodernizzazíone rappresenta un fondamentale mutamento di direzione” (Inglehart, 1998, 126).

La loro obsolescenza era decretata da due motivi: “primo, hanno raggiunto i limiti della loro efficienza funzionale; secondo, stanno raggiungendo i limiti della loro accettabilità di massa” (Inglehart, 1998, 48)

“In un certo senso […] il termine post-moderno sembrerebbe meno adatto del termine post-materialista: questo sottolinea il passaggio dall’accentuazione posta su oggetti e valori di tipo materiale ad altri, ma potrebbe lasciare impregiudicati sia il grado di individualismo, sia quello di edonismo, sia quello di secolarizzazione, in base ai quali si misurerebbe, secondo Thomas e Znaniecki, la modernità in termini socio-culturali. Ed in effetti risulta aumentare l’individualismo, ma neppure l’edonismo sembra conoscere battute d’arresto. […] E’ quindi rischioso ritenere suffragata dai dati l’ipotesi del cambio epocale o dell’esaurimento della spinta culturale della modernità; si è piuttosto di fronte ad un suo sviluppo secondo una dinamica dei bisogni ben illustrata da Maslow, ma nei termini essenziali già nota a psicologi, sociologi ed economisti: la disponibilità di un “bene” in dosi crescenti ne diminuisce l’utilità marginale, diminuisce la desiderabilità di quote aggiuntive e quindi le preferenze si orientano verso “beni” relativamente trascurati. Se a ciò si aggiunge l’altra dinamica, del resto assai simile, per cui allo stesso bisogno si tende a dare risposte con “varianti” sempre più ricche e pregiate, si comprende almeno in parte la crescente attenzione verso la “qualità” relazionale della vita, verso la “qualità” del lavoro, verso la “qualità” dell’ambiente; si comprende come le mete per le quali valga la pena “combattere”, mettendo a rischio la propria integrità ed il proprio benessere, siano sempre meno (o siano inesistenti) e come tali scelte siano riservate esclusivamente al proprio personale convincimento” (Gubert, 1992, 575-576).

“Col termine di società complessa si intende descrivere una realtà composta da tendenze ambivalenti, che risultano tra loro incompatibili e irriducibili; una realtà in cui uno stato di integrazione precaria orienta, ma meglio sarebbe dire costringe a scelte parziali e di medio termine, caratterizzate da scarsa capacità previsiva, e il cui esito sociale appare nel segno della non risolubilità” (Garelli 1991, 540).
Secondo Pier Paolo Donati (1985) quattro sarebbero le ac­cezioni relative al termine “complessità” applicato alla società:
1) Complicazione, cioè “crescita quanto-qualitativa di elementi, relazioni e interazioni  in un sistema sociale dato” (p. 6).
2) Moltiplicazione di codici incommensurabili, “derivante dall’operare di più e diverse logiche fra loro incompatibili, o, incommensurabili” (p. 6).
3) Variety pool, cioè “una situazione che consente di mantenere sempre aperte un numero sem­pre maggiore di possibilità alternative (più di quante possano essere effettivamente realizzate in un dato momento)” (p. 7).
4) Entropia, “ordine (sociale)  probabilistico (casuale), anziché normato, fondato sulla varia­bilità (differenza)” (p. 7).

Cfr. A. Giancola, La moda nel consumo giovanile. Strategie & Immaginari di fine millennio, Milano, Franco Angeli, 1999.

Il fatto è stato riconosciuto dallo stesso Presidente della CEI, card. Camillo Ruini, che nella prolusione al V Forum del progetto culturale ha affermato: “La trasmissione della fede alle nuove generazioni è un impegno tradizionale e fondamentale della Chiesa, che via concentra gran parte delle proprie energie. Negli ultimi quattro decenni questa trasmissione ha messo in luce crescenti difficoltà. […] I risultati del rinnovamento sono stati comunque scarsi, almeno sul piano quantitativo, dato che è continuato a diminuire il numero dei ragazzi che riescono a stabilire con la fede e con la Chiesa un rapporto duraturo e profondo” (Ruini, 2003, 407-408).

“In Italia ci sono circa 300.000 catechisti su grossomodo 25.000 parrocchie, significa una media di 10-12 catechisti per parrocchia, tenendo conto che molte parrocchie comprendono meno di 1000 abitanti e c'è una grossa fetta di oltre 10.000-15.000 abitanti.
Di questi catechisti il 60% sono addetti ai fanciulli, il 31% sono addetti ai pre-adolescenti, il 3,9% sono addetti agli adolescenti, il 4% sono addetti al mondo giovanile (ma la maggior parte sono nei gruppi e nelle associazioni ecclesiali) e infine c'è un altro 4% per tutti gli adulti. […]
Secondo le statistiche che ho desunto anche da certe domande implicite, incrociando alcuni dati, oltre l'80-85% dei fanciulli passa per la catechesi parrocchiale, quasi 65-70% dei preadolescenti partecipa alla catechesi in vista del sacramento della cresima. Poi con la cresima si fa la festa dell'addio ed ecco il senso di questo distacco e disaffezione della maggior parte degli adolescenti. Fanno eccezione quei pochi che hanno trovato catechisti capaci di accompagnare il loro cammino di fede, che hanno capito, andando anche contro la mentalità del parroco, il modo di uscire un po' dagli schemi tradizionali della catechesi finalizzata ai sacramenti. […]
Questi adolescenti non hanno avuto la possibilità di interiorizzare le motivazioni della fede in sintonia con le nuove scoperte dell'identità, per cui la socializzazione religiosa precedente è rimasta tradizionale e un po' legata a motivazioni esteriori e, chiaramente, quando un principio non viene interiorizzato, sia per quanto riguarda la dimensione morale che quella religiosa, le cose apprese e vissute nell'età precedente vengono o rifiutate o rigettate, non trasformate” (Morante, 1997, ).

- Gli agenti tradizionali della socializzazione "risultano spesso perdenti nei confronti dei media, in particolare con la televisione... La televisione e gli altri media, presentando pagine di sogno e facendo agire figure e personaggi  sul piano del desiderato e del proibito, utilizzando a fondo le dinamiche dell'identificazione e della proiezione" (Scaglioso, 1986, 33-34), risultano molto più avvincenti delle figure tradizionali.

- Il Rapporto Faure, all'inizio degli anni '70 aveva messo in guardia dalle fondamentali "modificazioni" apportate dalla televisione sui ragazzi:
1) Un accrescimento della sensibilità visiva e audiovisiva, una regressione della sensibilità uditiva pura.
2) Una maggior  rapidità nell'affrontare segni e simboli, a interpretarli.
3) Una notevole difficoltà a concentrarsi piu' di due minuti di seguito sullo stesso soggetto...
4) Una grande difficoltà ad imparare a memoria e a ritenere testi di relativa lunghezza.
5) L'allenamento alla rapidità del riflesso intellettuale sembra corrispondere  a una correlativa  incapacità di fissare il riflesso stesso, a ritenerlo, condizione prima, invece, della riflessione; la maturazione del giudizio non è nè favorita  nè incoraggiata dall'ininterrotto bombardamento di dati sempre nuovi a cui l'ambiente informativo del mondo circostante sottopone l'adulto, l'adolescente, il bambino... (Bertaux, Una nuova immagine dell'uomo, in AA.VV.,"I documenti del Rapporto Faure, Educazione in divenire", Armando, Roma 1976, 22-24; cit. da Milan, 1988, 166).

Quest'influenza appare più evidente quando interviene il "fascino dello spot": Le fulminanti fiabe moderne, costruite utilizzando immagini in rapido movimento, frequenti mutamenti di quadro, colori vivaci, orecchiabili musichette di fondo, piacciono ai bambini, ne catturano l'attenzione, sottoponendoli però attraverso le modalità della "persuasione occulta", al bersagliante invito a comprare (Milan, 1988, 160).

Imputato speciale di tale situazione diventa il telecomando. "Il piccolo si vede attribuito il potere magico di far scorrere le immagini sul video a suo piacimento; egli sperimenta perciò un senso di autonomia e di più ampie possibilità ludiche, che, proprio perché illusorio, accentua lo stato di dipendenza e di passività..." (Milan, 1988, 158).

"Grande è, per esempio, come ha rilevato M.B. Rothenberg, l'influenza della televisione sull'atteggiamento del bambino nei confronti dei ruoli dell'uomo e della donna, dei rapporti sessuali, delle discriminazioni razziali, del comportamento morale in genere..." (Milan, 1988, 160).
Strettamente connesso al discorso sulla passività e sulla fruizione acritica è il problema dell'inibizione della creatività. "...i figli della televisione sono indotti a non comportarsi in modo divergente rispetto agli esempi osservati: pensano generalmente in modo filmico-televisivo, subiscono gli schematismi di un modo di agire, di fare, di parlare, che essi facilmente 'registrano' e facilmente 'ripetono'... La stessa M. Winn ripete piu' volte che la continuata e prolungata esposizione ad un trattenimento così passivo danneggia la capacità di utilizzare le risorse dell'immaginazione e della creatività" (Milan, 1988, 160-161).

“[I mass-media] trasformano il mondo in una serie di pseudo-eventi di natura spettacolare, che configura il tempo  come una successione di momenti  non correlati tra loro, una serie di mo­menti isolati e privi della profondità che é asso­ciata alla per­cezione del passato e del futuro. Per lo spetta­tore dei media tutto si riduce a godere l'intensità e le sen­sazioni della su­perficie delle immagini, senza poter attivare in modo consi­stente meccanismi di identificazione e di proie­zione nei con­fronti di personaggi e caratteri” (Vaccarini, 1990, 131).

Da ricerche fatte in America appare evidentissimo che c'è una correlazione molto forte tra certi atteggiamenti dei genitori e predisposizione a comportamenti corrispondenti, rafforzati dalla vista dei programmi televisivi.
Da una ricerca condotta a New-York risulta che:
1 - Ragazzi di classi sociali sfavorite  sono i più assidui di fronte alla televisione
2 - Esiste un rapporto negativo tra quoziente intellettuale e assiduità davanti alla TV
3 - I ragazzi con famiglie assistite son i piu' appassionati di programmi violenti
4 - Esiste un rapporto diretto tra aggressività dei ragazzi e gusto per programmi violenti
5 - L'atteggiamento della famiglia nei riguardi della violenza ha una notevole influenza sul comportamento del ragazzo
6 - La finzione dello spettacolo non sostituisce affatto l'azione, ma la prepara (Ferrero, 1985, 16).
Inoltre da altre ricerche è dimostrato che la formazione di modelli e schemi mentali violenti dipende da una errata impostazione dell'educazione. Bambini che non son stati abituati a superare diversamente la frustrazione (attraverso la verbalizzazione o altre forme diversive), che hanno subito violenza o hanno visto usare la violenza come forma abituale di comportamento e di soluzione dei conflitti, a cui abitualmente si danno comandi impositivi invece che spiegazioni e motivazioni, tenderanno a preferire programmi televisivi violenti e ad aumentare i loro comportamenti violenti in caso di aggressione o disturbo (Singer & Singer, 1986, 108-110).
I genitori di questi ragazzi sono già loro dei grandi consumatori di programmi televisivi, confondono la fantasia con la realtà, mancano di altri interessi, hanno basso livello socio-culturale, non pongono regole nell'uso della TV, sovente hanno problemi relazionali e di coppia, non seguono molto il figlio, sono violenti e non sogliono commentare con lui i programmi televisivi (Singer & Singer, 1986, 120-122).

“Essere giovani e essere studenti sta diventando (e certamente lo diventerà) un sinonimo” (Franchi 1988, 12).

Da uno studio del Censis sui flussi di passaggio nei cicli e tra i cicli e di abbandono relativamente all'anno 1987-88, si ricava che “su 100 giovani che partono in prima media, 6 si perdono prima di arrivare alla licenza media, 18 escono con la licenza e 76 si iscrivono alla scuola secondaria. Qui avviene una nuova massiccia selezione, e solo 45 arrivano al diploma. 16 giovani si fermano a questo punto, mentre 29 si iscrivono all'università. Tuttavia, di questi, 19 abbandonano e solamente 10 arrivano alla sospirata meta finale” (Malizia, 1991, ).

Non vogliamo in questa sede entrare nel merito della definizione di tempo libero, che è ancora oggetto di dibattito tra gli studiosi, e che le stesse ricerche IARD non chiariscono. Ricordiamo solo che esso può essere inteso come il tempo non occupato dai tempi sociali, oppure come tempo lasciato libero dal lavoro, o da altri impegni. Ma lo si può anche intendere come il contenitore delle attività, o delle attese, o degli atteggiamenti che si assumono in tale tempo.

Secondo Lalive d'Epinay sarebbero stati trasferiti nel tempo libero i rapporti di forza che prima erano agiti nel mondo del lavoro. I conflitti che caratterizzano la società sarebbero giocati “nella pratica delle attività di tempo libero, concepite come pratiche di consumo culturale” (Lalive d'Epinay, 1980, 87).

 

Fonte: http://utenti.quipo.it/giulianovettorato/_private/Doc2/Dottorato/I%20parte/EVOLUZIONE%20DELLA%20SOCIETA.doc

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