Globalizzazione

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Globalizzazione

 


Globalizzazione: omologazione e complessità

1. Nota generale al titolo e al tema: problema di impostazione.
È indicativo e di guida il titolo dell’intervento di Anthony Giddens tenuto alle Reith Lectures nel 1999 poi trasmesso dalla Bbc e pubblicato nell’opera complessiva: «Il mondo che cambia. Come la globalizzazione ridisegna la nostra vita» (il Mulino, Bologna 2000). Il termine si presenta come lettore efficace e quasi insostituibile (anche solo per il suo ricorrere) della contemporaneità.
Inteso, in modo elementare e preliminare, come estensione al “sistema mondo” di pratiche sociali identiche (all’apparenza, poiché in realtà il contesto le risignifica), il termine globalizzazione non viene compreso nella sua incidenza interpretativa dell’età contemporanea se non è considerato in tensione tra due altri termini antitetici che lo caratterizzano: omologazione e complessità. La globalizzazione diffonde a livello mondiale stili di vita omogenei servendosi di processi che le sociologia indica con il termine “omologazione”. Contemporaneamente essa introduce, negli ambiti in cui opera, una rivoluzione di orientamento, scelta, progetto tale da creare inattesi, talora disorientanti, livelli di complessità. Perciò bisogna camminare con tre parole: globalizzazione, omologazione, complessità. Ognuna indica dinamiche sociali diverse, ma si sorreggono e correggono a vicenda impedendosi reciprocamente di imporsi con enfasi eccessiva e quindi inopportuna se il loro scopo è guidare a comprendere la dinamica della società contemporanea. Si tratta di una di quelle parole che, tolte dall’abuso e poste in connessione, fanno scorgere la dimensione culturale e politica in cui ogni individuo, nel presente, è collocato. «L’individualismo imposto dalla globalizzazione ha sradicato i movimenti di massa e ha reso inservibili le categorie politiche e sociali con cui pensavamo noi stessi e gli altri: se le grandi narrazioni collettive sono finite, la vita del soggetto acquista la stessa drammaticità della storia del mondo. Abbiamo bisogno di un nuovo paradigma per capire il presente e, soprattutto, per rivendicare i nostri diritti.» Touraine Alain 2004 La globalizzazione e la fine del sociale, il Saggiatore, Milano 2008 (titolo originale in traduzione letterale. Un nuovo paradigma. Per comprendere il mondo oggi).

1.1. ipotesi di intesa sul termine globalizzazione
«Clamorosamente vincente sul piano quantitativo - ingrediente ormai irrinunciabile di ogni riflessione, o forse sarebbe meglio dire di ogni predica, sull'inevitabile ridimensionamento dello Stato sociale, sulla flessibilità del lavoro e sulla fine delle garanzie -, il termine globalizzazione rimane, tuttavia, un concetto ancora preoccupantemente generico e impreciso. Un mot fétiche: una parola feticcio, per usare una felice espressione di Robert Boyer, uno dei principali esponenti della «scuola della regolazione» francese. O, se si preferisce, un mot chargé d'idéologie, come lo ha definito, fin dal suo apparire, Francois Chesnais, per l'implicita accettazione che esso presuppone del processo di «assolutizzazione dell'economia»; e per l'attribuzione ad esso di un carattere in se stesso «benefico e necessario», irresistibile e ingovernabile, rispetto al quale, come nel caso delle originarie religioni animistiche e tribali, l'unica chance lasciata ai soggetti sociali e agli individui è, puramente e semplicemente, quella di adattarsi («s'adapter... est le maître mot qui a maintenant valeur de slogan»), facendo, se possibile, «sacrifici umani». Revelli, Marco, La globalizzazione. definizioni e conseguenze. (saggio-conferenza)

1.1.1 una “rivoluzione culturale” (o, secondo taluni, una «controrivoluzione culturale»). «Un processo di più accelerata circolazione delle informazioni, delle immagini e dei valori culturali a cui si accompagna, almeno in parte, un parallelo fenomeno di uniformazione, di omogeneizzazione e di «omologazione» delle culture.» (Revelli M. ivi). La conseguenza è un’estensione universale di uno stesso modello di vita: dimensione del vivere sociale che stempera tradizionali riferimenti ideali, linguistici e consuetudinari privandoli del ruolo di "incubatori" di identità, di passaggi per la programmazione produttiva e la distribuzione delle risorse;
1.1.2 una “rivoluzione temporale”: l'eterno presente. Le opportunità del presente, numerose, in rapida e imprevedibile evoluzione, fanno della memoria un inutile pensare alla scarsità e del futuro un tempo ove non vi è nulla da attendersi più di quello che oggi si può ottenere, non esistendo altro modello di produzione di opportunità se non quello presente considerato sinonimo di sviluppo; (vedi Bonomi, Aldo 1996 Il trionfo della moltitudine, Bollati Boringhieri, Torino)
1.1.3 una “rivoluzione spaziale”: la separazione dello spazio dal luogo (la deterritorializzazione). I rapporti sociali si enucleano dai contesti locali di interazione e si ristrutturano su traiettorie spazio-temporali indefinite: la società globale si sostanzia nell'intensificarsi delle relazioni sociali mondiali (mondializzazione) che collegano tra loro luoghi distanti così che gli eventi locali sono modellati direttamente, istantaneamente, da eventi che si verificano in altri luoghi; « … come una radicale trasformazione dello «spazio sociale» (dello spazio entro il quale avvengono i fatti percepiti dagli uo-mini come rilevanti al fine della loro condizione quotidiana); o, se si preferisce, della «percezione sociale» dello spazio (del modo in cui gli individui selezionano i fatti suscettibili di influenzare la loro vita lungo una scala di distanze). Distanze che erano brevi o brevissime in epoche pre-tecnologiche e pre-moderne (non superavano in genere il raggio della comunità di villaggio, del rapporto tra borgo e contado, entro cui si consumavano praticamente tutti gli eventi di un qualche rilievo per i loro abitanti); che sono andate crescendo con il diffondersi delle tecnologie meccaniche e in particolare con le tecnologie della «velocità» come la ferrovia, il telegrafo, l'automobile, il telefono, la radio, la televisione, ecc., estendendosi, nell'ultimo secolo, al raggio dei grandi stati-nazione (facendo delle frontiere degli stati il perimetro dello «spazio sociale» di riferimento nell'epoca, appunto, della nazionalizzazione delle masse); e che sono giunte ad abbracciare l'intero pianeta negli ultimi decenni… come una forma di stretching spaziale (A. Giddens), di «stiramento» dello spazio, nel senso dell'allungamento delle reti di riferimento spaziale degli individui, delle catene di eventi e di relazioni per essi significativi su distanze appunto «globali», e che hanno qualificato con l'espressione «azione a distanza».» (Revelli M. ivi).
Il luogo nel quale ci troviamo non costituisce necessariamente per noi una comunità. «Le relazioni tra persone che vivono in un luogo in condizioni globalizzata possono configurarsi come una coesistenza priva di rapporti». (Beck, Ulrich, La società cosmopolita, il Mulino, Bologna 2003)
1.1.3.1 il tramonto della percezione tradizionale delle due coordinate della storia, il tempo (il senso della storia è ora caratterizzato da un eterno presente) e lo spazio (la separazione dello spazio dal luogo), si interpreta come perdita del "sentire storico".
1.1.4. una “rivoluzione economica”: «la globalizzazione come fenomeno economico, o meglio, vi sono le globalizzazioni economiche, poiché, come ha dimostrato la scuola francese «della regolazione», è opportuno abbandonare la concezione «globalizzata della globalizzazione», e tentare una più precisa descrizione dei diversi - e separati - processi attraverso i quali l'economia ha «superato i propri confini», conquistando spazi e raggio d'azione inediti. Dei diversi modi e circuiti con cui le diverse componenti della sfera economica si sono «mondializzate». Una via, questa, che permette di meglio cogliere, nel loro sviluppo cronologico, i diversi meccanismi della globalizzazione (l'attivazione dei suoi molteplici «circuiti»). I quali sono per lo meno tre, corrispondenti a tre diversi tipi di «globalizzazione»:
- una globalizzazione che potremmo definire «commerciale» (o marchande) corrispondente alla mondializzazione dei mercati delle merci;
- una globalizzazione che potremmo definire «produttiva», corrispondente alla mondializzazione dei processi e dei cicli produttivi (della struttura delle imprese);
- una globalizzazione che possiamo definire «finanziaria», corrispondente alla mondializzazione del mercato dei capitali.» (Revelli M. ivi)

1.2. globalizzazione e omologazione
«Lo sviluppo dell’economia di mercato con la tendenza ad eliminare le barriere al libero commercio; l’interdipendenza a livello mondiale degli scambi finanziari; la diffusione delle diverse tecnologie; la crescente influenza delle imprese multinazionali e delle organizzazioni e istituzioni internazionali; l’affermarsi della cooperazione nel campo della ricerca scientifica; l’impatto dei mezzi di comunicazione di massa e delle nuove tecniche informatiche; lo sviluppo dell’industria culturale sono tutti elementi che spiegano le tendenze omologanti presenti nella globalizzazione.
1.2.1 Un primo elemento di omologazione può essere anzitutto colto, da un lato, nel fatto che l’obiettivo del benessere materiale, inteso secondo le condizioni che caratterizzano le società sviluppate a economia di mercato, costituisce una meta ideale predominante per la generalità della popolazione mondiale; dall’altro, nella diffusa fiducia nella possibilità di conseguire tale meta grazie ai progressi del sapere scientifico e tecnologico, allo sviluppo delle forme di produzione e distribuzione industriale, nonché all’estendersi del capitalismo finanziario. (Crespi, Franco, 2004, Identità e riconoscimento nella sociologia contemporanea, Laterza, Roma-Bari, 13-14)
1.2.2 Occorre, in secondo luogo, riconoscere che tali rappresentazioni collettive sono anche il prodotto del progressivo consolidarsi di strutture di tipo transnazionale sia a livello economico sia a quello politico. Non solo assistiamo alla crescente concentrazione dell’attività di produzione e di distribuzione in compagnie a carattere multinazionale, ma è anche in forte aumento la tendenza a costituire enti internazionali di controllo dell’economia come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio, nonché grandi aggregazioni relative ad aree commerciali e monetarie, come l’Unione Europea, la Grande Area Nordamericana (Nafta), il Mercosur teso a sfoltire le barriere extratariffarie nei paesi dell’America Latina, e altre iniziative come quella per la formazione di un Club del Pacifico con la partecipazione di Giappone, Cina, Australia, Indonesia e USA, ecc. Sul piano politico-sociale, accanto alle Nazioni Unite, all’Organizzazione Internazionale del Lavoro, all’Organizzazione Mondiale della Sanità, sono inoltre sorte, sempre a livello internazionale, numerose Organizzazioni Non Governative (ONG) volte soprattutto all’assistenza, alla tutela dei diritti, alla difesa dell’ambiente, ma anche altre iniziative di tipo governativo rivolte a sviluppare l’assistenza tecnica, l’unificazione della formazione scolastica e universitaria, e via dicendo. L’importanza assunta dal “capitale globale”, caratterizzato da ingenti spostamenti di flussi finanziari che attraversano le diverse aree geografiche, e la rilevanza delle istituzioni transnazionali vanno ponendo in profonda crisi alcune funzioni tradizionali dei diversi Stati nazionali e lo stesso concetto di sovranità, dal momento che le decisioni più importanti per la vita collettiva vengono sempre più prese a livello internazionale da centri di potere non facilmente identificabili. Come ha giustamente osservato Niklas Luhmann, il termine internazionale, non è, qui, più riferito, come in passato, ai rapporti tra due o più nazioni, bensì ai problemi del sistema globale nel suo insieme [cfr. Luhmann 1997, 7].
La rilevanza dei centri di potere economico e politico operanti a livello mondiale sta trasformando le forme di appartenenza nazionale e i rapporti tra sfera pubblica e sfera privata [cfr. Stiglitz 2002]. Tra i centri di potere che si muovono secondo una logica transnazionale occorre, inoltre, non sottovalutare l’impatto che, sull’economia mondiale e sulle forme di aggregazione sociale, hanno anche le forme della criminalità organizzata: in particolare, il mercato della droga, attraverso il riciclaggio occulto di in genti capitali, nonché la possibilità di ONG a carattere sovversivo e terroristico.
1.2.3 La terza componente omologante del processo di globalizzazione è soprattutto legata alla diffusione su scala mondiale dei mezzi di comunicazione di massa e delle nuove tecniche informatiche, nonché all’impatto dell’industria culturale. L’informazione sugli eventi che si verificano nelle parti del mondo più distanti tra loro avviene, ormai, in tempo reale, mentre la pubblicità e i diversi prodotti della fiction costituiscono, in quasi tutte le società, una fonte costante di modelli omogenei relativi ai consumi e agli stili di vita. Un esempio particolarmente significativo, da questo punto di vista, è rappresentato dalla formazione di una cultura giovanile (si pensi, in particolare, alla musica, agli stili nella cura del corpo e nell’abbigliamento, allo sport, ai movimenti ecologisti, pacifisti e no-global) che travalica ogni confine nazionale. (ivi, 14-15)

1.3. globalizzazione e complessità definizione e livelli di complessità e di società complesse
1.3.1 società nelle quali si è verificata ed è in atto una rapida evoluzione nelle forme di produzione, delle abitudini e delle regole dei rapporti sociali; ma tale evoluzione si accompagna alla sopravvivenza di regole e sistemi (economici, sociali, politici, consuetudinari...) vigenti in periodi anteriori e ancora validi in aree o in settori di vita presente.(Cirese M. Alberto 1997 Dislivelli di cultura ed altri discorsi inattuali, Meltemi, Roma, p.11). La globalizzazione non si configura solo come omologazione. (vedi 5.3.1.). « L’immagine ideale del benessere appare operante anche nei paesi più arretrati e spiega il fenomeno sempre più accentuato delle spinte migratorie verso le aree sviluppate. Inoltre, le diffuse aspettative di un miglioramento delle condizioni di vita e la fiducia negli effetti del progresso scientifico e tecnologico di tipo occidentale si sono mostrate di fatto compatibili con le tradizioni culturali più diverse: anche in quei paesi dove sussistono posizioni di accentuato integralismo e di rifiuto del modello di sviluppo dell’Occidente, come avviene, ad esempio, in alcune aree ove è predominante la religione islamica, il dogma dell’eccellenza del sapere fondato sulla scienza e degli effetti positivi dello sviluppo tecnologico appaiono in pratica indiscussi [cfr. Naipaul 1998]». (Crespi, ivi 14);
1.3.2 società che appaiono fortemente unificate dalla accentuata centralità della loro organizzazione statuale e dalla dichiarata volontà di riconoscersi come unità storiche omogenee (comunità, patria, popolo, grande famiglia...); contemporaneamente però esse mostrano nel loro passato e nel presente una serie di differenze "culturali" interne che appaiono più o meno direttamente connesse con le disuguaglianze associative, politiche, economiche, culturali e che si accentuano (quasi paradossalmente) di fronte ai processi di omologazione avvertiti e paventati;
1.3.3 società nella quali si realizza un forte dinamismo sociale di comunicazioni, addirittura simultanee, tra centri (politici, economici, culturali) e periferie; dinamismo reso possibile dalla disponibilità di mezzi tecnici prima sconosciuti e dall'innalzamento del livello culturale medio, e tuttavia permangono "salti culturali" morfologici e storici, qualitativi e quantitativi, tra città e campagna, tra ambienti "colti" e ambienti "popolari"; dislivelli forti e resistenti in quanto si presentano come formazioni storiche e come processi di costruzione di identità sociali;
1.3.4 società nella quali ha acquisito un altro grado di articolazione il processo di "esteriorizzazione della memoria" (Leroi-Gourhan): la tendenza ad affidare a supporti materiali extramentali ed extrasomatici (libri, nastri magnetici, spettacoli, manifestazioni, circoli associativi, banche dati...) la propria specifica identità, autopercezione, bisogni, disagi ecc.; esteriorizzazione della memoria resa complessa anche dalla varietà dell'indicatore prescelto e delle forme adottate. (vedi: Cirese, o.c.)

2. metodi dalla riflessione filosofica
2.1 logica per la complessità
2.1.1 Epicuro: scienza e metodo per realtà complesse
2.1.1.1. il fine della scienza e della filosofia
«È compito della scienza della natura darci preciso conto della causa dei fenomeni più importanti, ... in questo risiede la felicità, e nel conoscere la natura dei corpi che contempliamo nei cieli, ed in tutte le conoscenze congeneri rispetto al raggiungimento della perfetta scienza che renda la vita felice.» (ad Erodoto)
«Bisogna esser persuasi che dalla conoscenza dei fenomeni celesti in qualsiasi modo se ne tratti, o unitamente ad altre dottrine o separatamente, non può derivare altro scopo se non la tranquillità e la sicurezza dell’anima, ciò che del resto è pure lo scopo d’ogni altra ricerca.» (a Pitocle)
«Della scienza della natura non avremmo bisogno se sospetto o timore delle cose dei cieli non ci turbasse, e non temessimo che la morte possa essere per noi qualcosa, e non ci nocesse il non conoscere i limiti dei dolori e dei desideri.» (Massime capitali XI)
«Non scioglie il terrore di ciò che all’uomo più importa, chi non sa quale sia la natura dell’universo e sta in ansia e sospetto per lo favole dei miti. Senza studio della natura non è dunque possibile godere schietti piaceri.» (ivi XII)
«Non vi è tranquillità d’animo se non nell’essere sgombri da tutti questi errori e nel ricordarci assiduamente delle dottrine generali e fondamentali… Quelli poi che non possono del tutto considerarsi fra i perfettamente edotti della mia dottrina, possono da questi precetti, per quanto è concesso senza insegnamento orale, compiere mentalmente l’esame complessivo delle dottrine più importanti per il conseguimento di una vita serena.» (ad Erodoto)

spunti di lettura:
—la scienza, il sapere, tende ed ha il suo movente nella felicità (rapporto scienza —felicità come criterio di validità della scienza)
—felicità: non definita in positivo, come conseguimento di precisi obiettivi o stati, ma come libertà dalla paura o da turbamenti
—ci libera dalla paura la scienza
—questo è il massimo piacere: il non essere turbati da...; il piacere è la stato in cui ci colloca il sapere, piacere inteso come vita serena, come quiete, tranquillità frutto di saggezza
—premesse per un’etica fondata sul piacere:
«Ti invito invece ad assidui piaceri non a vacue e stolte virtù ch’abbiano inquiete speranze di buoni frutti.» (ad Anassarco) «Quanto a me, non so farmi un concetto del bene, se ne detraggo i piaceri del gusto, ne detraggo quelli di Venere, o quelli dell’udito ed i soavi moti che dalle forme riceve la vista» (Frammenti, Del fine)… «Perciò dichiariamo il piacere principio o fine della felicità, perchè questo abbiano riconosciuto cono bene primo e congenito; e da esso iniziamo ogni scelta ed ogni avversione, e ad esso ci rifacciamo, giudicando ogni bene alla norma del piacere e del dolore... Quando nei diciamo dunque che il fine è il piacere, non intendiamo i piaceri dei dissoluti e dei gaudenti - come credono certuni, ignoranti o dissidenti o che mal ci comprendono - ma il non soffrire quanto al corpo o non esser turbati quanto all’anima.» ( a Meneceo)

2.1.1.2. il metodo della scienza e della filosofia
Lo caratteristiche ed il metodo del sapere saranno tali da consentire quel fine (o: metodologia da seguire nella spiegazione dei fenomeni fisici, ai fine di arrivare all’animo sereno e felice):
a) procedere per analogie.
«...l’ordinata successione dei fenomeni celesti deve spiegarsi con l’analogia di consueti fenomeni che accadono sulla terra. Non si assuma invece mai come causa di essi la natura divina, ma la si conservi libera da ogni ministerio e in illibata beatitudine. Se così non si farà ogni nostra indagine sulle cause dei fenomeni celesti sarà vana.» (a Pitocle)
b) spiegazione meccanica, non intenzionale-personalistica, dei fenomeni fisici.
«Senza dubbio poi i moti celesti e le rivoluzioni e l’eclissarsi ed il sorgere ed il tramontare degli astri, e tutti i simili fenomeni, non si deve credere siano prodotti per apposito ministerio di alcuno che dia loro o debba dare regola o misura, o pur tuttavia possegga l’assoluta beatitudine o l’immortalità. Infatti occupazioni o cure od ire e benevolenze, non s’accordano con lo stato di perfetta beatitudine, ma vengono da debolezza e timore e necessità di assistenza da parte dei vicini. Ed altresì non è dubbio che l’universo fu sempre quale è ora, e tale sarà sempre; perchè non vi è nulla in cui possa mutarsi; infatti oltre il tutto non vi è nulla, che possa penetrandovi produrvi mutazione.» (segue la teoria dei corpi: atomi o vuoto, e del loro movimento eterno). «Ed ancora, i mondi sono infiniti, sia quelli simili ai nostri sia quelli dissimili dal nostro. Perchè gli atomi, che abbiamo testè dimostrato essere infiniti, percorrono anche i più lontani spazi.» (ad Erodoto)
c) le diverse spiegazioni possibili
«Senza dubbio si ottiene l’assoluta tranquillità spirituale su tutti quei problemi che si risolvono secondo il metodo delle spiegazioni molteplici, in accordo con i fenomeni, quando rispetto ad essi si mantengono, secondo è giusto, quelle spiegazioni che sono probabili. …Coloro invece che accettano un solo modo di spiegazione, non solamente si pongono in contrasto con i fenomeni, ma anche perdono di vista il limite imposto alla possibilità della umana conoscenza [cioè le sensazioni come unica fonte di conoscenza] ... Del resto l’esperienza dei fenomeni terrestri indica che diverse possono essere le cause anche di questi fenomeni dei quali qui ci occupiamo. In più modi si originano i lampi ...» (tale metodo viene applicato ai vari fenomeni studiati: tuoni, lampi, nubi, cicloni, terremoti, venti ecc. e viene ribadito che il non attenersi a questo metodo è cadere nel mito) (a Erodoto, a Pitocle)
(riassumendo: pretendere di avere una spiegazione unica (una causa unica) è: non rispetto del limite sensitivo, cadere nel mito (prestar fede a favole mitologiche e non aver più alcun strumento di difesa dalla paura e impedirci la serenità—tranquillità—felicità), stoltezza = non conoscenza e ancora non serenità; la filosofia di Epicuro è “esame complessivo delle dottrine più importanti per il conseguimento di una vita serena”)
d) accordo con i sensi
«E nel Canone appunto dice Epicuro, essere criteri del vero: le sensazioni, lo prenozioni, i sensi interni. Infatti gli dice che ogni sensazione è irrazionale e non partecipa di memoria, e certamente non ha attività di per se stessa, né mossa da oggetto può nulla aggiungervi e togliergli. E neppure v’è nulla che possa confutarla... né d’altra parte può la ragione, perchè ogni ragionamento dipende dai sensi: e neppure una sensazione può confutarne un’altra, perchè a tutte ci atteniamo… E certo anche ogni nozione intellettiva procede dalle sensazioni, secondo l’incidenza, l’analogia, la somiglianza. o la composizione, contribuendovi in qualche misura anche il raziocinio.» (Diogene Laerzio, Vita di Epicuro)
Il “metodo delle diverso spiegazioni possibili” è tratto dalla natura della sensazione: «Infatti tutte queste. possibilità (di spiegazione) e quelle affini ad esse, non contrastano a nulla che sia attestato dalla evidenza effettiva dei fenomeni; purchè a tali argomenti, badando sempre al criterio della possibilità, si sappia ricondurre ciascuna di queste spiegazioni all’accordo con i fenomeni, senza paura degli artifizi degli astronomi, degni solamente di gente servile.» (a Pitocle) (Ciò rafforza e indebolisce il criterio di verità basato sulla sensazione sia perchè la sensazione è suscettibile di spiegazioni-letture diverse, sia per il concetto di prenozione).
e) le prenozioni
(precedenza dello nozioni —prolessi— per l’indagine)
«La prenozione (prolessi) essi (epicurei) designano come apprendimento o retta opinione, o concetto o nozione universale insita in noi, cioè memoria di ciò che spesso ci è apparso dall’esterno: come, per esempio, l’essere l’uomo ciò che ha certe determinate qualità: infatti appena pronunziamo la parola uomo, subito, per prenozione, si pensa la sua forma e carattere proprio, secondo i dati precedenti dei sensi… E non potremmo compiere le nostre indagini se questo prima non conoscessimo; per esempio, data la domanda: Quello che è laggiù è cavallo o bue? per rispondervi conviene, per mezzo della prenozione, conoscere già la forma del bue e quella del cavallo.» (Diogene Laerzio ivi)
f) vanno escluse altre pratiche di spiegazione, quali:
—1) la divinità come causa; ciò è in contrasto con la natura della divinità: «Il supremo perturbamento sorge negli uomini, primieramente ove si creda che tali nature siano beate ed immortali, e che pur abbiano volontà ed opere e cause che contraddicano a questi attributi loro… Non è irreligioso chi gli dei del volgo rinnega, ma chi le opinioni del volgo applica agli dei.» (a Erodoto, a Meneceo)
—2) il destino (il fato, la fortuna ecc.): «Meglio era infatti tenersi ai miti sugli dei, che essere schiavi al destino dei fisici, perchè quelli almeno ammettono speranza di placare i numi onorandoli, questo invece ha implacabile necessità. E la fortuna, il saggio non la stima una divinità...» (a Meneceo)
—3) la spiegazione unica (cfr. sopra)
—4) la spiegazione mitologica
nota l’equazione: spiegazione unica = spiegazione mitica
e l’equazione: spiegazione unica = paura (e altre eguaglianze possibili: spiegazione unica = spiegazione mitica = desiderio di immortalità = paura della morte = paura della realtà nella sua complessità = non scienza = non felicità)
— 5)1’immortalità come atteggiamento mentale della spiegazione scientifica (come ricerca di spiegazione eterna unica immutabile ecc.):
«Abituati o pensare che nulla è per noi la morte: in quanto ogni bene e male è nel senso, mentre la morte è privazione del senso. Perciò la retta conoscenza che la morte è nulla per noi, rende gioibile la mortalità della vita.... Il supremo turbamento sorge negli uomini … anche per la paura di quella stessa insensibilità che è nella morte, come fosse per noi un male» (a Meneceo, a Erodoto) (cioè non la morte è una male per l’uomo, essa è cessazione di mali, ma la paura della morte e il desiderio della immortalità). Interpreta questo in connessione con la pratica scientifica: “All’idea che il mondo non abbia valore di per sé ma in un fine che lo trascende, in realtà ‘ideali’ che gli sono essenzialmente eterogenee, Epicuro oppone il suo ideale di felicità tutta mondana, l’insussistenza del problema della morte, la convinzione che la soluzione di tutte le nostre difficoltà non sta nell’aggiungere ‘infinito tempo alla vita mortale’ ma nel togliere il desiderio dell’immortalità, cioè, nel conciliare l’uomo con la vita; alla concezione della scienza come contemplazione di verità eterne, Epicuro oppone quella della scienza come progressivo strumento di liberazione dai timori e dalla superstizione religiosa. (G.Giannantoni)

2.1.2 Marx: il metodo analitico critico e di lettura delle società complesse
«La società borghese è la più complessa e sviluppata organizzazione storica della produzione. Le categorie che esprimono i suoi rapporti e che fanno comprendere la sua struttura, permettono quindi di capire al tempo stesso la struttura e i rapporti di produzione di tutte le forme di società passate, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita, e di cui sopravvivono in essa ancora residui parzialmente non superati, mentre ciò che in quelle era appena accennato si è svolto in tutto il suo significato, ecc. L’anatomia dell’uomo è una chiave per l’anatomia della scimmia. Invece, ciò che nelle specie animali inferiori accenna a qualcosa di superiore può essere compreso solo se la forma superiore è già conosciuta. L’economia borghese fornisce così la chiave per l’economia antica ecc. Ma non certamente al modo degli economisti, che cancellano tutte le differenze storiche e in tutte le forme di società vedono la società borghese.
Si possono comprendere tributi, decime ecc., quando si conosce la rendita fondiaria. Ma non bisogna identificare questa con quella. Poiché inoltre la stessa società borghese non è altro che una forma antagonistica dello sviluppo, certi rapporti delle forme sociali anteriori si possono rinvenire spesso in essa solo del tutto atrofizzati o travestiti, come per esempio la proprietà della comunità. Se è quindi vero che le categorie dell’economia borghese sono valide anche per le altre forme di società, ciò va preso cum grano salis. Esse possono contenere quelle forme in modo sviluppato, atrofizzato, caricato ecc. e sempre con una differenza essenziale. La cosiddetta evoluzione storica si fonda in generale sul fatto che l’ultima forma considera le precedenti come semplici gradini che portano a essa, e poiché è raramente e solo in certe determinate condizioni capace di criticare se stessa — non si fa qui parola naturalmente di quei tali periodi storici che appaiono a se stessi come epoche di decadenza — le concepisce sempre unilateralmente. La religione cristiana è divenuta capace di contribuire alla comprensione obiettiva delle passate mitologie solo quando la sua autocritica fu pronta in un certo grado e, per così dire, dunàmei (in potenza). Così l’economia borghese è giunta a intendere quella feudale, antica ed orientale, quando è cominciata l’autocritica della società borghese. Per quel tanto che l’economia borghese non si identifica semplicemente in modo mitologico con il passato, la sua critica delle [società] precedenti, specialmente di quella feudale, con cui essa ha avuto ancora a lottare direttamente, è simile alla critica del cristianesimo al mondo pagano, oppure alla critica esercitata dal protestantesimo nei confronti del cattolicesimo.»
nota a commento: la sopravvivenza di rapporti semplici (tipici di società considerate e definite ora poco sviluppate) in società complesse sta a fondamento della capacità delle società più evolute di spiegare la natura e le potenzialità delle società considerate primitive. Marx segnala così uno sviluppo parallelo di teoria (metodo) e storia materiale (reale): la società complessa riassume e ordina in rapporti nuovi metodi produttivi più elementari, così come i concetti specifici, propri di un periodo storico dato, ridefiniscono e contengono le idee generali. La società borghese, in quanto complessa e organizzata, diventa, per Marx, osservatorio storico delle società passate, ma anche base materiale da cui sorge la tentazione ideologica di ridurre l’intera storia, nella varietà delle sue forme produttive e politiche, a momenti e tappe di uno sviluppo progressivo che trova sbocco definitivo proprio nella società borghese; quest’ultima crea in tal modo le condizioni per definire se stessa come progresso, sviluppo, modello unico e inesorabile prospettiva per ogni società e civiltà.
Marx, Karl (1859, 1953), Per la critica dell’economia politica, editori riuniti, Roma 1979, p. 194
La logica dell’inclusione dell’opposto e dell’avversario nel sistema dominante, capace di assorbirne evolutivamente l’apporto annullandone la carica critica, protestatoria, eversiva, è individuata nella logica della Industria culturale: « Ciò che resiste, può sopravvivere solo inserendosi. Una volta registrato nella sua differenza dall’industria culturale, fa già parte di essa come il riformatore agrario del capitalismo. La rivolta che rende omaggio alla realtà diventa il marchio di fabbrica di chi ha una nuova idea da portare all’industria. La sfera pubblica della società attuale non lascia passare alcuna accusa percettibile nel cui tono i fini d’orecchio non avvertano già l’autorità nel cui segno il révolté si riconcilia con loro. Più incommensurabile diventa l’abisso fra il coro e il vertice, e tanto più certamente vi è posto — su quest’ultimo — per chi sappia attestare la propria superiorità con un’originalità ben organizzata.»
Horkheimer Max, Adorno Theodor Wiesengrund (1947), Dialettica dell’Illuminismo. (sez. L’industria culturale. Illuminismo come mistificazione di massa), Einaudi, Torino 1966 p. 142

2.1.3. Husserl: comprensione per ontologie regionali
2.1.3.1. la fenomenologia delimita ontologie regionali = aree di senso
- l’ontologia regionale riporta (coglie) i differenti modi di essere delle cose alla loro radice: agli atti con cui la coscienza intenziona il mondo
- si tratta di atti – essenze “regionali”: aree di significato in cui l’oggetto si iscrive come formazione di senso
2.1.3.2. l’essenza non è un quid metafisico unico presente nell’oggetto come sua natura;
ogni oggetto può essere definito essenzialmente (= nella sua essenza) da lati-essenze (atti) diversi
- di conseguenza: ogni essenza individua non realtà singole, ma regioni di realtà
- ogni realtà singola acquista senso in forza di essenze diverse (o la multiessenza di ogni individuo)
- l’ontologia regionale diventa studio delle modalità essenziali degli oggetti
in ipotetico modello
contro la metafisica monoessezialistica la metafisica delle ontologie regionali

 

 

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2.2 logica per l’omologazione: una logica circolare
2.2.1 la Scuola di Francoforte
(da Weber alla Teoria critica della società contemporanea, chiamata Scuola di Francoforte)
- Weber lancia un allarme: la moderna razionalizzazione (economica, burocratica e scientifica) rinchiude progressivamente e inesorabilmente in una “gabbia d’acciaio” la società del nostro tempo
e il marxismo, filosofia e prassi anticapitalistica che ha denunciato l’alienazione (mercificazione) e promesso liberazione, è rimasto confinato, nella versione “ortodossa”, a ipotesi riformiste, positiviste
- indica la base per una ripresa: il fondamento trascendentale delle scienze sociali: le scienze storico sociali hanno il proprio fondamento trascendentale nei valori-possibilità-scelta = assumere posizione nei confronti del mondo e nel presupposto di uno sviluppo possibile
- l’allarme fa sorgere la Teoria critica della società: Scuola di Francoforte. Raccolgono la sfida dagli anni ’30 Horkheimer, Adorno, Marcuse, Fromm, Bloch, Lukàcs; dagli anni ’60 Habermas, Apel
elementi del progetto
2.2.2 il progetto generale
analisi della società contemporanea (delle società industriali avanzate): degli apparati economici, politici, dell’industria della comunicazione, della radice ultima della loro inesorabile affermazione. Temi specifici e particolari oggetto di analisi ad opera della Teoria critica: Stato autoritario, socializzazione famigliare e evoluzione dell’io, mass media e cultura di massa, industria culturale, analisi dei processi di reificazione della coscienza e di paralisi della protesta, potenziali di protesta teoria dell’arte come critica all’ideologia, come avviene l’accesso al mondo della vita (Lebenswelt), la sua gestione disinvolta e codificata nella prassi dei media dell’industria culturale.
2.2.3 l’Industria culturale
1. il problema: la fine dei valori della tradizione del mondo precapitalistico e dei sistemi…non ha generato il caos culturale; è subentrato un sistema omologato (sistema basato sull’omologazione) nei criteri estetici, nello stile di consumo, di lavoro e di tempo libero…
2. l’industria culturale: anche alla cultura si applica il concetto di industria. Tutto può essere ridotto a merce; la merce-cultura è prodotto seriale; la serialità si impone di fronte ad un nuovo soggetto: le masse (consumo di massa della cultura)
3. il circolo dell’industria culturale (il ciclo riproduttivo della cultura industriale) (o la meccanizzazione industriale applicata alla cultura). La regola: bisogni uguali soddisfatti in modo uguale; rendere uguali i bisogni per ridurre a merce seriale la cultura. Il sistema tiene e si legittima in un corto circuito: soddisfa i bisogni che crea - difende le libertà per un consumo standardizzato - la libertà premessa per legittimare e sostenere su basi morali il livellamento
4. è un processo circolare applicato a
a. fruitore: la classificazione tipologica del pubblico … per un prodotto adeguato
b. prodotto: le differenze nelle merci offerte in serie rapportano la qualità in quantità
c. tecnica: le differenti tecniche di costruzione perseguono il fine della persuasione; persuasione realizzata attraverso ribaltamenti: il rovesciamento mezzi – fini (il mezzo è fine, il medium è il messaggio); il rovesciamento dell’universale nel singolare (l’assoluta singolarità viene legata al consumo di ciò che è seriale; “individualismo di massa”)
« La tesi sociologica che la perdita di un sostegno nella religione oggettiva, la dissoluzione degli ultimi residui precapitalistici, la differenziazione tecnica e sociale e l’estremo specialismo, hanno dato luogo a un caos culturale, è quotidianamente smentita dai fatti. La civiltà attuale conferisce a tutto un’aria di somiglianza. Film, radio e settimanali costituiscono un sistema. Ogni Settore è armonizzato in sé e tutti fra loro. Le manifestazioni estetiche anche degli opposti politici celebrano allo stesso modo l’elogio del ritmo d’acciaio. Le sedi decorative delle amministrazioni e mostre industriali sono poco diverse nei paesi autoritari e negli altri. I tersi e colossali palazzi che spuntano da tutte le parti rappresentano la pura razionalità priva di senso dei grandi cartelli internazionali a cui tendeva già la libera iniziativa scatenata, che ha, invece, i suoi monumenti nei tetri edifici circostanti — d’abitazione o d’affari — delle città desolate. 130 […] Coloro che vi sono interessati amano spiegare l’industria culturale in termini tecnologici. La partecipazione, ad essa, di milioni imporrebbe metodi di riproduzione che a loro volta fanno inevitabilmente sì che, in luoghi innumerevoli, bisogni uguali siano soddisfatti da prodotti standardizzati. Il contrasto tecnico fra pochi centri di produzione e una ricezione diffusa esigerebbe, per forza di cose, organizzazione e pianificazione da parte dei detentori. I clichés sarebbero scaturiti in origine dai bisogni dei consumatori: e solo per questo sarebbero accettati senza opposizione. E, in realtà, è in questo circolo di manipolazione e di bisogno che ne deriva, che l’unità del sistema si stringe sempre di più. Ma non si dice che l’ambiente in cui la tecnica acquista tanto potere sulla società è il potere degli economicamente più forti sulla società stessa. 131 […] Ma ogni traccia di spontaneità del pubblico nell’ambito della radio ufficiale viene convogliata e assorbita, in una selezione di tipo specialistico, da cacciatori di talenti, gare davanti al microfono, manifestazioni addomesticate di ogni genere. I talenti appartengono all’industria assai prima che questa li presenti: o non si adatterebbero cosi prontamente. La costituzione del pubblico, che teoricamente e di fatto favorisce il sistema dell’industria culturale, fa parte del sistema, e non lo scusa. 132 […] L’unità spregiudicata dell’industria culturale attesta quella — in formazione — della politica. Distinzioni enfatiche, come quelle tra film di tipo a e b, o fra le storie in settimanali a prezzo diverso, non sono tanto fondate nella realtà quanto piuttosto servono a classificare e organizzare i consumatori, a impadronirsi saldamente di loro. Per tutti è previsto qualcosa, perché nessuno possa sfuggire; le differenze vengono coniate e diffuse artificialmente. Il fatto di offrire al pubblico una gerarchia di qualità in serie serve solo alla quantificazione più completa. Ognuno deve condursi, per così dire spontaneamente, secondo il suo level determinato in anticipo da indici statistici, e rivolgersi alla categoria di prodotti di massa che è stata preparata per il suo tipo. Ridotti a materiale statistico, i consumatori vengono ripartiti, sulla carta geografica degli uffici studio (che non si distinguono praticamente più da quelli di propaganda), in gruppi di reddito, in campi rossi, verdi e azzurri. 133
Il lavoratore, durante il tempo libero, deve orientarsi sull’unità della produzione. Il compito che lo schematismo kantiano aveva ancora assegnato ai soggetti, quello di riferire in anticipo la molteplicità sensibile ai concetti fondamentali, è levato al soggetto dall’industria. Essa attua lo schematismo come primo servizio del cliente. Nell’anima era all’opera, secondo Kant, un meccanismo segreto che preparava già i dati immediati in modo che si adattassero al sistema della pura ragione. Oggi l’enigma è svelato. Anche se la pianificazione del meccanismo da parte di coloro che allestiscono i dati, l’industria cultura, è imposta a questa dal peso stesso di una società — nonostante ogni razionalizzazione — irrazionale, questa fatale tendenza si trasforma, passando attraverso le agenzie dell’industria, nell’intenzionalità scaltrita che è propria di quest’ultima. Per il consumatore non c’è più nulla da classificare che non sia già stato anticipato nello schematismo della produzione. La prosaica arte per il popolo realizza quell’idealismo fantastico che andava troppo in là per quello critico. Tutto viene dalla coscienza: da quella di Dio in Malebranche e in Berkeley; nell’arte di massa da quella della direzione terrena della produzione. Non solo i tipi di ballabili, divi, soap-operas, ritornano ciclicamente come entità invariabili, ma il contenuto particolare dello spettacolo, ciò che apparentemente muta, è a sua volta dedotto da quelli. I particolari diventano fungibili. La breve successione di intervalli che si è rivelata efficace in un motivo, il fiasco temporaneo dell’eroe, che egli accetta sportivamente, le botte salutari che la bella riceve dalle robuste mani del divo, i suoi modi rudi con l’ereditiera viziata, sono, come tutti i particolari, clichés bell’e fatti, da impiegare a piacere qua e là, e interamente definiti ogni volta dallo scopo che assolvono nello schema. Confermare quest’ultimo, mentre lo compongono, è tutta la loro realtà. Si può sempre capire subito, in un film, come andrà a finire, chi sarà ricompensato, punito o dimenticato; per non parlare della musica leggera, dove l’orecchio preparato può, fin dalle prime battute del motivo, indovinare la continuazione, e sentirsi felice quando arriva. Il numero medio di parole della short story è quello e non si può toccare. Anche i gags, gli effetti e le battute sono calcolati come la loro impalcatura. Essi vengono amministrati da esperti speciali, e la loro scarsa varietà si lascia ripartire di massima in ufficio. L’industria culturale si è sviluppata col primato dell’effetto, dell’exploit tangibile, del particolare tecnico, sull’opera, che una volta portava l’idea e che è stata liquidata con essa. 134-135
I prodotti dell’industria culturale possono contare di essere consumati alacremente anche in stato di distrazione. Ma ciascuno di essi è un modello del gigantesco meccanismo economico che tiene tutti sotto pressione fin dall’inizio, nel lavoro e nel riposo che gli assomiglia. Da ogni film sonoro, da ogni trasmissione radio, si può desumere ciò che non si potrebbe ascrivere ad effetto di ciascuno di essi singolarmente, ma solo di tutti insieme nella società. Immancabilmente ogni singola manifestazione dell’industria culturale riproduce gli uomini come ciò che li ha già resi l’industria culturale intera. E a che il processo della riproduzione semplice dello spirito non conduca a quella allargata, vegliano tutti i suoi agenti, dal produttore fino alle associazioni femminili.» 137
Horkheimer Max, Adorno Theodor Wiesengrund (1947), Dialettica dell’Illuminismo. (sez. L’industria culturale. Illuminismo come mistificazione di massa), Einaudi, Torino 1966

3. metodi e modelli della sociologia (logica delle scienze sociali)

Avvertenza preliminare: sono modelli che si presentano in successione cronologica e suggeriscono l’idea del superamento interno, abbandono e alternanza; in realtà i modelli che precedono vengono assorbiti e riposizionati (quindi ridefiniti e corretti ma anche riproposti) nei modelli di volta in volta formulati successivamente; i modelli definiti “superati” non sono annullati in assoluto, la loro validità e utilità sono collocate in ambiti specifici.

3.1 Comte: spiegare; progetto per una fisica sociale
«Il principio fondamentale della sana filosofia consiste necessariamente nell’assoggettamento continuo di tutti i fenomeni, quali che siano, inorganici o organici, fisici o morali, individuali o sociali, a leggi rigorosamente invariabili, senza le quali, essendo ogni previsione razionale evidentemente impossibile, la scienza reale resterebbe limitata a sterile erudizione.» Con questa perentoria affermazione di fiducia in un’enciclopedia delle scienze e in un metodo che fornisca le basi per spiegare e prevedere, mediante leggi rigorose, tutti i fenomeni reali, da quelli naturali a quelli sociali, Auguste Comte (1798-1837) riassume il progetto dell’intera sua opera. In particolare: Comte e i “positivisti” collocano la sociologia al vertice del nuovo sistema scientifico dell’epoca industriale come scienza dalla metodologia complessa in risposta/ricognizione e premessa per la gestione della società complessa. La ricerca dello statuto scientifico della sociologia è all’insegna di una “sindrome di dipendenza” dai modelli delle scienze formali e delle scienze naturali: la sociologia supera ma comprende le scienze precedenti (matematica, astronomia, fisica, chimica, biologia); tende a definirsi come una “fisica sociale”. La diversa natura dell’oggetto indagato attribuisce a ogni disciplina una propria specificità metodologica; ma la crescente complessità dei settori di indagine porta Comte a disporre le varie scienze in un ordine enciclopedico «a incastro»: esso muove dalle più semplici, che seguono un metodo analitico, e procede fino alle più complesse, che adottano un modello di spiegazione di tipo sintetico. Al vertice di questa nuova enciclopedia dei saperi si pone appunto la sociologia, la scienza più complessa per l’oggetto e per il metodo; in essa convergono, come nella loro naturale sede applicativa, le competenze dei saperi precedenti. Spetta ora alla sociologia abbandonare gli incerti postulati a priori dello stadio metafisico per fare proprio il metodo rigoroso che contraddistingue lo stadio positivo e le consentirà di qualificarsi come scienza. Occorre dare alle leggi che regolano la società quel rigore scientifico che ha finora contrassegnato le scienze naturali; è a tale proposito che Comte parla dell’esigenza di disporre di una «fisica sociale». Anzi, proprio nella sociologia il metodo scientifico positivo assume un rilievo centrale e acquisisce una definizione precisa e completa, rientra in contatto con la società assumendo l’obiettivo di progresso e ordine a proprio scopo.

3.2 Weber: comprendere; la specificità delle scienze sociali
Per i primi 20 anni del ‘900, si teorizza una distinzione netta (divario inconciliabile) tra scienze della natura e scienze dello spirito (scienze-sociali, scienze-umane) (o lo “scatto d’orgoglio” dello storicismo soprattutto ad opera di Dilthey, Windelband, Rickert). Si tratta di scienze
tra loro distinte per l’oggetto e per il metodo
Naturwissenschaften ciò che è universale spiegare
Geisteswissenschaften ciò che è individuale comprendere
3.2.1 Max Weber (Il metodo delle scienze storico-sociali) richiama la differenza tra l’oggetto di studio delle scienze naturali: le regolarità dell’universo, alle quali ricondurre l’esperienza; e l’oggetto di studio delle scienze sociali: l’individualità, di cui va affermata sia l’irriducibile singolarità (l’individuale storico), sia l’esigenza di una comprensione condivisibile, se l’obiettivo è una conoscenza scientifica (la regolarità dell’agire sociale).
3.2.2 L’individuo storico è il risultato di una scelta individualizzante dettata dalla prospettiva (famiglia, cittadino, individuo, nazione, associazione…) la scoperta di regolarità e la comprensione di ciò che è individuale si ottengono attraverso una convergenza di connessioni causali.
3.2.3 Quindi, a presupposti trascendentali di metodo delle scienze storico sociali si collocano:
- il concetto di valore, inteso in senso formale come garanzia di libertà e di possibilità di scelta (cioè se si rinuncia a filosofie della storia teorizzanti linearità monodirezionali e a pretese di emettere giudizi di valore, da prospettive assolute [astoriche] sulla storia) «Presupposto trascendentale di ogni scienza della cultura non è già che noi riteniamo fornita di valore una determinata, o anche in genere una qualsiasi “cultura”, ma che noi siamo esseri culturali, dotati della capacità e della volontà di assumere consapevolmente posizione nei confronti del mondo e di attribuirgli un senso».
- l’ipotesi di uno sviluppo possibile, aperto e imprevedibile
3.2.4 L’oggettività delle scienze storiche: in quanto scienze, le scienze storico-sociali devono giungere ad una determinazione oggettiva di rapporti, che può essere conseguita mediante il ricorso alla spiegazione causale; ma il significato e le condizioni di oggettività e di causalità nelle scienze storico sociali sono strettamente legate e coerenti con le condizioni interne alla metodologia delle scienze storico sociali: la storia (intesa come narrazione scientifica) deve indicare le coordinate di valore e i punti di vista che definiscono concetti e individuano fatti, permettono una spiegazione causale del proprio oggetto. Ma la causalità storica non è assoluta o deterministico (come si considerava essere quella naturale); si definisce come legame-relazione all’interno di prospettive e all’interno di tipologie (tipi ideali); è causalità pluridirezionale, circolare, reciproca, ascendente… Non pretende di spiegare, per la complessità dell’oggetto, mette in condizione di comprendere.
3.2.4.1. Mentre nelle scienze naturali la legge dei fenomeni è ottenuta studiandoli isolanti dagli impedimenti (“diffalcati gli impedimenti” Galilei) e astraendoli dal contesto fisico naturale quotidiano (esperimenti ideali, in laboratorio), nelle scienze sociali una simile astrazione annulla il fenomeno stesso, ne impedisce lo svolgimento e lo studio perché lo astrae dalle relazioni sociali che lo definiscono in modo essenziale; non è un caso che lo stesso Comte abbia presentato la sociologia come scienza complessa – pur parlando di fisica sociale. «Per quanto riguarda il metodo sperimentale, esso può essere utilizzato raramente dallo scienziato politico. Quest’ultimo, infatti, contrariamente allo scienziato naturale, non può assumere la vita politica come l’equivalente di un laboratorio, in cui si mantiene costante il maggiore numero di fattori intervenienti, così da ricostruire in modo lineare i nessi causali o di influenza della variabile indipendente sulla variabile dipendente. La vita politica è assai più complessa di un laboratorio sperimentale. E soprattutto è costituita da fattori che non si fanno isolare ed è strutturata da interazioni che non si fanno separare.» Fabbrini, Sergio 2008 Politica comparata, Laterza, Roma-Bari p.6-7. Pierre Bourdieu così illustra la specificità del metodo delle scienze storico sociali: «introdurre nelle scienze sociali il metodo strutturale o, più semplicemente, il modo di pensare relazionale che, rompendo con il modo di pensare sostanzialista, conduce a caratterizzare ogni elemento tramite le relazioni che lo uniscono agli altri in un sistema, dal quale deriva il suo senso e la sua funzione. […] lo schema e tutte le opposizioni, le equivalenze e le analogie che esso mostra in un colpo d’occhio valgono solo finché vengono considerati per ciò che sono: dei modelli logici che spiegano nel modo più coerente ed economico il maggior numero possibile di fatti osservati. E che questi diventano falsi e pericoloso non appena li si tratta come principi reali delle pratiche, il che equivale, inseparabilmente, a sopravvalutare la logica delle pratiche e a lasciarsene sfuggire il principio reale”.» Bourdieu, Pierre 1980 Il senso pratico, Armando, Roma 2005

3.3 Scuola di Francoforte: interpretare: teoria critica della società (visione critico-normativa)
3.3.1. il progetto. Nel 1930 il filosofo tedesco Max Horkheimer (1895-1973) assume la direzione dell’Istituto per la ricerca sociale fondato nei primi anni Venti da Felix Weil a Francoforte sul Meno e che verrà indicato con il nome “Scuola di Francoforte”. Nato con lo scopo di «comprendere il mondo e, attraverso tale comprensione, di cambiarlo», l’Istituto, presso il quale in origine lavoravano soltanto studiosi di formazione marxista, era sorto come centro di studi critici sulla società capitalistica e sui meccanismi che creano e sostengono i regimi autoritari. Sotto la direzione di Horkheimer l’Istituto si apre con decisione a contributi di studiosi di diversa formazione, accentua i propri interessi di ricerca sulla società, e in particolare sulle strutture che contraddistinguono le società a capitalismo avanzato, avvia una riflessione sui metodi delle scienze sociali. Studiosi diversi per formazione e per orientamento ideologico sono accomunati dall’avversione per ogni sistema chiuso e dogmatico, per una ragione che si limita a descrivere i meccanismi della società, giustificandone l’esistenza di fatto. Il ruolo che la ragione deve svolgere, a giudizio di questi studiosi, è invece di carattere critico-negativo: essa deve cogliere la natura storica dei modi con cui un sistema sociale si organizza, si conserva e si riproduce, deve individuare i limiti, le esclusioni, le contraddizioni che esso genera. Nelle loro analisi storiche e sociali gli studiosi della Scuola di Francoforte tendono dunque a delineare, ciascuno nel settore specifico di sua competenza, una «teoria critica della società»: Eclisse della ragione (1947) di Horkheimer, Dialettica dell’illuminismo (1949), scritta in collaborazione da Horkheimer e Adorno, Ragione e rivoluzione (1941) di Marcuse si presentano come bilancio dell’evoluzione filosofica del concetto di ragione e al tempo stesso come proposte per un rilancio del ruolo politico della ragione, in vista di una piena riappropriazione di sé e della libertà da parte dell’uomo
3.3.2. il metodo. Nella ridefinizione della razionalità posta alla base della loro teoria critica, gli studiosi della scuola di Francoforte riprendono alcune fondamentali categorie del pensiero di Hegel, Marx e Freud.
Gli studiosi della Scuola di Francoforte rilanciano la ragione nella sua essenza dialettica, anima del sistema di Hegel. Della dialettica sottolineano tuttavia la funzione critica e il movimento negativo che la sorregge; essi rimproverano infatti a Hegel di non aver colto la portata rivoluzionaria e critica del pensiero dialettico in quanto ha identificato la logica con l’ontologia (facendo coincidere, senza riserva alcuna, il pensiero con l’essere), la ragione con il sistema (immaginando una contraddizione produttiva che, per tesi e antitesi, approda di continuo a sintesi superiori). La prima caratteristica della ragione dialettica è invece la negazione: conoscere significa cogliere e definire ogni realtà nella sua determinazione storica, collocarla nel rapporto di alterità e di opposizione che ne definisce la precisa identità. La dialettica intesa come ragione negativa conserva al pensiero la potenza della contraddizione: il pensiero dialettico coglie infatti la natura condizionata e storica di ogni struttura sociale e delle leggi che ne caratterizzano l’ordine, diagnostica e denuncia le contraddizioni sociali e i processi di alienazione che impediscono all’uomo di realizzare nella società le proprie capacità e possibilità.
Richiamare la funzione storica (sul piano sia teorico sia pratico) della ragione dialettica è collegarsi alle tesi di Marx. Questo «ritorno a Marx», nel nuovo contesto politico del dopoguerra (che vede nel socialismo la sola forza in grado di realizzare una rigenerazione totale della società), significa al tempo stesso riprendere lo studio del marxismo e sottoporre ad una critica incisiva le sue degenerazioni storiche, in particolare le letture metafisiche e dogmatiche del marxismo da cui sono sorte sia «la resa socialdemocratica al capitalismo» sia la costruzione dei sistemi totalitari di tipo sovietico. La rivoluzione marxista, osserva Horkheimer, non promette soltanto il mutamento dei rapporti economici, ma prospetta la trasformazione totale dell’uomo, la «realizzazione della sua essenza». La teoria critica recupera la filosofia marxista come forza rivoluzionaria non solo sulla base del suo proposito di rovesciare i rapporti produttivi ma anche in nome del diritto dell’uomo alla libera espressione e al soddisfacimento dei propri bisogni.
Da Freud gli studiosi di Francoforte acquisiscono nuovi strumenti di lettura critica dei processi di alienazione sociale; grazie ad essi si fa più nitida la percezione della crescente capacità di organizzazione e di controllo esercitata in tutti i momenti della vita pubblica e privata da un sistema ad alta concentrazione tecnologica, come quello capitalistico attuale. Nel processo di industrializzazione della cultura (Industria culturale) e di automazione dell’informazione è facile vedere strumenti tanto potenti quanto occulti di educazione ad un modo di pensare comune che finisce per identificarsi con la ragione stessa. Sotto la spinta degli apparati di informazione e di comunicazione, un io collettivo si sostituisce progressivamente all’io individuale: gli uomini sono in tal modo indotti ad assumere comportamenti uniformi nei bisogni, la loro soddisfazione, i pensieri e i valori. L’indagine sui modi con i quali la cultura del «sistema» produce effetti massificanti (illustrati da Horkheimer e Adorno nel saggio Industria culturale e da Marcuse nell’opera L’uomo ad una dimensione) consente una nuova comprensione dei mezzi di cui dispone il sistema borghese per imporre come valori supremi il proprio ordine, le divisioni e le gerarchie che lo garantiscono, le contraddizioni di cui si alimenta, la sua capacità di trasformare le forme di repressione in «autorepressione dell’individuo represso». Negli studi di Fromm e di Marcuse, in particolare, le categorie della psicoanalisi si presentano come lo strumento con cui la teoria critica decodifica il condizionamento autoritario esercitato dalle strutture sociali e intende restituire all’individuo il libero uso delle proprie capacità.
L’analisi che la teoria critica consente di condurre sulla società contemporanea, caratterizzata da un capitalismo avanzato e da processi di concentrazione produttiva e di controllo di tutti i settori della vita sociale, mette in luce come i valori propri della filosofia borghese, incentrati sull’esaltazione dell’individuo, possano spingere gli uomini ad affermare se stessi nella conformistica assunzione di ruoli sociali predeterminati e automatizzati annullando ogni capacità di dissenso. Il progetto originario di riprendere l’analisi marxista dell’economia capitalistica e di ripensare il ruolo del proletariato come forza storica di rivoluzione e di liberazione, diventa, per gli studiosi di Francoforte, analisi critica delle possibilità storiche della classe operaia: nelle società a capitalismo avanzato è in atto un processo di integrazione del proletariato nel sistema capitalistico che inesorabilmente affievolisce la forza rivoluzionaria che Marx gli attribuiva; le organizzazioni operaie garantiscono una relativa stabilità di diritti economici e politici alla classe lavoratrice, trasformandola in un ceto socialmente e politicamente stabile; il modello di consumo delle attuali società industriali fornisce condizioni materiali di vita che spingono il lavoratore a difenderne e consolidarne l’ordinamento invece che a rivoluzionarlo.
L’atteggiamento critico può trovare ora una nuova base storica in quegli strati sociali i cui componenti (disoccupati, emarginati, popolazioni diseredate del terzo mondo) sono condannati alla totale disperazione dai meccanismi della società avanzata; la teoria critica dovrà allora mirare alla rielaborazione di una nuova dimensione dei diritti umani: la liberazione dell’individuo non si attua tanto nel lavoro e nella produzione, ma nella proclamazione del diritto alla felicità.

«La classificazione dei fatti in sistemi concettuali bell’e pronti e la loro revisione effettuata semplificando o eliminando contraddizioni costituisce, come abbiamo detto, una parte della pratica sociale generale. Essendo la società divisa in gruppi e classi, si comprende che, a seconda della loro appartenenza a uno di essi, le formazioni teoriche abbiano anche una diversa relazione con questa pratica generale.»
Horkheimer, Max, Teoria tradizionale e teoria critica, Einaudi, Torino 1974, p. 150

«Oggi, il modo di pensare dialettico è estraneo all’intero nostro universo di termini e azioni. Esso sembra appartenere al passato ed essere respinto dalle conquiste della civiltà tecnica. La realtà di fatto sembra abbastanza promettente e produttiva per respingere o assorbire in sé ogni alternativa. L’accettazione, e anche l’affermazione, di tale realtà appare pertanto come l’unico principio metodologico ragionevole. Inoltre, un tale atteggiamento non impedisce né la critica né il mutamento: al contrario, l’insistenza sul carattere dinamico dello status quo e sulle sue perenni « rivoluzioni » costituisce uno tra i suoi più validi sostegni. Una tale dinamica, tuttavia, sembra operare perennemente entro lo stesso schema di vita: rendere più facile il dominio sull’uomo da parte dell’uomo e dei prodotti del suo lavoro, anziché abolirlo. Il progresso diviene quantitativo e tende a rimandare all’infinito il passaggio dalla quantità alla qualità, cioè l’affermazione di nuovi modi di esistenza con nuove forme di ragione e di libertà.» p. 12
«Il pensiero dialettico ha inizio con la constatazione che il mondo non è libero; cioè che l’uomo e la natura esistono in condizioni di alienazione, “diversi da ciò che sono”. Ogni modo di pensiero che esclude la contraddizione dalla sua logica è una logica difettosa. Il pensiero “corrisponde” alla realtà solo se trasforma la realtà stessa comprendendone la sua struttura contraddittoria. Qui il principio della dialettica, porta il pensiero al di là dei confini della filosofia. Comprendere la realtà, infatti, significa comprendere ciò che le cose sono, e ciò, a sua volta, comporta la non accettazione della loro apparenza come dati di fatto. La non accettazione, la rivolta, costituisce il processo del pensiero così come dell’azione. Mentre il metodo scientifico conduce dall’immediata esperienza delle cose alla loro struttura logico-matematica, il pensiero filosofico conduce dall’immediata esperienza dell’esistenza alla sua struttura storica: il principio della libertà.» p. 13-14
Marcuse, Herbert (1941), Ragione e rivoluzione, il Mulino, Bologna 1976

3.4 Luhmann - Goffman: descrivere: fenomenologia sociologica (o visione critico-descrittiva)
3.4.1. il metodo. «… “illuminismo sociologico”: Significa che la sociologia si appropria della funzione di rischiarare, di far vedere cosa c’è effettivamente al di sotto delle premesse dell’illuminismo, che la sociologia ridescrive ciò che era stato descritto in virtù dell’oscuramento di ciò che realmente quelle premesse nascondono, schermano e comunque invisibilizzano. Significa che la sociologia elabora una teoria della società moderna per la società moderna. Una teoria che descriva i modi attraverso i quali questa società si produce, si differenzia, evolve a partire da se stessa. Significa che la sociologia rinunzia a quelle premesse che nella società moderna sono diventate ormai vincoli metafisici, al monopolio della ragione del vecchio illuminismo, all’idea che si possano isolare regolarità sociali, principi universali dell’agire, eventualmente di natura morale; all’idea che l’uomo o il soggetto, vecchie costruzioni trascendentali, abbiano a che fare con l’empiricità dei singoli: ciò che si chiama soggetto, diceva Luhmann, più che con le categorie ha a che fare con una tessera di identità e oggi forse, ancor più, con un permesso di soggiorno.
Prendere l’uomo sul serio, allora, significa escludere che si possa descrivere la società come un tutto costituito da parti e pensare che queste parti siano i singoli o le loro sublimazioni, si chiamino soggettività o razionalità. O pensare che si possano costruire prospettive «migliori» per la società sulla base di progetti, accordi razionali e condivisi, capaci di dare fondamenti razionali a valori o principi, cioè alle preferenze, ai paradossi, alle distinzioni presentate come unità.
Là dove il pensiero della vecchia Europa ricercava o collocava fondamenti e valori, certezze e stabilità, accordi e contratti sociali, un’osservazione priva di pregiudizi ontologici o metafisici vede che tutto potrebbe essere diverso da come è e che il singolo, l’uomo empirico, non può muovere un dito per cambiare ciò che accade come accade. E questo non significa che i singoli o i sistemi sociali siano condannati all’impotenza o alla rassegnazione, come pensavano i critici di un tempo. Non è affatto vero che il mondo sia stato compreso o già interpretato. Disponiamo di descrizioni della società che sono adeguate ad altri livelli della differenziazione sociale. Dell’attuale forma della differenziazione sociale non disponiamo di descrizioni adeguate. Per formulare descrizioni cosiffatte è necessario riconoscere i limiti del potenziale di attenzione dei singoli, predisporsi al rischio che altre osservazioni permettano di descrivere ciò che non si riesce a vedere, che altre variazioni possano stabilizzarsi, che altre strutture possano affermare altri livelli d’ordine; tener conto della differenza di individui e società, riconoscere che la società si è differenziata dal suo ambiente e che è un sistema universale, unico, insomma che abbiamo un’unica società e che questa società può essere descritta solo come società del mondo. Che questa società evolve a partire da sé, che non si lascia orientare dall’esterno di sé, perché all’esterno della società non c’è società e la società si irrita solo da sé, cioè reagisce solo alle rappresentazioni dell’ambiente che essa costruisce all’interno di se stessa. Alle teorie della storia, allora, si sostituisce la teoria dell’evoluzione, la quale permette di osservare come ciò che appare come improbabilità evolutiva si renda poi possibile da sé. I progetti, compresi quelli raccolti nelle filosofie della storia e le stesse filosofie della storia che li costruiscono, sono solo brani di elaborazione della complessità che incrementano la complessità in quanto introducono variabilità e si assoggettano essi stessi all’evoluzione della società. Sotto la logica dei fondamenti si scopre, allora, il paradosso e si può osservare come la società occulti il paradosso per rendersi possibile il suo operare.» (p. XII-XVI)
dalla Presentazione all’edizione italiana a cura di Raffele De Giorni dell’opera di Luhmann
(Luhmann Niklas 2000 La fiducia, il Mulino, Bologna 2002)

3.4.2. il ruolo sociale. In questo contesto sociologico («Il problema di riferimento: la complessità sociale»), un ruolo indispensabile è svolto dalla “fiducia”; dalla “teoria della fiducia”.
«La fiducia — intesa nel senso più ampio di fare affidamento sulle aspettative proprie — è una situazione elementare della vita sociale. Non v’è dubbio che esistano molte situazioni in cui l’individuo deve scegliere se accordare o meno la propria fiducia in determinate circostanze. Ma senza fiducia egli non potrebbe neppure alzarsi dal letto ogni mattina. Verrebbe assalito da una paura indeterminata e da un panico paralizzante. Non sarebbe neppure in grado di formulare chiaramente una determinata sfiducia e renderla fondamento di iniziative difensive, poiché questo vorrebbe dire che egli ha fiducia sotto altri aspetti. Tutto sarebbe possibile. Nessun individuo è in grado di sopportare un confronto così diretto con l’estrema complessità del mondo.
Questo punto di partenza può essere accettato alla stregua di un fatto incontestabile, come «natura» del mondo, o dell’individuo, ed esprime perciò qualcosa di vero. Ogni giorno noi abbiamo fiducia in questa cosa di per sé ovvia. Per la vita di tutti i giorni, la fiducia, intesa in questo senso fondante, è una componente del suo orizzonte, un elemento essenziale del mondo, ma non costituisce il tema intenzionale (e perciò stesso variabile) dell’esperienza interiore.
Possiamo anche considerare la necessità della fiducia come un fondamento autentico e certo per la derivazione di regole per un comportamento corretto. Se le uniche alternative alla fiducia sono il caos e la paura paralizzante, l’inevitabile conseguenza è che l’uomo, assecondando la propria natura, debba accordare fiducia, seppure non alla cieca e non in ogni circostanza. Si acquisiscono in questo modo massime etiche o principi giusnaturalistici — principi che contengono l’ammissione del loro contrario, e la cui utilità è quindi dubbia. (Luhmann, o.c. p.5)
[passaggi in sintesi
- la fiducia è una situazione elementare della società (e della persona)
- indispensabile per gestire un confronto con la complessità del mondo
- va dunque intesa in senso fondante, anche se non costituisce il tema intenzionale dell’azione e della relazione
Il metodo: definito “ricerca funzionale”
- rifiuto del principio della sostanza
- prospettiva euristica, né deduttiva, né induttiva
- comportamento e identità intesi non come nocciolo centrale o come invarianza, ma come relazione tra grandezze variabili, fra sistema e ambiente
- l’«essenza» si definisce attraverso le condizioni della sua sostituibilità
- il suo potenziale di complessità sembra essere illimitato
- abbatti la tradizionale distinzione/contrapposizione tra struttura e processo (veste storica della opposizione rigidità e flusso e binomi assimilati)
- «partendo dal riconoscimento di una crescente complessità sociale l’individuo può e deve dimostrare forme più efficaci di riduzione della complessità» (Luhmann, o.c. p. 10).]

3.4.3. la gestione, fedele (non in fuga) alla complessità del presente: «la fiducia come riduzione della complessità».
La tesi. «… la fiducia rivela, mediante la riduzione della complessità, possibilità di azione che sarebbero rimaste impensabili e prive di attrattive senza l’apporto della fiducia stessa, che, in altre parole, non sarebbero state perseguite.» (Luhmann, o.c. p.37) «In realtà tutti i processi interni — ed è proprio qui che va ricercato il significato della differenza fra «interno» e «estero» — operano ad un livello inferiore di complessità e presentano di conseguenza minori possibilità, e quindi più ordine rispetto all’ambiente. Essi funzionano in modo selettivo, in quanto fanno proprie le relazioni fra dati nel mondo e le elaborano come informazioni relative al sistema. Così facendo, sostituiscono l’ordinamento interno dell’elaborazione dei dati all’originaria complessità amorfa dell’ambiente, e i problemi legati a tale ordine interno si inseriscono nel sistema come normali basi di lavoro per il suo adattamento all’ambiente.
Nel caso della fiducia questa riduzione della complessità assume forme particolari a causa della sua natura soggettiva Queste forme possono essere descritte in termini di trasformazione del livello in cui l’insicurezza viene assorbita, o resa intollerabile. Il sistema sostituisce la certezza esterna con una certezza interna, e in questo modo accresce la sua tolleranza nei confronti dell’incertezza nelle relazioni esterne. La modalità della riduzione della complessità in relazione all’ambiente diventa in questo modo parte dei problemi secondari di questa certezza interna.» (Luhmann, o.c. p. 39) «I sistemi sociali differenziati e mobili fissano in questi casi standard elevati, che possono essere soddisfatti solo nel caso in cui possa essere appresa non solo la fiducia ma anche il modo di apprenderla — ciò che costituisce una parte della funzione socializzante della famiglia. E non sarebbe neppure sbagliato sostenere che anche i sistemi sociali devono apprendere la fiducia.» (ivi. p. 41) «…il problema della fiducia è legato ad una riduzione della complessità, e in modo ancor più specifico, di quella complessità che entra nel mondo in virtù della libertà degli altri individui. La fiducia ha quindi la funzione di comprendere e ridurre questa complessità.» (ivi. p. 45)

3.4.4. il fondamento del metodo nella realtà (le radici reali dell’atteggiamento fenomenologico)
[la base reale, fisica, che impone di procedere con un metodo fenomenologico, descrittivo, è la sovrabbondanza di informazioni che il mondo può inviare, decisamente superiore a qualsiasi sistema strutturato per afferrare, gestire e ordinare secondo trame quelle informazioni. Come per Newton (nelle Regulae philosophandi) è la realtà che giustifica e impone le regole di metodo e di sistema, così qui il metodo fenomenologico della sociologia deriva dalla natura del sociale reale: la sovrabbondanza di dati. È forse questa stessa convinzione che sta alla base del modo con cui Goffman si avvicina al sociale e ne imposta l’osservazione e la descrizione.]
«Il mondo oggettivo resta comunque più complesso di qualsiasi sistema: esso comprende più possibilità di quelle che sono previste dal sistema e che lo stesso può realizzare. In questo senso il sistema fa mostra di un livello di ordine più alto (minori possibilità, meno varietà). Questo squilibrio nell’ordine, come abbiamo già avuto modo di spiegare, viene compensato per mezzo dello sviluppo, da parte del sistema, di un’immagine «soggettiva» del mondo, ciò che significa che il sistema interpreta il mondo in modo selettivo, fornendo più informazioni di quante sia in possesso e riducendo la complessità estrema del mondo ad un’estensione rispetto alla quale esso può orientarsi in modo significativo, e strutturando in tal modo le possibilità della propria esperienza e del proprio comportamento. La riduzione può avere luogo in virtù di un accordo intersoggettivo, e portare quindi a forme di conoscenza che sono garantite dal punto di vista sociale e che perciò vengono vissute come «vere». (Luhmann, o.c. p. 49)
Dal momento che ogni tipo di comunicazione, e persino ogni forma percepibile di comportamento, rivela qualcosa sulla persona che si sta comportando in quel certo modo, la comunicazione — anche il semplice essere visti dagli altri — si rivela un’iniziativa a rischio che richiede una qualche forma di protezione. Attraverso il suo comportamento il singolo offre sempre di sé una quantità di informazioni maggiori di quelle che può conciliare con il proprio Io ideale e che è disposto a comunicare di sua volontà.» (Luhmann, o.c. p. 60)

Secondo Erving Goffman la relazione sociale ha un ruolo ancor più essenziale, egli «non afferma semplicemente che l’identità è fortemente influenzata dai rapporti sociali con gli “altri significativi”. Sostiene qualcosa di molto più radicale: il self è creato mediante il rituale virtualmente dal niente. I rituali dell’interazione non delimitano un’arena in cui identità pre-esistenti giostrano tra loro cercando di definire se stesse e la situazione, ma sono piuttosto gli strumenti con cui queste identità sono costruite localmente.» (Bourdieu Pierre 1980 Il senso pratico, Armando, Roma 2005). In opere come La vita quotidiana come rappresentazione (ed. il Mulino, Bologna 1969), e Relazioni in pubblico, (Raffaello Corina Editore, Milano 2008) Erving Goffman adotta e realizza un metodo da “fenomenologia descrittiva” ed insieme “critica” rivolto al mondo quotidiano delle relazioni sociali.

4. linee di macroeconomia: tra autonomia del mercato e programmazione economica
Una premessa-problema
« Il dibattito sulla globalizzazione economica si intreccia con quello sui valori e la teoria economica. Un quarto di secolo fa, entrarono in competizione tre grandi scuole di pensiero in ambito economico: il capitalismo nel libero mercato, il comunismo e l’economia di mercato gestita. Con la caduta del muro di Berlino nel 1989, tuttavia, le tre scuole si ridussero a due e oggi resta aperto il dibattito tra chi sostiene l’ideologia del libero mercato e chi invece attribuisce un ruolo importante sia allo Stato sia al settore privato. Naturalmente, queste posizioni sono in parte sovrapponibili. Persino i fautori del libero mercato riconoscono che uno dei problemi dell’Africa è la debolezza dei governi e anche chi è critico nei confronti del capitalismo senza treni non manca di riconoscere l’importanza del mercato. p. 18-19 I mercati poco sviluppati sono caratterizzati da monopoli e oligopoli; i prezzi elevati in un settore vitale come quello delle telecomunicazioni ostacolano lo sviluppo, quindi i governi devono avere politiche ben chiare che garantiscano le libera concorrenza.» 30
Joseph E. Stiglitz 2006 La globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino 2006

4.1 Smith: la “mano invisibile” e l’armonia del libero mercato (?)
4.1.1. le tesi e la lettura tradizionale: “vizi privati = pubbliche virtù”, l’egoismo e la sua incontrollata libertà, vizio per l’etica, diventa per l’economia condizione di massima produttività e benessere e si trasforma quindi automaticamente e autonomamente in virtù, solo però nella situazione in cui sia universalmente esteso e non si leghi a condizioni di privilegio. Se per le sostanze (monadi) Leibniz parlava di “armonia prestabilita” per indicare il «perfetto accordo di tante sostanze che non comunicano affatto tra loro», compare qui la mano invisibile (e poi la lunga storia dell’astuzia della ragione suggerita da Hegel e il tema delle “conseguenze non volute” espresso dalla letteratura etico-politica) che compone in sistema armonico le solitudini che si ignorano. L’individuo è, secondo Smith, «condotto da una mano invisibile a promuovere un fine che non entrava nelle sue intenzioni». Si avvia da qui la lunga tradizione del liberismo puro garanzia del massimo profitto e, di conseguenza, del massimo e generalizzato benessere, e se ne attribuisce l’origine a A. Smith.
3.1.2. le riserve nei confronti del liberismo indiscriminato si presentano puntualmente all’emergere di scompensi economici ricorrenti; a partire da quelli, retrospettivamente, si riprendono le tesi di Smith con maggior completezza e coerenza e si scopre come egli attenui la presunta bontà, efficacia e autonomia dell’egoismo e del libero mercato. Amartya Sen 1999 Lo sviluppo è libertà, A.Mondadori, Milano 2003) richiama un noto passo di Smith ne corregge l’unilaterale interpretazione. «Quella che egli considera è la possibilità che una ricerca del guadagno privato, spinta da motivazioni miopi, produca una perdita sociale. È l’esatto opposto della sua osservazione, molto più famosa, secondo la quale “non è dalla benevolenza del macellaio, del birraio o del fornaio che ci aspettiamo il nostro desinare, ma dalla considerazione del loro interesse personale. Non ci rivolgiamo alla loro umanità, ma la loro egoismo”» (130) «…nessun altro autore (nemmeno Karl Marx) critica in modo così duro l’atteggiamento delle persone economicamente agiate nei confronti degli interessi dei poveri. Nella Teoria dei sentimenti morali, pubblicati nel 1759 (cioè diciassette anni prima della Ricchezza delle nazioni), Smith afferma che molti ricchi si curano, per il loro “naturale egoismo” e la loro “naturale rapacità”, solo di soddisfare i propri “vani e insaziabili desideri”. Ciononostante, in molti casi può accadere che altri individui traggano beneficio dalle loro azioni perché gli atti di persone diverse possono completarsi in modo produttivo. Smith non dà ai ricchi il merito di fare consapevolmente del bene ad altre persone; in lui l’idea di conseguenza non voluta coesiste con uno scetticismo ininterrotto nei confronti dei ricchi. Secondo Smith, gli egoisti e i rapaci sono condotti «da una mano invisibile» a «far progredire l’interesse della società», e a ciò giungono «senza saperlo, senza volerlo». Da queste parole è nata — con un po’ di aiuto da parte di Menger e Hayek — la «teoria delle conseguenze non volute». È nello stesso contesto generale che Smith delinea anche la sua analisi spesso ricordata dei benefici dello scambio economico nella Ricchezza delle nazioni». (p. 255) Ma: «Una conseguenza non voluta non è necessariamente imprevedibile, e da ciò dipendono molte cose; anzi, la stessa fiducia di tutte le parti in causa nella stabilità di queste relazioni di mercato dipende in modo specifico dal fatto che siano o formulate o implicitamente presupposte previsioni di questo tipo. Se viene intesa così (ossia come previsione di conseguenze importanti ma non intenzionali), l’idea di conseguenza non voluta non si contrappone in alcun modo alla possibilità di riforme razionali; anzi, è vero il contrario. Il ragionamento economico e sociale è senz’altro in grado di tener conto di conseguenze che possono essere inintenzionali ma derivano ciononostante da determinati assetti istituzionali, e gli argomenti pro e contro un particolare assetto possono essere meglio valutati prendendo nota della probabilità di una serie di conseguenze non volute.» (p.257) Ironicamente Stglitz E. Joseph [2006 La globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino 2006, p. XIV], criticando il cosiddetto «fondamentalismo del mercato» secondo cui i mercati, da soli, sarebbero in grado di condurre all’efficienza economica in forza di un automatismo spontaneo, osserva: «la ragione per cui la mano è invisibile è perché non c’è; … in mancanza di una regolamentazione e di un intervento pubblico adeguato, i mercati non sono assolutamente in grado di condurre all’efficienza economica; lo sviluppo richiede lungimiranza di pensiero e programmazione».

4.2 spunti per un neoliberismo (Keynes, Sraffa, Caffè …)
4.2.1 le linee: denunciato il meccanismo perverso del «profitto come mezzo per accumulare il capitale e non il capitale come mezzo per consumare il profitto» (Keynes), la nuova linea dello Stato programmatore in funzione degli interessi generali del sistema, sostenendo la domanda dei consumatori, difendendo e dilatando l’occupazione (Welfare State)
4.2.2 il metodo: i fattori del sistema in circolarità; dalla circolarità non gerarchizzabile l’autonomia del sistema. Circolarità 1. Considerare la produzione come un processo circolare in cui lo stesso tipo di merci appare sia tra i mezzi di produzione che tra i prodotti, anziché come un processo che comincia con “fattori della produzione” e finisce con beni di consumo. (Sraffa) Circolarità 2. Considerare l’economia e i suoi fattori come elementi in un sistema sociale, non astratti dalla sede sociale e politica in cui operano.
4.2.3 il contesto generale, etico-politico: «Esiste infine una, per certi versi sorprendente, analogia tra l’etica di Rawls e quella di colui che può forse essere considerato il suo maggiore antagonista nella filosofia politica anglo-americana, vale a dire il liberal-liberista, il libertario radicale, Robert Nozick. Per entrambi gli autori lo Stato deve essere un framework, una struttura entro la quale gli individui possono perseguire il soddisfacimento dei propri razionali piani di vita (Rawls) o la costruzione della propria personale utopia (Nozick). Lo Stato — e i principi di giustizia che esso, se legittimo, incorpora — funge da limite rispetto al perseguimento del bene di ciascuno. Le differenze di atteggiamento politico-filosofico tra i due autori determinano che il framework di Nozick sia ristretto e libertario, quello di Rawls più esteso, più pervasivo e preoccupato di fornire almeno le basi della comune felicità. Ma le somiglianze sono maggiori delle differenze, ove si introduca, quale terzo termine di paragone, l’utilitarismo, specie se in versioni edonistiche, che concepisce lo Stato come una macchina per massimizzare il benessere sociale, e mai come limite (in termini di giustizia) alla ricerca del benessere stesso. Tutte e tre queste dottrine, neocontrattualismo, libertarismo e utilitarismo, si ritrovano peraltro unite almeno su un principio normativo specifico, oggi nella pratica tanto spesso posto in discussione, quando non apertamente calpestato. «Il giusto pone dei limiti alla ricerca individuale del bene», sostengono neocontrattualisti e libertari; «il giusto si identifica con la ricerca individuale del bene», sostengono (alcuni) utilitaristi. Nessuno di loro sostiene che la giustizia debba prescrivere agli individui qual è il loro bene e come fare a raggiungerlo, nessuno tanto meno sostiene che si debbano in proposito imporre delle regole giuridiche coercitive. Tutte e tre le dottrine, se pur con diversa enfasi, sostengono cioè quello stesso principio normativo, antipaternalistico, che troviamo espresso, in modo incisivo e ancor oggi insuperato, in una splendida pagina di John Stuart Mill, La Libertà, 1859): «Gli atti di qualunque tipo che, senza una causa giustificata, danneggino altri possono, e nei casi più importanti devono assolutamente, essere repressi dai sentimenti ad essi sfavorevoli, e, quando sia necessario, mediante un’attiva interferenza degli altri uomini. La libertà dell’individuo non deve quindi oltrepassare questo limite; l’individuo non deve produrre danni agli altri. Ma se si astiene dal molestare gli altri in ciò che loro pertiene, e si limita ad agire secondo le proprie inclinazioni e il proprio giudizio in ciò che lo riguarda, le stesse ragioni che dimostrano che l’opinione deve essere libera provano anche che gli deve essere permesso, senza molestie, di mettere in pratica le proprie opinioni a proprie spese.» Viano, C.A. a cura di (1990), Teorie etiche contemporanee, Bollati Boringhieri, Torino, 126-127

4.3 Wallerstein: il “sistema mondo”
La tesi: esistenza di un unico sistema mondo, chiamato “economia-mondo capitalista” i cui confini temporali vanno dal sedicesimo secolo ai giorni nostri, quelli spaziali, a partire dall’Europa interessano l’intero globo. È “sistema” in quanto relativamente autonomo di fronte a forze esterne; è “storico” in quanto ha un inizio, uno sviluppo, un destino di estinzione … ha una sua propria dinamica che ne spiega il mutamento permanente nel tempo. Come sistema ha strutture e meccanismi ciclici, ripetitivi (qui molte teorie); come sistema storico: quelle strutture sono tendenze secolari (non leggi con parvenze o pretese deterministiche o di leggi “naturali”) del sistema.
Il suo modo di produzione è “capitalista” e si afferma poggiandosi su di una inesauribile (in teoria) accumulazione di capitale; ma si tratta di accumulazione “polarizzante”, basata su: divisione sociale assiale del lavoro, tensione centro – periferia, scambio ineguale, sovrastrutture politiche (stati sovrani ma condizionati dall’essere membri di una rete o un sistema interstatale). È sistema non unità: l’aspetto più interessante dei sistemi è che essi contengono profonde fratture, e quindi potenziali conflitti (contrasti [Smith], contraddizioni [Hegel]), che risultano: ineliminabili, ma ognuna limita gli effetti delle altre e così si delinea un sistema-mondo (elenco ipotetico delle principali fratture: razza, nazione, classe, etnicità, genere: analisi del loro ruolo nel definire la forma storica del sistema-mondo e la sua posizione in una struttura egemonica). Ne consegue che: «La “cultura”, cioè l’idea-sistema dell’economia-mondo capitalista è il prodotto storico dei nostri tentativi collettivi di venire a patti con le contraddizioni, le ambiguità e le complessità della realtà socio-politiche di questo specifico sistema». In questo contesto trova definizione il ruolo della “cultura” e delle teorie: «…misura in cui questo sistema storico ha acquisito consapevolezza di sé e ha incominciato a sviluppare cornici intellettuali e/o ideologiche che lo hanno giustificato e ne hanno favorito il movimento in avanti sostenendone in tal modo la riproduzione»…«le costruzioni della “cultura” non sono affatto neutrali».

4.3.1 il sistema mondo e le tre aree funzionali
La conoscenza ormai pressoché totale del mondo, a seguito delle scoperte geografiche dell’età moderna, si accompagna, fin dal 1600, alla costruzione (più o meno consapevole) di un sistema del mondo integrato a tre aree, ove le differenze (scoperte, indotte, conservate e rafforzate) vengono gestite in vista di una loro composizione funzionale.
sistema integrato delle differenze: le aree definizione per destino demografico definizione per ruolo economico definizione per modello politico
centro
(Europa nordoccidentale) modello demografico di transizione (AN-BN) produzione Stati nazionali centralizzati
semiperiferia
(Europa sud e centrorientale) (intermedio tra arcaico e in transizione) consumo Persistenza di gestioni feudali
periferia
(le aree della colonizzazione) modello demografico arcaico (AN-AM) materie prime (naturali e sociali) Dipendenze di carattere coloniale
Le tre posizioni strutturali di una economia-mondo, centro, periferia, semiperiferia, già stabilizzate verso il 1640 come parti integranti di una complessa divisione del lavoro su “scala mondiale”, diventano elementi di composizione e definizione del sistema anche su aree locali.

4.3.2 il sistema mondo e l’intreccio dinamico
L’unità d’analisi sistema-mondo come contesto di comprensione storica è ulteriormente definibile dall’intreccio interno di tre elementi:
elementi intreccio
mini-sistemi: sistemi per la loro fisionomia specifica; mini per il limite di durata ed estensione

imperi-mondo: grandi strutture politiche unitarie con varietà di modelli culturali interni
economia-mondo: grandi e irregolari (variabili) strutture integrate di produzione che attraversano l’intero globo assorbendo nel processo i mini-sistemi

4.3.3. il sistema mondo e le componenti sociali
La classe sociale è un concetto inscindibile dall’economia-mondo capitalista, che è stato creato nel contesto di essa, e che forse sarebbe più vantaggioso utilizzare come pertinente specificamente per questo tipo di sistema-mondo. L’analisi di classe perde il suo potere esplicativo se tende a modelli formali e si allontana dalla dinamica dialettica.
Pertanto, occorre in questa sede analizzare le classi come strutture in evoluzione e mutamento, dalla copertura ideologica sempre cangiante, per vedere se sia utile in uno specifico punto del tempo definire le appartenenze di classe in specifici termini concettuali. …prima di procedere con l’analisi della natura e delle attività delle classi sociali, e del processo di formazione delle classi, occorre fare un preambolo sul funzionamento di questo sistema-mondo, in quanto struttura in cui vanno a collocarsi le classi. L’economia-mondo capitalista è caratterizzata da tre elementi principali. Il primo elemento è la presenza di un mercato unico, nel quale si fanno i calcoli di massima profittabilità, e che quindi determina, nel lungo periodo, la quantità della produzione il grado di specializzazione e i tipi di remunerazione del lavoro, dei beni, e dei servizi, e l’utilità dell’innovazione tecnologica.
La seconda caratteristica cruciale è l’esistenza di uno serie di strutture statali, con diversi gradi di forza (sia all’interno dei loro confini, sia nel rapporto con le altre entità statali del sistema-mondo). Le strutture dello stato servono principalmente a «distorcere» il «libero» operare del mercato capitalista, per allargare gli orizzonti
di profitto di uno o più gruppi. Nel breve periodo, lo stato agisce sul mercato utilizzando la sua facoltà legislativa per condizionare le attività economiche interne o al di là dei confini. Nel lungo periodo, invece, agisce sul mercato, cercando di creare comportamenti istituzionali (dalla stabilità della valuta e delle reti commerciali, a propensioni d’acquisto, a barriere di conoscenza di alternative economiche), in modo da indurre «spontaneamente» alcune persone o gruppi a valutare erroneamente le attività economiche in grado di ottimizzare i loro profitti; un fraintendimento, questo, che consente allo stato di avvantaggiare i gruppi che desidera.
La terza fondamentale caratteristica dell’economia-mondo capitalista è che l’oppropriazione di surplus da lavoro si concretizza con la formazione, nel processo di sfruttamento, di tre, e non di due, classi. Ciò significa che esiste una classe media, che partecipa allo sfruttamento della classe più bassa, ma è anche sfruttata dalla classe più alta. Questa struttura a tre classi ha di fatto un effetto stabilizzante, laddove una struttura a due classi sarebbe essenzialmente distruttiva. Ciò non vuol dire che esistano sempre tre classi. Significa che quelli che stanno in alto cercano sempre di assicurare l’esistenza di tre classi per meglio preservare i loro privilegi, laddove, al contrario, quelli che stanno al livello più basso cercano di ridurre le tre classi a due, per meglio distruggere quegli stessi privilegi. Questa lotta sull’esistenza di una classe media va avanti di continuo, sia in termini politici sia in termini di costrutti ideologici di base (pluralisti versus manicheisti). Questa è la questione centrale si cui si concentra lo lotta di classe. (p. 346-347)
Wallerstein, Immanuel, Alla scoperta del sistema mondo, (saggio: La formazione della classe nell’economia-mondo capitalista), manifestolibri, Roma 2003, p.346-347

5. globalizzazione: bilanci, problemi, proposte

5.1 I molti aspetti.
«La globalizzazione abbraccia molti aspetti: il flusso internazionale di idee e conoscenze, la condivisione delle culture, una società civile globale e il movimento ambientale. Questo libro, tuttavia, si limita essenzialmente alla globalizzazione economica quella - cioè - che favorisce l’integrazione dei paesi attraverso una circolazione più capillare di beni, servizi, capitali e manodopera. La grande speranza della globalizzazione è quella di migliorare il tenore di vita in tutto il mondo garantendo ai paesi poveri l’accesso ai mercati internazionali affinché possano vendere i loro prodotti, consentire gli investimenti esteri che porteranno nuove merci a prezzi più bassi e aprire le frontiere affinché i cittadini possano andare all’estero per studiare, lavorare, spedire a casa parte dei loro guadagni per aiutare le famiglie e fondare nuove imprese.
A mio avviso, la globalizzazione ha le potenzialità per recare enormi vantaggi sia nei paesi in via di sviluppo sia in quelli industrializzati. Questo libro dimostrerà che il problema non riguarda tanto la globalizzazione in sé quanto il modo in cui e stata gestita. Il motore della globalizzazione è l’economia, specie attraverso la riduzione dei costi delle comunicazioni e dei trasporti, ma è la politica che l’ha plasmata. Le regole del gioco sono state fissate dai grandi paesi industrializzati in funzione dei loro interessi particolari e non c’è da stupirsi che abbiano badato al loro tornaconto. Non hanno cercato di creare modalità eque e condivise, e men che meno regole che favorissero la diffusione del benessere nei paesi più poveri del mondo. p.4
5.1.1. due volti della globalizzazione.
Nei primi anni Novanta, la globalizzazione fu salutata con euforia. I flussi di capitali verso i paesi in via di sviluppo erano sestuplicati in sei anni, dal 1991 al 1996. La costituzione, nel 1995, dell’Omc — a cui si lavorava da cinquant’anni — si proponeva di introdurre un principio di legalità nel commercio internazionale. Tutti dovevano trarne beneficio, sia nei paesi in via di sviluppo sia nel mondo industrializzato. La globalizzazione doveva garantire a tutti una prosperità senza precedenti.
Nessuno stupore, quindi, che la prima grande protesta moderna contro la globalizzazione — avvenuta a Seattle nel dicembre i 1999 in occasione di quello che avrebbe dovuto essere l’inizio di una nuova tornata di negoziati commerciali foriera di un’ulteriore liberalizzazione — abbia lasciato di stucco i sostenitori dei mercati aperti. La globalizzazione era riuscita nell’intento di unire le persone del mondo, ma proprio contro la globalizzazione. Gli operai delle fabbriche americane hanno visto mettere in pericolo i loro posti di lavoro dalla concorrenza cinese. Il reddito agricolo nei paesi in via di sviluppo è stato compromesso dal granturco e dalle altre colture fortemente sovvenzionate provenienti dagli Stati Uniti. In nome della globalizzazione, i cittadini europei hanno assistito a un progressivo indebolimento delle tutele dei lavoratori, per le quali tanto avevano combattuto. Gli attivisti anti-Aids hanno visto i nuovi accordi commerciali aumentare il prezzo dei medicinali a livelli insostenibili nella maggior parte dei paesi del mondo. Gli ambientalisti hanno capito che la globalizzazione minacciava la loro lotta decennale a tutela dell’ambiente. Tutte queste voci fuori dal coro non hanno sposato la tesi che, almeno dal punto di vista economico, la globalizzazione avrebbe portato maggiore benessere a tutti. p. 7 In breve, la globalizzazione può aver aiutato alcuni paesi – il Pil, cioè il totale dei beni e dei servizi prodotti può essere aumentato -, ma non ha fatto altrettanto per le persone, neppure dove i risultati dell’economia sono stati migliori che altrove. Il timore era che la globalizzazione possa creare paesi ricchi con gente povera. p. 8
5.1.2. Riformare la globalizzazione
Le cose da fare sono molte. Sei aree in cui la comunità internazionale ha preso atto che non tutto funziona illustrano sia i progressi compiuti sia la strada ancora da percorrere
1. La diffusione della povertà
2. Gli aiuti internazionali e la cancellazione del debito
3. L’aspirazione a un commercio equo
4. I limiti della liberalizzazione
5. La tutela dell’ambiente
6. Un sistema di governo globale pieno di difetti (pp. 13-19)
(su quest’ultimo tema:) Lo Stato-nazione, che per centocinquant’anni è stato al centro del potere politico (e in larga parte) economico si trova oggi mutilato, da una parte dalle forze dell’economia globale e dall’altra dalle esigenze politiche di devoluzione dei poteri. La globalizzazione — vale a dire la maggiore integrazione dei paesi del mondo — ha creato l’esigenza di un’azione collettiva da parte di popoli e paesi per risolvere i problemi comuni. Ci sono troppe questioni commercio, circolazione di capitali, ambiente — che possono essere affrontate solo a livello globale. Ma se da una parte lo Stato-nazione è indebolito, mancano ancora a livello internazionale degli organismi in grado di affrontare concretamente i problemi creati dalla globalizzazione.
Di fatto, la globalizzazione economica si è sviluppata più rapidamente di quella politica. Abbiamo un sistema caotico e scoordinato di governance globale senza governo globale che si riduce a una serie di istituzioni e accordi che trattano di determinati problemi, dal riscaldamento del pianeta al commercio internazionale, passando per i flussi di capitale. p. 21
Joseph E. Stiglitz 2006 La globalizzazione che funziona, Einaudi, Torino 2006

5.2 “un’altra globalizzazione”: la sfida delle migrazioni transnazionali
« Sotto la coltre dei grandi processi strutturali sospinti da attori eminenti, che vanno dalle organizzazioni economiche internazionali alle imprese multinazionali, dai grandi operatori finanziari ai governi dei paesi più sviluppati, stanno dunque prendendo forma fenomeni ufficialmente inattesi e indesiderati, e tuttavia in crescita, che possono essere definiti come «globalizzazione dal basso»: la globalizzazione delle persone comuni, delle famiglie e delle loro reti di relazione, che reagiscono ad una localizzazione imposta cercando altrove un futuro migliore.
Una diffusa vulgata che contrappone il radicamento forzato dei poveri alla mobilità globale dei privilegiati del pianeta trova qui un’importante smentita: malgrado le disuguaglianze nel diritto alla mobilità e le barriere erette dai paesi sviluppati, un numero sempre maggiore di abitanti del mondo (anche se non i più poveri in assoluto) si sposta attraverso i confini nazionali, scombussolando le corrispondenze tra territorio, popolazione e cittadinanza [Sassen 2008].
5.2.1. Certo, lo schema seducente dell’emigrazione come contestazione del nuovo ordine mondiale, come risposta dei diseredati alla globalizzazione prepotente degli interessi dominanti, è troppo semplice per poter essere interamente accettabile. I migranti non si limitano a rompere le catene della fissità geografica per cercare scampo nel mondo ricco, trasformandosi in «rifugiati economici». Arrivano anche perché sono richiesti dalle economie sviluppate, soprattutto per colmare i vuoti che si sono aperti negli ambiti più sacrificati di un sistema occupazionale molto segmentato e stratificato, ma in ogni caso incapace di abolire quelli che possono essere definiti i lavori delle cinque «P»: precari, pesanti, pericolosi, poco pagati, penalizzati socialmente [Ambrosini 2001; 2005a].
I mercati del lavoro, dunque, assorbono gli immigrati più facilmente dei sistemi politici. A volte, proprio il loro arrivo consente di trasformare esigenze diffuse in domanda di lavoro economicamente rilevante, come nel caso da manuale dell’assistenza delle persone anziane a domicilio. I loro legami con chi è rimasto alimentano poi altri flussi economici, intercettati e gestiti per una cospicua parte da istituzioni e operatori inseriti nei circuiti della globalizzazione dall’alto: basti pensare al gigantesco fenomeno delle rimesse, che consentono altresì ai governi di molti paesi di provenienza di rimettere in equilibrio la bilancia dei pagamenti e di chiedere prestiti ai grandi investitori mondiali, come il Fondo monetario internazionale.
5.2.2. Contrapporre globalizzazione dal basso e globalizzazione dall’alto è quindi affascinante, ma non del tutto veritiero. I fenomeni sono molto più interconnessi e ambivalenti. Anche per questa ragione, non riguardano solo i migranti, ma l’assetto complessivo della società in cui viviamo.
La globalizzazione dal basso non solo cambia la composizione demografica della popolazione, delle forze di lavoro come degli alunni delle scuole, ma ci obbliga a ridefinire il nostro sguardo, uscendo da quel “nazionalismo metodologico” [Beck 2003] che sovrappone implicitamente lo Stato nazionale alla società, “naturalizzando” confini, appartenenze e legami, plasmando le stesse scienze sociali, che definiscono la società con concetti legati allo Stato nazionale, e sollecitando a pensare l’integrazione come identificazione con esso. Lo Stato nazionale viene considerato così l’ovvio punto di partenza sia delle analisi, sia delle aspettative riferite ai rapporti tra migranti e cittadini «nazionali». Da questo punto di vista, le migrazioni internazionali appaiono come un’anomalia, un’eccezione problematica alla regola del radicamento degli abitanti nella terra a cui appartengono, ossia al loro Stato nazione [Wimmer e Glick Schiller 2003, 585]. A maggior ragione, i migranti che intrattengono legami transnazionali e identificazioni simboliche con i luoghi di provenienza rischiano di risultare sospetti e minacciosi, sotto l’accusa di “non volersi integrare” che sottintende l’imperativo di allinearsi con lo Stato nazionale che li ospita, recidendo i vincoli con la madrepatria.
5.2.3. I migranti come attori. Si impone «una riflessione critica su questo schema cognitivo, approfondendo le implicazioni della globalizzazione dal basso a partire da un punto di vista che considera i migranti come attori, e non semplicemente come vittime dei processi di globalizzazione, ed esplorando la dimensione dei legami che travalicano le frontiere politiche, coinvolgono i non migranti, influenzano le società di provenienza, contribuiscono a definire e riconfigurare l’identità dei migranti stessi.» p. 8-9
Ambrosini, Maurizio (2008) Un’altra globalizzazione. La sfida delle migrazioni transnazionali, il Mulino, Bologna
5.2.3.1. per il migrante: «Considerare gli immigrati come attori significa allora anche cercare di comprendere come riorganizzino il loro mondo sociale una volta insediati: come dunque la globalizzazione dal basso si prolunghi nella vita quotidiana, dando luogo a nuove esperienze culturali e costruzioni identitarie. Il migrante è ben più che un homo oeconomicus; quando il suo soggiorno si prolunga, sorge in lui il bisogno di ritrovare spazi di socialità e di produzione di significati, ridando senso al mondo in cui si ritrova.» (Ambrosini o.c. p. 45)
5.2.3.2. per il paese di provenienza: «La sua vita sociale, inoltre, non si trasferisce interamente nel paese di insediamento. Con intensità e forme diverse, molti migranti continuano a intrattenere rapporti con chi è rimasto nei luoghi di provenienza. …contrariamente alle preoccupazioni nazionaliste, i migranti che alimentano relazioni e attività che li connettono con i paesi di origine sono solitamente anche i meglio integrati nelle società riceventi. (ivi p. 10-11) … il transnazionalismo può essere definito come “il processo mediante il quale i migranti costruiscono campi sociali che legano insieme il paese d’origine e quello di insediamento” [Glick Schiller, Basch e Blanc-Szanton 1992]. L’attenzione rivolta alla partecipazione dei migranti ad attività collocate in paesi diversi e inquadrate come una forma controcorrente di globalizzazione ha indotto le medesime studiose, e vari altri al loro seguito, a teorizzare l’avvento di una nuova figura sociale, quella del «trasmigrante», caratterizzata dalla partecipazione simultanea ad entrambi i poli del movimento migratorio e dal frequente pendolarismo tra di essi.
Ragionare in termini di transnazionalismo significa dunque superare, o almeno fluidificare, le tradizionali categorie di «emigrante» e «immigrato», e cessare di concepire la migrazione come un processo che ha un luogo d’origine e un luogo di destinazione. In questa visione, i transmigranti sono coloro che costruiscono nuovi rapporti tra le due sponde delle migrazioni, mantenendo attraverso i confini un ampio arco di relazioni sociali.» (Ambrosini p. 45)
5.2.3.3. per il paese che “ospita”. L’Europa, e in particolare l’Italia, sta vivendo storicamente il passaggio verso identità di tipo multiculturale. È una strada tutta aperta.
« Dopo la seconda guerra mondiale e la presa di coscienza degli orrori del nazismo … , secondo Taguieff [1994; 1999], il razzismo ha assunto una nuova veste, prendendo a prestito una serie di argomenti dell’antirazzismo. Diventa infatti centrale l’idea della differenza culturale, e allo screditato termine «razza» si sostituisce quello di «etnia» o anche di «cultura». Taguieff parla dunque di «razzismo differenzialista». In questa chiave, le popolazioni immigrate insediate nelle società occidentali vengono così paventate soprattutto come una minaccia per l’identità culturale delle maggioranze autoctone. Come nota Beck, «ci si appiglia strategicamente ad un ipotetico essenzialismo della propria appartenenza etnica per ristabilire confini che stanno svanendo e mescolandosi, tra dentro e fuori, tra noi e loro» [Beck 2003, 11]. (Ambrosini o.c. p. 185)

5.3. le identità nella globalizzazione (per tornare sul tema)
5.3.1 globalizzazione non omologazione?
Gesti e consuetudini quotidiane portano all’affermazione «siamo tutti “global players”» (utilizzo della posta elettronica, navigare in Internet aderire alle proteste globali dei consumatori, prendere posizioni su fatti mondiali, utilizzare cucine diversificate ….) «In questi contesti la vita delle persone non è né disorganizzata né priva di senso. Al contrario: esse sono parte di un’intensa struttura sociale da cui nascono attività connesse le una alle altre, che includono l’intero globo. Abitano diverse sfere della vita sociale, che si incrociano nel loro momentaneo luogo di sosta, senza danneggiarsi a vicenda. […] Ciò che dal punto di vista dell’egemonia nazionale appare come declino e dissoluzione, nella prospettiva della società mondiale si rivela un cambio del sistema di riferimento: via dalle rappresentazioni di blocchi culturali integrati, monolitici, territorialmente vincolati (il “popolo”), verso rappresentazioni di una “cultura delle culture” come sistema di riferimento globale per una pluralità non amministrabile…» p. 111 Globalizzazione non è omologazione: «con l’affermarsi della consapevolezza della società mondiale non avviene un’unificazione sul piano linguistico, ma le lingue si moltiplicano. Il mondo unico conosce e riconosce più lingue che mai. […] Qui diventa chiaro che il cuore babilonese della società mondiale non batte nella tendenza all’uniformazione bensì al guazzabuglio delle identità»
(Beck Urlich 2003 La società cosmopolita, il Mulino, Bologna 2003 p.117)
5.3.2. complessità – moltiplicarsi delle possibilità.
«Inizio degli anni Ottanta. La costa dall’alto digradava a larghe terrazze sopra un mare che non si stancava mai di infrangersi contro l’indifferente barriera di pietra e si potevano vedere due o tre ragazzi che giocavano con un pallone sulla terrazza più bassa che si avventurava contro il mare dal fianco della roccia. Passò qualche minuto e arrivarono altri ragazzi con un altro pallone. Si unirono ai primi e giocarono insieme. Avevano due palloni. I ragazzi saranno stati in tutto sette o otto. Giocavano tutti insieme, ma con due palloni. Un unico gruppo. I tiri si incrociavano, si ignoravano, si collegavano, si sfioravano paralleli, opposti, laterali, centrali. Il rumore del mare sembrava mesto e uguale fino a non farsi più distinguere di fronte alla inesauribile vivacità che quei ragazzi comunicavano. Poco tempo ancora e sarebbero arrivati altri ragazzi con un altro pallone, si sarebbero uniti a tutti gli altri e avrebbero giocato tutti insieme con tre palloni. C’era un ordine che si produceva da sé; c’erano discussioni che ogni tiro successivo rendeva inutili o ignorava o interpretava; voci che cercavano di attirare l’attenzione di chi aveva il pallone in quel momento, ma i palloni erano sempre tre e i tiri erano simultanei e successivi insieme. Questione dell’osservatore. Mentre, che i tentativi fossero andati a vuoto o fossero stati opportunamente intesi, era questione che solo il tempo poteva affrontare, perché solo il futuro avrebbe potuto deciderla, ma il tempo del gioco era il presente e il presente non è un tempo che abbia il tempo di controllare o di correggere ciò che in futuro si fosse dimostrato «compreso» o «non compreso». Il tempo del gioco: un paradosso che aveva già annullato le differenze tra i ragazzi che solo il tempo, in realtà, aveva prodotto. Ora ciascuno, tirando il pallone, costruiva l’altro come compagno o avversario o semplicemente come altro, mentre ciascuno, ricevendo il pallone e tirandolo a sua volta, ricostruiva se stesso come compagno o avversario o come altro dell’altro e, allo stesso tempo, con il tiro costruiva l’altro ancora come compagno o avversario o semplicemente come altro.
La sociologia tradizionale, mi disse Luhmann, dimostra la sua impotenza già di fronte a un modo di produrre società elementare e semplice come questo: avrebbe bisogno di principi, di regole, di schemi dell’agire, di forme della razionalità; avrebbe bisogno di un arbitro, di un contratto sociale, ma soprattutto avrebbe bisogno di un unico pallone. Il suo riferimento sarebbe costituito da regole e violazione delle regole, valori, sanzioni, controllo: insomma da ciò che tutti riconoscono come una partita di calcio. Ai livelli elementari della produzione di senso la società opera come si può vedere osservando questo gruppo di ragazzi che interagiscono. Nuove possibilità si producono ad ogni evento, per il semplice fatto che qualcosa è accaduto. Qui, un semplice tiro. Ma ogni tiro effettuato è già una possibilità che si realizza tra altre che avrebbero potuto prodursi e che sono state escluse, e che restano tuttavia possibili, per il fatto che si è prodotto proprio quel tiro. Ad ogni evento segue un altro che ad esso si raccorda. E ogni volta, cioè sempre, tutto ciò che accade, accade simultaneamente. Come ci si può orientare? La complessità si produce per il semplice moltiplicarsi delle possibilità e questo stesso moltiplicarsi scaturisce dalla impossibilità di relazionare uno ad uno gli elementi della struttura che si costituisce con i singoli eventi che si producono, cioè si costituisce da sé. Una cosiffatta struttura non solo si produce da sé, ma si trasforma continuamente da sé. E poiché non sono prevedibili né calcolabili, i percorsi dall’autotrasformazione si sottraggono alla razionalità del progetto che, anzi, interviene come fattore ulteriore dell’incremento di variabilità: la società si rende instabile da sé, si sorprende, per così dire, da sé. Ma questa continua instabilità non può essere tollerata e scaturisce da ciò la necessità di elaborare strategie selettive che rendano possibile l’orientamento dell’azione.»
dalla Presentazione all’edizione italiana a cura di Raffele De Giorgi dell’opera di Luhmann
(Luhmann, Niklas (2000), La fiducia, il Mulino, Bologna 2002)
5.3.3. intolleranza xenofobica e i rischi di un’occasione mancata
Le nazioni europee, con intensità e in tempi diversificati, stanno vivendo storicamente una trasformazione sociale che mette in crisi il concetto classico di nazionalità legato all’unità di lingua, costumi, tradizioni e gestione politica: l’afflusso non programmato e “non programmabile”, nella propria area nazionale, di un numero elevato di uomini portatori di altre lingue e culture alle quali intendono restare comunque legati. Una reazione spaventata nei confronti del fenomeno, contenuta nelle ipotesi affidate ai facili slogan della “tolleranza zero” o della assimilazione rieducativa, impedisce la comprensione (sopra richiamata: Ambrosini) e la gestione del problema, si basa su presupposti che definiscono con consapevole falsità il passato e il futuro.
5.3.3.1 Si dovrebbe infatti presupporre che sia il cittadino europeo sia l’immigrato posseggano identità chiare e immodificabili. Definire secondo etnica, cultura, patria l’immigrato è costruire semplificatori forzati, inutili e pericolosi. «Si tratta naturalmente di “patrie inventate”, che possono fornire risorse di identificazione ai gruppi deterritorializzati, fino al punto di fornire materiali ai conflitti etnici, in relazione all’idea secondo cui le biografie delle persone ordinarie sono costruzioni in cui l’immaginazione svolge un ruolo saliente. Il rimando ad un ethnoscape, come lo definisce Appadurai, un mondo di riferimenti “etnici” immaginato dalle popolazioni in movimento, avviene peraltro in un contesto di pratiche di contaminazione e ibridazione tra culture diverse, consapevoli o meno, tanto da indurre questo e altri autori a teorizzare un indebolimento delle identità nazionali e la tendenziale formazione di un’economia culturale «globale». Due tesi in verità discusse e discutibili: altri autori hanno insistito sul ritrovamento o la reinvenzione di pretese identità nazionali nei paesi riceventi…» (Ambrosini, ivi, p 69)
5.3.3.2 Si dovrebbe inoltre presupporre, in parallelo, la ripresa e ridefinizione di identità nazionali del paese che “ospita” rigide e immodificabili al di fuori di ogni attenuazione storicistica. «Repertori culturali e pratiche sociali, sia della terra di origine sia del paese di accoglienza, vengono rielaborati e mescolati per costruire nuove identità e stabilire confini di gruppo più o meno rigidi e impermeabili.» (ivi 70)
5.3.3.3 Non si include il confronto e l’incontro tra i fattori attivi che possono amplificare il campo delle scelte personali all’insegna della libertà e del progetto. Il rischio è non comprendere quanto accade, non vivere con attiva consapevolezza il mutamento che interessa sia le aree di arrivo dei flussi migratori (le nazioni a produttività economico-capitalistica elevata), sia le aree di provenienza con cui quei flussi conservano i propri legami, coinvolgendo i paesi di provenienza in processi di “trasformazione dal basso” di portata sempre più ampia (segnando e avviando nuove forme di globalizzazione).
5.3.4. identità nella globalizzazione.
«Non per nulla, la formazione di identità culturali multiple, fluide, sincretiche, è un topos corrente del postmodernismo. Come nota Enzo Colombo, “partire da un’epistemologia costruzionista, si mette in evidenza che differenze, identità e culture non sono date ma prodotte in un’opera
continua di mediazione, confronto, adeguamento e conflitto tra possibilità differenziate. Non esistono come realtà pure. ma solo come processi intrinsecamente caratterizzati da contraddizione, instabilità, mutamento miscelazione (Colombo 2005)». (ivi, p. 73)
«Il riferimento ad un maestro buddhista, o la passione per la musica latinoamericana, o la ricerca di cibi esotici non sono più classificabili come aspetti specifici del transnazionalismo culturale dei migranti, ma possono essere condivisi, più o meno durevolmente e con valenze diverse, da persone e gruppi che appartengono alla società ospitante. L’ibridazione culturale si diffonde, ma insieme si confonde, in un vasto territorio intermedio tra identità individuali liberamente scelte e ridefinite a piacimento e identità collettive originarie e «autentiche», o almeno esaltate come tali dai loro propugnatori.» (ivi p. 74)
Sul piano culturale, inoltre, le diaspore contribuiscono alla deterritorializzazione delle identità sociali, che rappresenta un aspetto tipico della globalizzazione. Se nel periodo vagamente definito come «modernità» i governi degli Stati nazione cercavano di imporre agli individui una cittadinanza esclusiva, volendo far coincidere l’identità sociale con l’identità nazionale, nel mondo contemporaneo si sono aperti, come abbiamo visto, degli spazi per affiliazioni multiple, al di fuori e oltre i confini degli Stati-nazione. I legami diasporici sono divenuti così più aperti più accettabili. (ivi, p. 77)


Fonte: http://www.terzauniversita.it/download/anno08_08_corso13-lez3.doc

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