Tesina sull' estetica

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Tesina sull' estetica

 

Estetica della serialità
variazioni estetiche contemporanee

1. insopprimibili e necessarie ambiguità
Per condurre un’indagine ricognitiva preliminare che permetta di gestire secondo un orientamento di comprensione gli apporti storicamente formulati sul tema estetica, occorre sempre ricordare due insopprimibili e feconde ambiguità dell’estetica. Sono ambiguità analiticamente distinte e caratterizzate da un proprio e diverso processo di autostrutturazione, ma nei fatti cooperanti in modo inscindibile secondo la dinamica di un sostegno reciproco, condizione della loro efficace realizzazione. 
1.1. la prima ambiguità: la parola estetica indica sia lo studio della sensibilità che lo studio dell’arte e l’espressione fondata di un giudizio di gusto e quindi di bellezza;
1..2. la seconda ambiguità: la parola estetica riguarda sia l’opera d’arte, sulla quale esprime un giudizio di bellezza e quindi di appartenenza al campo dell’arte, sia la funzione estetica, operante in qualsiasi funzione presente nelle relazioni comunicative sociali.

1.1. ambiguità dell’estetica tra percezione sensibile e giudizio di bellezza
È la più nota ambiguità strutturale e insopprimibile del termine estetica. Il modello è diffuso e ufficializzato dalle opere di Kant, e proviene dalle posizioni di Baumgarten

1.1.1. l’estetica ha come oggetto la percezione sensibile e il suo studio analitico
Kant: Critica della Ragion pura: estetica trascendentale
«In qualunque modo e con qualunque mezzo una conoscenza si riferisca ad oggetti, quel modo, tuttavia, per cui tale riferimento avviene immediatamente, e che ogni pensiero ha di mira come mezzo, è l’intuizione. Ma questa ha luogo soltanto a condizione che l’oggetto ci
sia dato; e questo, a sua volta, è possibile, almeno per noi uomini, solo in quanto modifichi, in certo modo, lo spirito. La capacità (recettività) di ricevere rappresentazioni per il modo in cui siamo modificati dagli oggetti, si chiama sensibilità. Gli oggetti dunque ci son dati per mezzo della sensibilità, ed essa sola ci fornisce intuizioni;ma queste vengono pensate dall’intelletto, e da esso derivano i concetti. Ma ogni pensiero deve direttamente o indirettamente, mediante certe note, riferirsi infine a intuizioni, e perciò, in noi, alla sensibilità, giacché in altro modo non può esserci dato verun oggetto.
L’azione di un oggetto sulla capacità rappresentativa in quanto noi ne siamo affetti, è sensazione. Quella intuizione che si riferisce all’oggetto mediante la sensazione, dicesi empirica. L’oggetto indeterminato di una intuizione empirica si dice fenomeno.
Nel fenomeno, io chiamo materia ciò che corrisponde alla sensazione; ciò invece, per cui il molteplice del fenomeno possa essere ordinato in determinati rapporti, chiamo forma del fenomeno. Poiché quello in cui soltanto le sensazioni si ordinano e possono esser poste in una forma determinata, non può essere da capo sensazione; così la materia di ogni fenomeno deve bensì esser data solo a posteriori, ma la forma di esso deve trovarsi per tutti bella e pronta a priori nello spirito; e però potersi considerare separata da ogni sensazione.
Tutte le rappresentazioni, nelle quali non è mescolato nulla di ciò che appartiene alla sensazione, le chiamo pure (in senso trascendentale). Quindi la forma pura delle intuizioni sensibili in generale, in cui tutta la varietà dei fenomeni viene intuita in determinati rapporti si troverà a priori nello spirito. Questa forma pura della sensibilità si chiamerà essa stessa intuizione pura. Così, se dalla rappresentazione di un corpo separo ciò che ne pensa l’intelletto, come sostanza, forza, divisibilità, ecc., e a un tempo ciò che appartiene alla sensazione, come impenetrabilità, durezza, colore, ecc., mi resta tuttavia qualche cosa di questa intuizione empirica, cioè l’estensione e la forma. Queste appartengono alla intuizione pura, che ha luogo a priori nello spirito, anche senza un attuale oggetto dei sensi, o una sensazione, quasi semplice forma della sensibilità.
Chiamo estetica trascendentale una scienza di tutti i principi a priori della sensibilità. Deve esserci una tale scienza, che costituisca la prima parte di una dottrina trascendentale degli elementi, in opposizione a quella che contiene i principi del pensiero puro, e vien denominata logica trascendentale.
Nella estetica trascendentale, dunque, noi isoleremo dapprima la sensibilità, separandone tutto ciò che ne pensa coi suoi concetti l’intelletto, affinché non vi resti altro che l’intuizione empirica. In secondo luogo, separeremo ancora da questa ciò che appartiene alla sensazione, affinché non ne rimanga altro che la intuizione pura e la semplice forma dei fenomeni, che è ciò solo che la sensibilità può fornire a priori. In questa ricerca si troverà che vi sono due forme pure di intuizione sensibile, come principi della conoscenza a priori, cioè spazio e tempo, del cui esame noi ci occuperemo ora.»
Kant, Immanuel 1787 Critica della ragion pura, Laterza, Bari 1971

1.1.2. l’estetica si occupa del giudizio di bello e di brutto e studia le condizione della sua esprimibilità. Dal concetto di bellezza come «forma della finalità di un oggetto … senza la rappresentazione di uno scopo».
«Ma quell’elemento soggettivo di una rappresentazione che non può essere elemento di conoscenza è il piacere o il dispiacere congiunto con la rappresentazione stessa: perché con l’uno o con l’altro io non conosco niente dell’oggetto rappresentato benché essi possano bene essere l’effetto di qualche conoscenza. Ora la finalità di un oggetto, in quanto è rappresentata nella percezione, non è una proprietà dell’oggetto stesso (perché tale proprietà non può essere percepita), sebbene possa esser desunta dalla conoscenza degli oggetti. Sicché la finalità, che precede la conoscenza di un oggetto e che, anche quando non si voglia usare la rappresentazione in vista di una conoscenza, è immediatamente legata con la rappresentazione stessa, è l’elemento soggettivo di essa, ciò che non può mai divenire elemento di una conoscenza. Si dice perciò che l’oggetto è conforme al fine, solo perché la sua rappresentazione è legata immediatamente col sentimento di piacere; e questa rappresentazione stessa è una rappresentazione estetica della finalità. — Rimane solo il problema se vi è in genere una simile rappresentazione della finalità.
Quando il piacere è legato con la semplice apprensione (apprehensio) dellaforma di un oggetto dell’intuizione, senza riferimento di essa ad un concetto in vista di una conoscenza determinata, la rappresentazione non è riferita all’oggetto, ma unicamente al soggetto; e il piacere non può esprimere altro che l’accordo dell’oggetto con le facoltà conoscitive che sono in giuoco nel Giudizio riflettente, e in quanto esse sono in giuoco, e quindi soltanto una finalità soggettiva formale dell’oggetto. Giacché quella apprensione delle forme nell’immaginazione non può mai avvenire, senza che il Giudizio riflettente almeno le paragoni, anche inintenzionalmente, con la sua facoltà di riferire le intuizioni ai concetti. Ora, se in questa comparazione l’immaginazione (come facoltà delle intuizioni a priori) si trova d’accordo spontaneamente con l’intelletto, come facoltà dei concetti, mediante una rappresentazione data, ed è suscitato un sentimento di piacere, allora l’oggetto deve essere riguardato come conforme al fine rispetto al Giudizio riflettente. Un giudizio cosiffatto è un giudizio estetico sulla finalità dell’oggetto, e che non si fonda sopra alcun concetto dato dell’oggetto, né ne fornisce alcuno. Si giudica cioè la forma dell’oggetto (non l’elemento materiale della sua rappresentazione, come sensazione), nella semplice riflessione su di essa — senza alcuna mira a un concetto che ne potrebbe ricavare — come il fondamento di un piacere per la rappresentazione di un tal oggetto; e questo piacere viene pure considerato connesso con tale rappresentazione in modo necessario, e quindi non solo per soggetto che apprende questa forma, ma per ogni soggetto giudicante in generale. L’oggetto allora si chiama bello e la facoltà di giudicare mediante tale piacere (e per conseguenza, universalmente) si chiama gusto.»
Kant, I. Critica del Giudizio, Laterza, Roma-Bari 1978 p. 30-31
Commenta H.G.Gadamer, in Verità e metodo, : « non si può parlare di bellezza là dove l’immaginazione si limita a rendere schematicamente sensibile un concetto dell’intelletto, ma solo dove l’immaginazione può trovarsi in libero accordo con l’intelletto, cioè dove essa può essere produttiva; ma questa produttività dell’immaginazione è tanto più ricca non quando è libera in senso assoluto, come rispetto alle volute degli arabeschi, bensì quando vive entro un certo campo determinato, in cui la tendenza all’unità propria dell’intelletto non le si presenta come un insieme di limiti, ma come stimolo della sua libera attività.»
Commenta Herbert Marcuse, in Eros e civiltà, in coerenza con gli obiettivi critici e liberatori della Teoria critica della società : «Per Kant la dimensione estetica è la dimensione intermedia nella quale sensi e intelletto si incontrano. La mediazione viene compiuta dall’immaginazione che è la « terza » facoltà mentale. Inoltre la dimensione estetica è anche la dimensione intermedia, nella quale s’incontrano natura e libertà. Questa duplice mediazione è resa necessaria dall’invadenza del conflitto, generato dal progresso della civiltà, tra le facoltà inferiori e quelle superiori dell’uomo; questo progresso fu raggiunto per mezzo del soggiogamento delle facoltà sensoriali alla ragione e per mezzo della loro utilizzazione repressiva a scopi sociali.» (in Fubini, Enrico 1980 L’estetica contemporanea, Loescher, Torino)

In sintesi sulla situazione estetica relativa al giudizio di gusto e di bellezza: la forma dell’oggetto è colta nella rappresentazione come conforme o armonizzatesi con l’immaginazione (facoltà delle intuizioni a priori) e con l’intelletto (facoltà delle forme concettuali a priori) del soggetto; dall’armonia tra la forma dell’oggetto e le forme del soggetto deriva un sentimento di piacere (legato alla rappresentazione) e un giudizio di gusto e quindi di bellezza.

1.1.3. la relazione tra le due direzioni della prima ambiguità
è una doppia definizione e una doppia direzione di analisi, ma si tratta di una ambiguità insopprimibile e in necessaria connessione, in quanto i due processi, pur nettamente distinti nell’impostazione analitica, sono inscindibilmente legati da molti punti di vista:
1,1.3.1. la bellezza è la perfezione della conoscenza sensibile
Nella sua prima e fondamentale presentazione e definizione, formulata da Baumgarten (Alexander Gottlieb Baumgarten  (1714-1762) Aesthetica, 1750), l’estetica si costituisce come disciplina autonoma e specificatamente filosofica che non ha come tema il bello, ma la conoscenza sensibile, di cui si presenta come scienza. Ma in questo stesso contesto emerge la connessione con il tema della bellezza e quindi la forte relazione tra le due accezioni che sembrano costituire l’irrisolta ambiguità del termine estetica come scienza della sensibilità e teoria della produzione artistica. L’estetica infatti è una scienza che ha per oggetto la conoscenza sensibile e che mira a guidarla al raggiungimento della sua perfezione che è la bellezza, il cui raggiungimento si consegue mediante le arti  liberali, sempre che, secondi Baumgarten, l’esercizio di queste si attenga alle regole operative indicate dall’estetica stessa.
L’estetica quindi ha un campo di applicazione composito, caratterizzato da 3 diverse componenti reciprocamente connesse: 1. conoscenza sensibile, raggiunge la sua perfezione, che è la bellezza, mediante le arti liberali; 2. bellezza, è la perfezione della conoscenza sensibile che si raggiunge nelle arti liberali;  3 arti liberali, attività dell’uomo che attinge dalla conoscenza sensibile. La grande novità di Baumgarten sta proprio nella capacità di tenere uniti e reciprocamente collegati i tre ambiti.
Contemporaneamente a Baumgarten, anche Kant utilizza il termine “estetica”, nella sua estetica trascendentale, con il puro significato etimologico: estetica in Kant, cioè, è tutto ciò che attiene all’ambito della sensibilità, quindi l’estetica trascendentale è la scienza delle forme a priori della conoscenza sensibile. Kant affronta poi le tematiche specificatamente estetiche (il problema del bello, del sublime e del gusto) nella Critica del Giudizio, ma non utilizza in questo contesto il termine estetica.
Quindi già fin dal momento della sua creazione e della sua definizione, il termine estetica assume significati diversi da quelli proposti da colui che l’ha coniato. Acquista  un uso polisemico; si affida a un processo continuo di ridefinizione, cioè di assegnazione di accezioni diverse da quelle originarie, con conseguente moltiplicazione e variabilità di significati. A dimostrazione di questo processo di continuo valga la posizione di Hegel: il significato che il termine “estetica” assume nel suo pensiero ha una specificazione diversa da quella di Baumgarten; l’estetica per Hegel infatti è filosofia dell’arte bella: in questo caso l’estetica non ha nulla a che fare con la pura percezione sensoriale e l’attenzione viene calata sull’arte e sulla bellezza. Con Hegel (e con l’idealismo) quindi si va incontro ad un ulteriore processo di ridefinizione dell’estetica: il bello non è il bello di natura, ma è il bello dell’arte. Allo stesso modo con il Positivismo, parallelamente al rilievo attribuito alle scienze in generale e delle scienze umane in particolare, alle quali viene applicato il metodo proprio delle scienze della natura, si ha un nuovo mutamento del campo di applicazione dell’estetica: accanto all’estetica filosofica si affianca un’estetica scientifica che attinge il suo apparato concettuale e il suo strumentario dalle scienze, in particolare quelle umane.
(Claudia Bianco, Alexander Gottlieb Baumgarten, Estetica e conoscenza sensibile, sito web: La filosofia e i suoi eroi, in citazione libera)
La portata storica, ampia e di tipo soprattutto morale e civile, dell’operazione di Baumgarten è presentata da H. Marcuse in Eros e civiltà: «Non esisteva un’estetica come scienza della sensualità che corrispondesse a una logica come scienza della comprensione concettuale. Ma verso la metà del secolo XVIII l’estetica divenne una nuova disciplina filosofica, come teoria della bellezza e della arte: Alexander Baumgarten introdusse il termine nel suo uso moderno. Il cambiamento di significato da «pertinente ai sensi » a « pertinente alla bellezza dell’arte » significa qualcosa di molto più profondo che non una semplice innovazione accademica.
La storia filosofica del termine estetica rispecchia la repressione dei processi cognitivi sensuali (e quindi «corporei »). In questa storia, la fondazione dell’estetica come disciplina indipendente opera contro il dominio repressivo della ragione: i tentativi di dimostrare la posizione centrale della funzione estetica e di istituirla come una categoria esistenziale, ricorrono ai valori di verità inerenti ai sensi contro la loro degradazione sotto il principio della realtà vigente. La disciplina dell’estetica proclama l’ordine dei sensi contro l’ordine della ragione.» (Fubini, o.c.) 
1.1.3.2. l’arte si lega strettamente all’immagine e al suo apparire, nell’indistinzione che caratterizza la sensazione («una originaria massa di immagini che sgorgano con flusso impetuoso dall’originaria facoltà della fantasia umana» Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale), prima che la lettura concettuale ne avvii una formale definizione
1.1.3.3. il giudizio estetico influenza, forma e modifica, fa sorgere ed educa, i processi percettivi; «l’arte è profondamente coinvolta nel processo stesso della percezione» (Herbert Read).
« Ognuno di noi, maturando, restringe i propri orizzonti di vita, si specializza, si chiude entro una sfera determinata di affetti, interessi, conoscenze. L’esperienza estetica gli fa vivere altri mondi possibili, e così gli mostra anche la contingenza, relatività, non definitività del mondo “reale” entro cui è chiuso.» Vattimo, Gianni 1989 La società trasparente, Garzanti, Milano p.20. L’arte diventa, insomma, un passaggio al vedere; la sua frequentazione ha l’effetto di cambiare il nostro modo di vedere e guardare la realtà. « Può darsi che le navette spaziali non si accostino alle stazioni orbitali secondo le movenze di un valzer viennese, o che con il medesimo accompagnamento le hostess, per servire il pranzo in cabina, non facciano il loro ingresso ruotando di 360 gradi: ma dopo 2001 risulta difficile pensare che non sia così.» Codignola Matteo 2008 Un tentativo di balena, Adelphi, Milano p.32
1.1.3.4. si può definire l’arte, nella sua generalità oltre che in molti suoi aspetti, come la realtà considerata (con possibile sospensione di altri interventi di sintesi conoscitiva) dal punto di vista percettivo.

1.2. ambiguità dell’estetica tra opera d’arte e funzione estetica
L’estetica trova la propria sede nella scoperta e analisi dell’opera d’arte, ma è anche uno dei fattori rilevanti del comportamento sociale e in grado di ispirare livelli di attenzione formale. 
«…sentiamo troppo chiaramente che la differenza tra l’arte e i fenomeni puramente « estetici » è fondamentale. In che cosa consiste? Nel fatto che nell’arte la funzione estetica è la funzione dominante, mentre al di fuori di essa, quando è presente, ha una posizione secondaria. Si potrebbe validamente obiettare che anche nell’arte non raramente la funzione estetica è programmaticamente subordinata, dall’artista o dal pubblico, ad altre; si veda per esempio il problema della «tendenziosità » delle correnti artistiche. Questa obiezione però non è probativa: quando un’opera viene spontaneamente sentita come arte, l’accento posto su una funzione diversa da quella estetica viene valutato come polemica contro la destinazione essenziale e propria dell’arte, non già come un caso normale.» Jan Mukarowsky, Il significato dell’estetica (in Fubini, o.c.)
Si tratta di una ambiguità che deve essere tematizzata e portata a chiarezza funzionale al termine dell’esplorazione riservata agli aspetti dell’estetica e alle relative tesi.

2. l’estetica è indagine della conoscenza come percezione  (o la logica dell’arte)
Affermazione preliminare: la sensibilità ha una propria logica argomentativa e non si limita a fornire il materiale, la materia grezza della conoscenza, che altre facoltà della mente, considerate “superiori”, rielaborano e organizzano. La percezione «non si dà come un evento del mondo, al quale si possa applicare, per esempio, la categoria della causalità, ma come una ri-creazione o una ri-costruzione del mondo in ogni momento» (M.Merleau-Ponty, Fenomenologia della percezione, 1945, Bompiani, Milano 2005 p.183). La conoscenza estetica, sensibile, è quindi un processo attivo, un processo di sintesi, dotata di una propria logica e produttività (l’“ordine dei sensi” Herbert Marcuse), non sacrificabile, pena un irrecuperabile impoverimento conoscitivo, alla dimensione concettuale (all’“ordine della ragione” idem). È necessario cogliere le ragioni e la logica della comprensione estetica nella sua specificità e rapportarla alla logica della comprensione concettuale.
A partire dalla dinamica specifica, quindi dalla logica e dall’autonomia dei processi percettivi è possibile ragionare intorno alla logica e all’autonomia, anche interpretativa, dell’opera d’arte; il legame si fonda sulla connessione evidenziata da Baumgarten tra bellezza e conoscenza sensibile.
2.1. Kant: la percezione è sintesi (attiva).
Nell’estetica trascendentale della Critica della Ragion pura, Kant, affrontando l’esposizione trascendentale del concetto di spazio e di tempo, presenta le forme a priori della sensibilità come «principio dal quale si possa scorgere la possibilità di altre conoscenze sintetiche a priori … la geometria è una scienza che determina le proprietà dello spazio sinteticamente e, nondimeno, a priori   … il nostro concetto del tempo spiega la possibilità di tante conoscenze sintetiche a priori»; l’analisi della sensibilità gestita da forme a priori e quindi in termini di sintesi attiva, consegna i dati materiali della sensibilità (i fenomeni) a forme a priori in vista di giudizi sintetici a priori e di  teorie sistematiche come la geometria e la matematica.

2.2. Husserl: la percezione è sintesi passiva.
Già nell’estetica trascendentale Kant consegna i contenuti fenomenici dati nei processi percettivi alle forme concettuali (intuizioni pure) della logica e al loro compito conoscitivo di formulare giudizi sintetici a priori organizzati in sistemi teorici. In Husserl prende invece forma, impostato fenomenologicamente, il problema della genesi delle forme logiche a partire dall’analisi dell’esperienza recettiva; risaltano così le differenze di principio che separano gli oggetti dell’esperienza dalle formazioni teoretiche della logica. Le Lezioni di sintesi passiva (1920-1926) sono “una lunga e analitica riflessione sulle condizioni generali di possibilità di un’esperienza di oggetti” (Paolo Spinicci). L’aspetto qui preso in considerazione è il processo di formazione e ridefinizione continua dell’io (come di ogni oggetto) a partire dalle datità di esperienza colte come originarie e dalle loro possibili e fluide, mai del tutto definite e codificate, rimemorazioni. Si tratta di esplorazione in una sfera passiva dell’esperienza in cui ciò che è colto come dato (percezioni interne) è a disposizione per riprese (rimemorazioni) e identificazioni (libera producibilità) in vista di una continua chiarezza e progressivo ampliamento. In sé, dunque, il dato dell’esperienza in originaria percezione è consegnato a una vaghezza concettuale; il suo insieme è indicato nella forma di un flusso continuo e indistinto (flusso di coscienza), contrassegnato da una temporalità propria immanente, interiore. 
« Ad un esame più attento, tuttavia, ci rendiamo conto che la percezione immanente è datità percettiva originaria solo in relazione a possibili rimemorazioni immanenti. Certo, essa costituisce originalmente un se stesso, ma un se stesso, un elemento identico e identificabile per l’io esiste solo grazie alla molteplicità delle possibili rimemorazioni che, da parte loro, sottostanno senz’altro alla legge della gradualità di ogni datità originale. Un se stesso, un oggetto — dicemmo già precedentemente — esiste solo in relazione all’io attivo, è «alla mano» per l’io solo in quanto è qualcosa di permanentemente disponibile, qualcosa di sempre di nuovo identificabile. Parliamo perciò già nella sfera passiva della costituzione di un se stesso, perché sono già qui predelineate le condizioni per la libera disponibilità. Queste condizioni sono predelineate, per la costituzione immanente della percezione interna, grazie alle corrispondenti rimemorazioni che, anche se in misura limitata, costituiscono un dominio di libertà, di libera producibilità, di libero incremento della chiarezza, così come un dominio del libero ampliamento, nella forma del riempimento, delle intenzioni vuote in un continuo procedere nelle serie di rimemorazioni sempre nuove. … Il primo elemento trascendente nelle sue fonti originarie è il flusso di coscienza e il suo tempo immanente, e precisamente esso è il se stesso trascendente che giunge a fondazione originaria nell’immanenza del presente originariamente fluente e poi a una datità originale liberamente disponibile ed a una esibizione diretta proprio in questo presente grazie alle rimemorazioni. Il flusso coscienziale vive con il fluire e diviene allo stesso tempo oggettuale, obiettivo per il suo io; lo diviene in quanto se stesso trascendente che giunge a una datità originale incompleta e approssimativa nelle rimemorazioni e nelle sintesi di rimemorazioni di un presente attuale. Ad esso corrisponde per l’io l’idea di un vero se stesso, l’idea del vero passato coscienziale in quanto idea della compiuta datità originale. Conformemente a quanto precedentemente affermato in generale questa idea ha un duplice lato; il primo concerne la direzione verso la chiarezza e il suo limite, il secondo la direzione verso l’ampliamento, in quanto è in questione il flusso coscienziale in quanto interamente dato in se stesso. Come è manifesto, questa stessa idea è, mirabilmente, un’idea che per essenza fluisce, poiché qui l’oggetto, e cioè la coscienza, è - davveroun flusso che compie in sé una sempre nuova fondazione originaria.» Husserl Edmund 1966  Lezioni sulla sintesi passiva, Guerini e Associati, Milano 1993, 268, 269-270.   

2.3.  Wittgenstein: la percezione è sintesi (attiva) concettuale 
Wittgenstein, nel Tractatus logico-philosophicus, parla di “immagine logica del mondo” e delle sue condizioni di verità, unendo al concetto di immagine, proprio del momento percettivo della conoscenza, tratti propri della logica e dei concetti.
« 2.18 Ciò che ogni immagine, di qualunque forma essa sia, deve avere in comune con la realtà, per poterla raffigurare — correttamente o falsamente —, è la forma logica, ossia la forma della realtà.
2.181 Se la forma di raffigurazione è la forma logica, l’immagine si chiama l’immagine logica.
2.182 Ogni immagine è anche un’immagine logica. (Invece, ad esempio, non ogni immagine è un’immagine spaziale.)
2.19 L’immagine logica può raffigurare il mondo.  […]
2.21 L’immagine concorda o non concorda con la realtà; essa è corretta o scorretta, vera o falsa.
2.22 L’immagine rappresenta ciò che rappresenta, indipendentemente dalla propria verità o falsità, mediante la forma di raffigurazione.
2.221 Ciò che l’immagine rappresenta è il proprio senso.
2.222 Nella concordanza o non-concordanza del senso dell’immagine con la realtà consiste la verità o falsità dell’immagine.
2.223 Per riconoscere se l’immagine sia vera o falsa noi dobbiamo confrontarla con la realtà.
2.224 Dall’immagine soltanto non può riconoscersi se essa sia vera o falsa.
2.225 Un’immagine vera a priori non v’è.
3  L’immagine logica dei fatti è il pensiero.»
Wittgenstein Ludwig 1922 Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino 1989
A commento e sintesi, passaggi essenziali:
2.3.1. tesi: il pensiero è  l’immagine logica del mondo
2.3.1.1. noi ci facciamo immagini dei fatti; alcune di queste immagini sono linguistiche
2.3.1.2. il pensiero è l’immagine logica dei fatti (non è opportuno distinguere tra immaginazione e logica; ogni immagine è logica)
2.3.1.3. la nostra percezione del mondo è percezione logico-concettuale
2.3.1.4. la totalità dei pensieri è l’immagine del mondo

2.4.Dewey: la logica della percezione come sintesi; la chiarezza del “vago”
Si tratta di una sintesi che si accompagna ai caratteri positivi della in distinzione e della vaghezza. Solo se vista da una prospettiva logico – concettuale, quindi incapace di riconoscere all’arte, alla tecnica e all’espressione che la caratterizzano una specifica capacità conoscitiva,  può presentarsi con i tratti, considerati negativi, del vago e dell’indistinto.
«Attorno a ogni oggetto esplicito e focale c’è una recessione nell’implicito che non si afferra intellettualmente. Nella riflessione la chiamiamo l’indistinto e il vago. Ma nell’esperienza originale noi non la identifichiamo con il vago. È una funzione dell’intera situazione e non un elemento di essa come dovrebbe essere per venire appresa come vago. Al crepuscolo, l’imbrunire è una piacevole qualità del mondo intero. É la sua manifestazione. Diviene un tratto particolare e nocivo soltanto quando impedisce la distinta percezione di qualche cosa particolare che desideriamo discernere. L’indefinita qualità pervasiva di un’esperienza è quella che collega tutti gli elementi definiti, gli oggetti di cui siamo focalmente consapevoli, facendone un tutto. … Senza uno scenario indeterminato e incerto, il materiale di qualsiasi esperienza è incoerente. Un’opera d’arte evoca e accentua questa qualità di essere un tutto e di appartenere a un tutto più grande, che tutto include e che è l’universo nel quale viviamo. Questo fatto — io penso — è la spiegazione di quel sentimento di squisita intelligibilità e chiarezza che noi abbiamo in presenza di un oggetto sperimentato con intensità estetica.
Dewey, John 1934 L’arte come esperienza (in Fubini o.c. p. 246-7)

2.5. il “pensiero” delle immagini
Ripreso in contesti associati, come la neuroscienza, l’arte e la filosofia, il tema delle immagini, della conoscenza sensibile e del rapporto tra immagini e pensiero, evidenzia livelli di stratificazione e di complessità che ne mettono meglio in luce la funzione specifica.
«Le immagini non si esauriscono in se stesse né nella mente di chi le riflette o produce né nell’interno dei processi cerebrali. Vi è la necessità profonda di afferrare l’immagine nella sua dimensione “invisibile”. L’invisibile è appunto una dimensione costitutiva dell’immagine e certo non si riferisce soltanto alla sua rappresentazione cerebrale o neurologica. […] non si può negare che non tutte le rappresentazioni — ed è Kant stesso ad ammetterlo — possano venire ricondotte a concetti (empirici o logici): si tratta, di conseguenza, di radicare questo “al di là” non in giochi linguistici del pensiero con se stesso, ma nelle rappresentazioni stesse o, meglio, nell’esperienza che di esse abbiamo e nelle forme che a tale esperienza vengono date. Esperienza che, di fronte a specifici orizzonti che mettono in gioco, in essa, atti che hanno nelle funzionalità corporee il loro radicamento, rivela la stratificata complessità del rapporto conoscitivo tra il “sentire” e il “pensare”. Le idee trascendentali, scrive Kant nella “Appendice alla Dialettica trascendentale”, hanno un “buon uso” quand’esso si riferisce a orizzonti rappresentazionali, cioè quando esse non “creano” concetti — prassi di cui la filosofia del Novecento ha offerto deprimenti esempi — bensì li “ordinano”: ovvero, li organizzano secondo connessi e consequenziali percorsi conoscitivi che mostrano le possibilità immanenti alle rappresentazioni, anche quando non possono venire concettualizzate secondo apparati categoriali utili alla formazione di specifici ambiti epistemologici. […] … le immagini “fanno pensare” anche quando non conducono ad un concetto o a una “forma”. Ovvero: il nostro pensiero, il pensiero del senso comune, ha nel come se dell’immaginazione simbolica il modo per “apparire” senza le costruzioni fantastiche della metafisica, rivelando una “priorità” dell’esperienza in modo molto più efficace di qualsivoglia sua concettualizzazione.»
Questo è il contesto per affrontare o vedere delinearsi un possibile orizzonte veritativo per le immagini o quello della verità (specifica) dell’immagine; attività veritativa che attesta cioè un senso del mondo prima – e certo non “contro”, le sue caratterizzazioni ontologiche.
Franzini Elio, Immagine e pensiero, in Lucignani Giovanni, Pinotti Andrea 2007 (a cura di) Immagini della mente. Neuroscienze, arte, filosofia, Raffaello Cortina, Milano, pp. 137-138, 152

2.6. l’ampiezza della visione: arte = percezione senza oggetto.
Sia come postulato: «Vediamo molto prima di parlare, e vediamo molte più cose di quante le parole del linguaggio verbale riescano a nominare».
«Vedere, pensare e dipingere il colore.  Il colore si lascia significare dallo sguardo capace di rilevarlo nelle cose in cui si rivela. Ogni qual volta l'occhio di un pittore guarda un colore, tende naturalmente ad estrarlo dalla materia in cui appare per poterlo valutare indipendentemente da essa, al fine di attribuirle un significato altro da quello che le leggi della fisica le assegnano e da quello che l'evoluzione e l'adattamento ambientale stabiliscono come conveniente ed ecologicamente efficace. Rispetto alle altre variabili visive, il colore gode, e ha goduto, nella storia della pittura dall'antichità ai giorni nostri, di una maggiore indipendenza cognitiva e iconica dalla realtà fenomenica delle cose rappresentate. Si tratta di un tratto rilevante della funzione del colore pittorico, che andrebbe considerato con maggiore attenzione quando si studia la storia dell'arte. Basti considerare il significato e il ruolo che il bianco e il nero hanno avuto nella pittura cinese, oppure alla funzione simbolica dell'oro la pittura occidentale, al significato dei grigi, dei bianchi e dei neri nella pittura monocroma delle diverse correnti dell'avanguardia novecentesca. In tutti questi e altri casi ancora, il colore è concepito e applicato nelle immagini come elemento visivo indipendente dal colore delle cose reali riprodotte dalle medesime immagini, anche se il disegno iconico della loro forma è tracciato secondo quanto previsto dai parametri delle proiezioni ottiche, pittura, sono numerosi i casi in cui la forma degli oggetti e delle figure umane viene disegnata con estrema precisione e fedeltà iconica, mentre la stessa viene poi colorata con colori non altrettanto fedeli. Basti pensare al verde dell'incarnato delle tavole d'altare medievali di Duccio e di Cimabue, oppure ai vestiti degli apostoli e dei personaggi biblici dipinti con svariatissimi e sgargianti (benché all'epoca gli indumenti dei personaggi rappresentati fossero prevalentemente i colori naturali della lana, del cotone e la iuta).
Credere che una porta blu in una miniatura del XIII secolo o in un quadro del XVII rappresenti una vera porta che è stata realmente blu, è nello stesso tempo ingenuo, anacronistico e falso. In un'immagine, una porta blu è blu anzitutto perché si oppone a un'altra porta o a una finestra, o a qualunque altro oggetto, che è rosso, o giallo, o di un altro colore, e quest'altra porta o questa finestra si possono trovare in questa stessa immagine ma in ogni altra immagine che faccia da riscontro o si opponga alla prima. Un colore, qui come altrove, non viene mai solo e non assume il suo significato se non in rapporto alla costruzione e alla sintassi dell'immagine.
Ciò non di meno questa incongruenza non viene vista come un disturbo, né come una riduzione della capacità di imitazione mimetica dell'immagine dipinta. E come se fossimo preparati a uno scollamento percettivo del colore dalla forma, ritenendo del tutto naturale e per nulla contraddittorio aspettarsi dalla forma una certa fedeltà iconica e, viceversa, dal colore una maggiore libertà emotiva, simbolica ed espressiva.
L'immagine può dunque essere percepita su due distinti registri, uno morfologico e l'altro cromatico. Al primo spetta il compito di riprodurre fedelmente le apparenze, i contorni delle cose, le forme dei volumi degli alberi, degli animali, degli esseri umani; al secondo quello di riempire con ì colori che il pittore vede e sente indipendentemente da come essi appaiono nelle cose. Esemplari a tal proposito sono i colori con cui Paolo Uccello dipinge i cavalli nelle sue celebri Battaglie di San Romano; nei tre episodi riguardanti il Disarcionamento di Bernardino della Ciarda, Niccolo da Talentino alla testa dei fiorentini e Intervento di Micheletto da Cotignola (1435-40); il Crocefisso giallo di Gauguin, i ritratti grigi di Giacometti, i colori con cui Marc dipinge gli animali (la volpe viola, il gatto blu, i cavalli rosso fuoco, ma prevalentemente blu cobalto e blu di Prussia), colori sentiti così veri e reali da spingere Kandinskij a eleggerli a manifesto teorico del Blaue Reiter («II Cavaliere azzurro», appunto), il movimento pittorico che stavano fondando. Da sempre il colore gode, rispetto alla forma, di maggiore libertà espressiva, dato che in esso l'occhio del pittore vede molto di più e diversamente rispetto a ciò che la prima vorrebbe costringerlo a denotare. Nella forma, l'occhio è indotto a vedere le cose che essa delimita; si tratta di una visione prevalentemente cognitiva, mentre nel colore è come se l'occhio del pittore vedesse non solo e non per forza le proprietà ottiche-materiche delle cose, ma essenzialmente le proprietà e gli aspetti, gli stati, le condizioni, gli umori interni, intesi come toni e umori interiori, come colori emotivo-espressivo-proiettivi, più psichici che fisici. È nella scelta e nell'accostamento dei colori che il pittore libera la sua immaginazione, esprime le sue idee più personali, confida i suoi umori più reconditi.»
Di Napoli Giuseppe 2006 Il colore dipinto. Teorie, percezione e tecniche. Einaudi, Torino
[nota: come in campo linguistico, nelle culture orali, quello che una lingua scritta indica a partire dal concetto di sostanza viene dissolto nei suoi modi funzionali, così nel campo artistico l’oggetto è rilevante (o rilevato) nelle forme in cui si manifesta o in cui viene colto (o meglio, scompare e sta in quel mutevole, istantaneo e continuo apparire formale). Del resto, per il maggior numero delle “sostanze” ricercate linguisticamente (non solo quelle materiali, come casa, albero, tavolo, ma quelle concettuali, come amore, giustizia, bellezza…), non abbiamo a disposizione discorsi di tipo sostanziale, ma modi di darsi del (loro) manifestarsi;  modi considerati di volta in volta più o meno funzionali.]
A sostegno della stessa linea, vanno riprese le tesi di Rudolf Arnheim, (Arte e percezione visiva, del 1954) secondo cui l’arte, attraverso schemi percettivi formali (pattern) ben individuabili, attraverso cui rappresenta e organizza contenuti introduce alla “comprensione del mondo”. 
«Giacché è il pattern percettivo fondamentale a trasmettere il tema, non dobbiamo sorprenderci di trovare che l’arte continua ad adempiere alla sua funzione anche quando ha cessato di rappresentare gli oggetti naturali. L’arte « astratta », dunque, compie a modo suo ciò che l’arte ha sempre fatto. Non è migliore dell’arte rappresentativa che — essa pure — non nasconde ma rivela lo scheletro significante delle forze; e non è neanche peggiore, giacché ne contiene gli stessi elementi essenziali. Non è « pura forma » perché anche la più semplice delle linee esprime un significato visibile ed è perciò simbolica; non offre astrazioni intellettuali perché non c’è nulla di più concreto del colore, della forma, del movimento. Non si limita alla vita intima dell’uomo o all’inconscio, perché per l’arte la distinzione tra mondo interno ed esterno, conscio e inconscio è soltanto artificiale. La mente umana riceve, forma e interpreta la sua immagine del mondo esterno con tutti i suoi poteri coscienti e inconsci, e il regno dell’inconscio non potrebbe mai penetrare le nostre esperienze senza il riflesso delle cose percepibili. Non c’è maniera di presentare l’uno senza l’altro; ma la natura del mondo esteriore e interiore può essere ridotta ad un gioco di forze, e quest’esperimento «musicale» viene appunto tentato da quegli artisti che sono erroneamente definiti «astratti». […] Non siamo in grado di sapere come sarà l’arte del futuro; ma sappiamo che il punto culminante dell’arte non è l’«astrazione». Nessuno stile lo potrà essere poiché ogni stile è solo un singolo modo valido di guardare il mondo, una singola veduta della montagna sacra che è capace di offrire un’immagine diversa da ogni luogo, ma che può esser vista come la stessa ovunque.» (in Fubini, o.c.) 
Un’ipotesi preoccupante: «l’idea che il colore come lo conosciamo sia un’illusione ottica, un inganno pietoso della luce per nascondere il vero volto – bianco – del cosmo». Codignola Matteo 2008 Un tentativo di balena, Adelphi, Milano p. 109

2.7 conclusione di fronte all’insorgenza di una nuova antinomia:
le attenzioni analitiche rivolte al processo percettivo hanno tutte un tratto comune, quello di mettere in evidenza i procedimenti di sintesi (coglimento, lettura, mantenimento, interpretazione, ridefinizione) che la percezione strutturalmente (in forma immediata, passiva o in forma attiva) mette in atto. E tutte le analisi concordano nell’indicare la destinazione concettuale della percezione dell’esperienza sensibile, ma sul momento e sulla sede dell’incontro prende forma una nuova ambiguità.
2.7.1. Alcuni sottolineano come tratti specifici dei processi percettivi la vaghezza e l’indistinzione, aspetti che costituiscono l’insopprimibile ricchezza del dato percettivo e la sua natura di perenne risorsa interpretativa; qui l’arte trova la sua definizione e funzione nella capacità di dare espressione a questa vaghezza, conservandola ed esponendola in forme prima di consegnarla ad un destino rigido e magari univoco di concettualità; e la vaghezza è semmai risorsa per una concettualità sempre più chiara e aperta (Husserl).
2.7.2. Altri sottolineano come i processi percettivi sono guidati (più o meno consapevolmente) da indicatori o sguardi concettuali che comunque non annullano ma potenziano la disponibilità dell’esperienza a diverse definizioni concettuali; qui l’arte mette in evidenza la propria portata conoscitiva o perché nelle cose coglie l’idea (il principio direttivo, così come inteso da Kant e Schopenhauer) o perché sostiene in forme originali (incisive, immediate, unitarie e globali)  lo sguardo concettuale.
2.7.3. Esempi che pongono di fronte alla citata antinomia:
2.7.3.1. Primo esempio, dal campo artistico - tecnico
da Roland Barthes, L’impero dei segni. Tre indicatori di realtà o ipotesi di titolo - comprensione:
1. ragazzi giapponesi attoniti
2. «quest’occhio sbarrato, frenato dal ciglio superiore della fessura, sembra racchiudere in tal modo una pensosità trattenuta, un supplemento di intelligenza tenuto di riserva»
3. «sotto la pupilla di porcellana una larga goccia nera: la Notte dell’inchiostro di cui parla Mallarmé»

 

2.7.3.2. Secondo esempio/caso dal campo biologico – etologico
La storia del tordo e dell’insetto (foglia)
«Chissà quante altre volte sarà passato di là, sorvolando con la sua solita andatura, planando con disinvolta leggerezza in quel tunnel di verdi foglie, formato dall'abbraccio dei rami che su quel lato assolato del bosco si tendono l'uno verso l'altro, A quell'ora del giorno, immediatamente dopo il suo passaggio, le foglie venivano investite da un fremito lieve e carezzevole che le scuoteva facendole vibrare e sventolare a lungo. Si può dire che conoscesse tutte quelle foglie una per una; che ne avesse osservato e memorizzato la forma, la nervatura, i colori e tutte le screziature superficiali. Sapeva leggere i giorni del mese nelle continue variazioni cromatiche che, inesorabilmente, il tempo infligge a ogni foglia. Insomma, facendo assegnamento sulla sua invidiata acuità visiva, perfezionata dall'evoluzione, saettava tra le foglie sicuro che non gli sarebbe sfuggito nulla di quanto stesse cercando. Ma quel giorno, per ragioni ascrivibili all'equilibrio della natura, un attimo prima che il tordo sbucasse da quel tunnel, l'insetto foglia fece in tempo ad assumere la forma e i colori della foglia su cui posava, risultando così invisibile proprio all'occhio dallo sguardo infallibile...
La vita dell'insetto, quanto quella del tordo, dipende dai loro due modi di vedere finalizzati al rilevamento di due differenti cose nel medesimo percetto: il modo di vedere dell'insetto è finalizzato a far scomparire il proprio corpo nell'immagine della foglia, quello del tordo a separare il corpo dell'insetto dall'immagine della foglia. Per molte specie il colore è uno strumento decisivo nella lotta per la sopravvivenza. La natura dipinge immagini il cui significato è di vitale importanza per gli esseri vedenti. Spesso si omette che la mimesi e i concetti di somiglianza, analogia e similitudine da essa derivati hanno origine da una funzione biologica e non filosofica o concettuale, come da più parti si teorizza.
Anche per lo sguardo e per la mano dell'uomo accovacciato nella grotta, assorto a guardare la forma degli animali che ha dipinto sulle pareti, le immagini costituiscono uno strumento di sopravvivenza. E’ probabile che questa convinzione abbia favorito l'acquisizione delle straordinarie capacità visive e tecniche che ammiriamo nel pittore paleolitico. Solo una motivazione di vitale importanza poteva spingerlo ad abbarbicarsi su precari tralicci per dipingere su impervie pareti di grotte fredde e buie immagini di cavalli, tori, cervi e stambecchi con tanto realismo, pur avendoli osservati soltanto durante le battute di caccia, in condizioni in cui gli animali si muovono con scatti rapidi e convulsi. Quale altra motivazione avrebbe potuto dare origine a quelle prodigiose capacità visive, indispensabili per tracciare il contorno della forma degli animali la cui precisione e proporzione appare stupefacente ai nostri occhi, tenuto conto che alcune di queste immagini raggiungono la lunghezza di cinque-sei metri?
In molti siti archeologici paleolitici i dipinti sono per cosi dire firmati con le impronte delle mani dei pittori. Il fatto che il pittore paleolitico non tamponi la sua mano sporca di colore sulle pareti della grotta, pur essendo l'operazione più agevole, e preferisca appoggiarne il palmo con le dita distese e spruzzarvi sopra, soffiandolo, del pigmento liquido in modo da dipingerne la forma in negativo, dimostra ulteriormente che egli possedeva elevate capacità di pensiero visivo che lo portavano ad adottare consapevolmente la soluzione tecnica in grado di far emergere con maggiore evidenza più l'aspetto figurale che quello pittorico, più l'immagine gestaltica della mano che quella coloristica. Evidentemente, quel pittore non era necessariamente l'uomo imprigionato nella grotta che, a detta di Platone, veniva ingannato dalle ombre proiettate sulle pareti. Per lui, le immagini dipinte non erano ombre delle idee, ma immagini percepite come cose vive, dotate di una loro evidente forma di esistenza.
I procedimenti. Questi modi di vedere, tanto quello biologico, funzionale a precise esigenze adattive, quanto quello estetico, rispondente a specifiche esigenze espressive, sono cosi pregni di significati esistenziali nei loro rispettivi ambiti di riferimento da invocare un superamento della dicotomia natura-cultura a favore di una visione più olistica e unificante la cultura della natura con la natura della conoscenza e dell'espressione umana. La natura, diceva Empedocle nel suo Poema fisico e lustrale, mescola in diverse proporzioni i quattro elementi per dare una forma ad ogni cosa, proprio come fa il pittore che mescola i colori per dipingere l'immagine di ogni cosa. L'attività del pittore si basa da sempre su tre essenziali procedimenti: le mescolanze, le sovrapposizioni e le giustapposizioni dei pigmenti, in perfetta simmetria con i principali processi naturali attraverso i quali le cose si generano, si trasformano, interagiscono e si corrompono.»
In questo contesto: rivalutazione della mimesis (nel contesto di ipotesi di fondazione del fare arte). La storia dell’insetto e del tordo è una storia di mimesis. Il primo deve mimetizzarsi se vuole sfuggire alla cattura (sopravvivere), il secondo deve smontare la mimetizzazione se vuole catturare la preda (sopravvivere). La mimesis è quindi biologicamente l’arte del sopravvivere e forse la base e il contesto per il sopravvivere dell’arte; si può tornare a pensare, come voleva la tanto criticata teoria di Platone, che la mimesis sia l’essenza dell’arte. Le critiche e le riserve rivolte alla teoria mimetica dell’arte formulata da Platone sono molto diffuse, soprattutto nel contesto dell’estetica romantica, ma se si avvia la ricerca delle radici antropologiche (comportamentali), e biologiche, della prassi artistica la mimesis torna alla ribalta e si rivela essere atteggiamento fondante di processi che strutturano culturalmente il soggetto nel percepire e produrre. La capacità mimetica (insetto) come il suo riconoscimento (tordo) diventano condizione indispensabile di sopravvivenza e di adattamento. I processi educativi si affidano fondamentalmente e prioritariamente ad esercizi di mimesis; al buon esito di questi esercizi si attribuisce il giudizio di ammissione alla socialità e alla normalità; lo stesso riconoscimento di genialità / creatività è formulabile in termini di variazione nei confronti e sullo sfondo di prestazioni considerate normali (imitative o confermative)  
Di Napoli Giuseppe 2006 Il colore dipinto. Teorie, percezione e tecniche. Einaudi, Torino
2.7.3.3. Terzo esempio dal campo scientifico
Thomas S. Kuhn presenta le rivoluzioni scientifiche come un mutamento di paradigma con l’effetto di cambiare, in forza dei nuovi concetti, la percezione del mondo.
«Guidati da un nuovo paradigma, gli scienziati adottano nuovi strumenti e guardano in nuove direzioni. Ma il fatto ancora più importante è che, durante le rivoluzioni, gli scienziati vedono cose nuove e diverse anche quando guardano con gli strumenti tradizionali nelle direzioni in cui avevano già guardato prima. È quasi come se la comunità degli specialisti fosse stata improvvisamente trasportata su un altro pianeta dove gli oggetti familiari fossero visti sotto una luce differente e venissero accostati ad oggetti insoliti. Naturalmente, non succede niente di simile: non si tratta di uno spostamento geografico; al di fuori del laboratorio la vita d’ogni giorno continua a scorrere come prima. Tuttavia, dopo un mutamento di paradigma, gli scienziati non possono non vedere in maniera diversa il mondo in cui sono impegnate le loro ricerche. Nei limiti in cui i loro rapporti con quel mondo hanno luogo attraverso ciò che essi vedono e fanno, possiamo dire che, dopo una rivoluzione, gli scienziati reagiscono a un mondo differente. […] Fin dalla remota antichità molti avevano visto che un qualunque corpo pesante, appeso a una corda o a una catena, oscilla avanti e indietro fino a raggiungere alla fine uno stato di quiete. Per gli aristotelici, che credevano che un corpo pesante si muovesse per sua natura da una posizione più elevata verso uno stato di riposo naturale in una posizione più bassa, un corpo oscillante era semplicemente un corpo che cadeva con difficoltà. Vincolato dalla catena, esso poteva raggiungere lo stato di riposo nel suo punto più basso soltanto dopo un movimento tortuoso e un periodo di tempo considerevole. Galileo invece, quando guardò un corpo oscillante, vide un pendolo, ossia un corpo che quasi riusciva a ripetere Io stesso movimento più e più volte all’infinito. […]  Considerando le cose da questo stesso punto di vista, i copernicani che negavano al sole il suo tradizionale titolo di ‘pianeta’ imparavano non solo che cosa significava ‘pianeta’ o che cos’era il sole; al contrario essi mutavano il significato del termine ‘pianeta’ in modo che esso potesse continuare ad operare utili distinzioni in un mondo in cui tutti i corpi celesti, e non solo il sole, venivano visti in modo differente da come erano stati visti prima.»
Kuhn, Thomas Samuel 1962 La struttura delle rivoluzioni scientifiche, Einaudi, Torino 1978
2.7.3.3. La sensibilità estetica è contrassegnata dalla esperienza, unica e autonoma, dei mutamenti percettivi. Si tratta di un processo che, con presenze concettuali, rimanda alla natura dell’immaginazione. Hillman James (2004 L’anima dei luoghi, Rizzoli, Milano p. 102) afferma in proposito: «Questo mi ricorda una riflessione di Gaston Bachelard: «L’immaginazione non è la formazione delle immagini. Essa è la loro deformazione». È una deformazione. È una rottura di cose, un ferire … idea del deformare, che libera l’immaginazione.

 

3. l’estetica come percezione e giudizio di bellezza: arte
È difficile definire l’estetica perché nel corso storico si presenta estremamente multiforme, anche a causa delle complesse situazioni culturali che determina; impostazioni analitiche, tradizioni storiche, teorie generali, abitudini percettive, canoni estetici, movimenti artistici, investimenti culturali, eventi pubblici…  Ad un primo bilancio si possono, sommariamente, individuare due impostazioni; per caratterizzarle si fa riferimento a voci comuni definite, per esigenze di primo orientamento, antiteticamente.

3.01. tradizione “romantica” e eredità post-romantiche: caratteri generali
3.01.1. l’estetica si configura come un ramo, più o meno meccanico o sistematico ed essenziale, della filosofia intesa come prassi teoretica e come sistema generale, nel modo con cui la tradizione dell’ “idealismo assoluto” tende a costruirlo
3.01.2. si fonda su di un’intuizione, esplicitata in vari termini: ispirazione, sentimento, genio, creatività, struggimento, invasamento, magia …
3.01.3. trova il proprio contesto nella cultura “romantica” basata sulla affermazione dei limiti della ragione, ferma al dato apparente, e sul conseguente proposito di valorizzare la capacità di porsi, con sentimento e immediatezza, in contatto e sintonia con l’essenza profonda e vitale della natura, della società, della storia.
3.01.4. definita secondo canoni ricorrenti, l’estetica “romantica” ha una durata temporale più ampia di quella che viene storicamente attribuita al movimento Romanticismo, si configura come una costante percettiva e valutativa e ha segni di presenza (nostalgie post-romantiche) in autori e opere che, per impianto generale, nulla hanno da spartire col periodo ormai lontano della sensibilità romantica e con la sua redenzione filosofica, l’idealismo.

3.1. tradizione “romantica” e eredità post-romantiche: alcuni autori
3.1.1. Hegel: l’Assoluto in forma finita e sensibile
« La forma di questo sapere è, in quanto immediata (il momento della finità dell’arte), da una parte un dirompersi in un’opera di esistenza esterna e comune, nel soggetto che produce l’opera e in quello che la contempla e l’adora; dall’altra parte essa è l’intuizione concreta e la rappresentazione dello spirito assoluto in sé come dell’ideale; — della forma concreta, nata dallo spirito soggettivo, nella quale l’immediatezza naturale è soltanto segno dell’idea, per la cui espressione è cosi trasfigurata mediante lo spirito formatore, che la forma non mostra altro in lei fuori dell’idea. Tale è la forma della bellezza.»
Hegel G.W.F. 1817 Enciclopedia delle scienze filosofiche § 556.

3.1.2. Schopenhauer: l’arte e le idee
3.1.2.1. Schopenhauer accentua la distinzione (quasi contrapposizione) tra concetto e idea. “L’idea e il concetto hanno senza dubbio qualche cosa in comune, in quanto ambedue sono unità rappresentanti una pluralità di cose reali; tuttavia c’è tra di loro una enorme differenza…  Il concetto è astratto, discorsivo: pienamente indeterminato nella sua sfera, non è determinato che nei suoi confini; afferrabile e concepibile da chiunque possieda la ragione; comunicabile senz’altro mediante la semplice parola, esauribile per intero dalla propria definizione. L’idea invece, che si può a rigore definire come il rappresentante adeguato del concetto, è assolutamente intuitiva, e, sebbene rappresenti un’infinità di cose particolari, è perfettamente determinata. L’individuo come tale non può conoscerla: per arrivare a concepirla è necessario elevarsi al di sopra di ogni volere, di ogni individualità, ed assurgere a puro soggetto di conoscenza. L’idea non è dunque accessibile se non al genio oppure all’uomo che, grazie ad una elevazione della sua facoltà di conoscenza pura (provocata il più delle volte dalle opere del genio), si trova in una disposizione geniale”.
3.1.2.2. Lo scopo [dell’arte] appare come la facilitazione della conoscenza delle idee del mondo (nel senso platonico, l’unico che io riconosca per la parola idea). Le idee però sono essenzialmente una cosa intuitiva e perciò inesauribile nelle sue determinazioni prossime. La loro partecipazione quindi può avvenire soltanto mediante la via dell’intuizione, che è quella dell’arte. Chi quindi sia riempito dalla concezione di una idea, è giustificato, se sceglie l’arte come mezzo della sua partecipazione. — Il semplice concetto invece è una cosa perfettamente determinabile, quindi esauribile, chiaramente pensata, la quale si può freddamente e sobriamente partecipare, in tutto il suo contenuto, mediante parole. Volerlo invece partecipare mediante un’opera d’arte, è un giro assai inutile, anzi è quel biasimato giocare con i mezzi dell’arte, senza conoscenza dello scopo. Perciò un’opera d’arte, di cui la concezione è scaturita da semplici chiari concetti, non è mai genuina.»
(Schopenhauer Arthur 1818 Il mondo come volontà e rappresentazione, Supplementi)

3.1.3. Croce: l’estetica dell’idealismo di origine hegeliana
3.1.3.1. il carattere di totalità e quindi di autonomia dell’espressione artistica, perché:
3.1.3.1.1. l’arte è conoscenza intuitiva e “la conoscenza intuitiva non ha bisogno di padroni”. Se è vero che l’opera d’arte viene vista e narrata attraverso concetti (con parole), questi si trovano misti e fusi nelle intuizioni e sono suoi elementi suoi caratteri e sue espressioni non concetti puri; «allo stesso modo che il rosso in una figura dipinta non sta come il concetto di colore rosso dei fisici, ma come elemento caratterizzante di quella figura» (Croce, Estetica);
3.1.3.1.2. «ogni vera intuizione o rappresentazione è, insieme, espressione». Esiste come espressione, non prima non al di fuori di quella («quasi che l’intuizione del Beethoven non fosse, per esempio, la sua Nona sinfonia e la sua Nona sinfonia la sua intuizione»): «Intuire è esprimere; e nient’altro (niente di più, ma niente di meno) che esprimere». L’arte i intuizione che si affida e materializza nell’espressione; l’arte non è al di fuori della sua forma ma nella sua forma; nell’arte i contenuti sono i contenuti della forma (Hegel). L’arte è dunque la conoscenza in cui si verifica la perfetta coincidenza di intuizione ed espressione, di forma e contenuto: i contenuti sono i contenuti della forma, non hanno una vita prima o esterna alla forma [tale coincidenza è un criterio di giudizio estetico]; «forma e contenutosi convertono incessantemente l’uno nell’altro» (Hegel);
3.1.3.1.3. nell’arte «il singolo palpita della vita del tutto»; di questa tensione (negazione e rimando tra elementi antinomici, realizzata secondo la nota logica dialettica hegeliana) vive l’opera d’arte.
«Ora, il primo punto che bisogna fissare bene in mente è che la conoscenza intuitiva non ha bisogno di padroni, non ha necessità di appoggiarsi ad alcuno; non deve chiedere in prestito gli occhi altrui perchè ne ha in fronte di suoi propri, validissimi. E se è indubitabile che in molte intuizioni si possono trovare mescolati concetti, in altre non è traccia di simile miscuglio; il che prova che esso non è necessario. L’impressione di un chiaro di luna, ritratta da un pittore; il contorno di un paese, delineato da un cartografo; un motivo musicale, tenero o energico; le parole di una lirica sospirosa, o quelle con le quali chiediamo, comandiamo e ci lamentiamo nella vita ordinaria, possono ben essere tutti fatti intuitivi senza ombra di riferimenti intellettuali. Ma, checché si pensi di questi esempi, posto anche si voglia e debba sostenere che la maggior parte delle intuizioni dell’uomo civile siano impregnate di concetti, v’è ben altro, e di più importante e conclusivo, da osservare. I concetti che si trovano misti e fusi nelle intuizioni, in quanto vi sono davvero misti e fusi, non sono più concetti, avendo perduto ogni indipendenza e autonomia. Furono già concetti, ma sono diventati, ora, semplici elementi d’intuizione. Le massime filosofiche, messe in bocca a un personaggio di tragedia o di commedia, hanno colà ufficio, non più di concetti, ma di caratteristiche di quei personaggi; allo stesso modo che il rosso in una figura dipinta non sta come il concetto del color rosso dei fisici, ma come elemento caratterizzante di quella figura. Il tutto determina la qualità delle parti. Un’opera d’arte può essere piena di concetti filosofici, può averne, anzi, in maggior copia, e anche più profondi, di una dissertazione filosofica, la quale potrà essere, a sua volta, ricca e riboccante di descrizioni e intuizioni. Ma nonostante tutti quei concetti, il risultato dell’opera d’arte è un’intuizione; e, nonostante tutte quelle intuizioni, il risultato della dissertazione filosofica è un concetto. I Promessi sposi contengono copiose osservazioni e distinzioni di etica; ma non per questo vengono a perdere, nel loro insieme, il carattere di semplice racconto o d’intuizione. (Croce Benedetto 1902 Estetica, I, 1)»  (Fubini Enrico 1980 L’estetica contemporanea, Loescher, Torino pp. 36-37)
«L’attività intuitiva tanto intuisce quanto esprime. Se questa proposizione suona paradossale, una delle cause di ciò è senza dubbio nell’abito di dare alla parola « espressione » un significato troppo ristretto, assegnandola alle sole espressioni che si dicono verbali; laddove esistono anche espressioni non verbali, come quelle di linee, colori, toni: tutte quante da includere nel concetto di espressione, che abbraccia perciò ogni sorta di manifestazioni dell’uomo, oratore, musico, pittore o altro che sia. E, pittorica o verbale o musicale o come altro si descriva o denomini, l’espressione, in una di queste manifestazioni, non può mancare all’intuizione, dalla quale è propriamente inscindibile. Come possiamo intuire davvero una figura geometrica, se non ne abbiamo così netta l’immagine da essere in grado di tracciarla immediatamente sulla carta o sulla lavagna? […] Sentimenti e impressioni passano allora, per virtù della parola, dall’oscura regione della psiche alla chiarezza dello spirito contemplatore. impossibile, in questo processo conoscitivo, distinguere l’intuizione dall’espressione. L’una viene fuori con l’altra, nell’attimo stesso dell’altra, perché non sono due ma uno.  (ivi)» (Fubini, 38-39)

«Ma l’intuizione pura o rappresentazione artistica ripugna con tutto l’esser suo all’astrazione; o, anzi, non vi ripugna nemmeno, perché la ignora, appunto per il suo carattere conoscitivo ingenuo, che abbiamo detto aurorale. In essa, il singolo palpita della vita del tutto, e il tutto è nella vita del singolo; ed ogni schietta rappresentazione artistica è se stessa e l’universo, l’universo in quella forma individuale, e quella forma individuale come l’universo. In ogni accento di poeta, in ogni creatura della sua fantasia, c’è tutto l’umano destino, tutte le speranze, le illusioni, i dolori e le gioie, le grandezze e le miserie umane, il dramma intero del reale, che diviene e cresce in perpetuo su se stesso, soffrendo e gioendo.
È perciò intrinsecamente inconcepibile che nella rappresentazione artistica possa mai affermarsi il mero particolare, l’astratto individuale, il finito nella sua finitezza; e quando sembra che ciò accada, e in certo senso accade veramente, la rappresentazione non è artistica, o non è compiutamente artistica. (Breviario di estetica)» (Fubini 49-50)

3.1.4. Nietzsche. Esperienza estetica: un’immediatezza da rimando tra opposte tensioni.
3.1.4.1. la dimensione dell’apollineo e del dionisiaco
3.1.4.2. lotta continua e continua riconciliazione, ma solo periodica, di apollineo e dionisiaco
3.1.4.3. l’idea di una rinascita è legata alla ricomparsa del dionisiaco; se la tragedia antica, e con lei l’arte, è morta con l’affermarsi della forma-concetto della ragione socratica, è dalla constatazione dei limiti della ragione (che delimita) e dal ritorno del dionisiaco che l’arte può rinascere nel suo specifico ruolo di verità (come apparire dell’essere)
3.1.4.4. il moderno ribaltamento: per Aristotele l’arte è nel campo della verosimiglianza, il vero appartiene alla scienza; per Nietzsche l’arte è nel campo della verità, la scienza in quella della verosimiglianza, dell’illusione e dell’inganno.   

«Avremo guadagnato molto per la scienza estetica, allorché saremo giunti non solo alla comprensione logica, ma anche alla certezza immediata dell’intuizione che lo sviluppo dell’arte è legato alla duplicità dell’apollineo e del dionisiaco, allo stesso modo che la generazione dipende dalla dualità dei sessi, in una lotta continua e in una riconciliazione che sopravviene solo periodicamente. Prendiamo in prestito questi nomi dai greci, che rendono percepibili alla comprensione le profonde dottrine segrete della loro visione artistica certo non attraverso concetti, ma attraverso le forme incisivamente chiare del loro mondo di dèi. Alle loro due divinità artistiche, Apollo e Dioniso, si ricollega la nostra concezione che nel mondo greco sussiste un enorme contrasto, sia per l’origine che per gli scopi, tra l’arte dello scultore, apollinea, e l’arte non figurativa della musica, quella di Dioniso. Entrambi gli impulsi, così diversi, procedono l’uno accanto all’altro, per lo più in aperto dissidio tra loro e reciprocamente eccitandosi a pàrti sempre nuovi e più vigorosi, per perpetuare in essi la lotta di quel contrasto, che la comune parola “arte” supera solo apparentemente; finché essi, infine, per un miracoloso atto metafisico della “volontà” ellenica, compaiono accoppiati l’uno con l’altro, e in questo accoppiamento da ultimo producono l’opera d’arte, sia dionisiaca che apollinea, della tragedia attica.
[La tragedia greca come unione di apollineo e dionisiaco]
[.1 qui si offre ai nostri sguardi l’opera d’arte sublime e altamente celebrata della tragedia attica e del ditirambo drammatico, come mèta comune a entrambi gli impulsi, il cui misterioso connubio, dopo una lunga lotta di preparazione, si è glorificato in una tale creatura, che è insieme Antigone e Cassandra . [...] dobbiamo intendere la tragedia greca come coro dionisiaco, che sempre di nuovo si scarica in un mondo apollineo di immagini. Quelle parti del coro, di cui la tragedia è intessuta, sono dunque, in certo modo, la matrice di tutto il cosiddetto dialogo, cioè dell’intero mondo scenico, del dramma vero e proprio. Questo fondamento originario della tragedia, per mezzo di più scariche successive, irradia quella visione del dramma, che è in tutto e per tutto fenomeno onirico, e in quanto tale di natura epica, ma che d’altra parte, come oggettivazione di uno stato dionisiaco, non rappresenta la liberazione apollinea nell’apparenza, ma, al contrario, la frantumazione dell’individuo e il suo divenire tutt’uno con l’essere originario. Con ciò il dramma è la rappresentazione sensibile apollinea di conoscenze ed effetti dionisiaci e, attraverso di questi, è separato dall’epos come da un immenso abisso. Nell’effetto complessivo della tragedia il dionisiaco prende di nuovo il sopravvento; essa si chiude con un accento, che mai potrebbe risuonare dal regno dell’arte apollinea. E con ciò l’illusione apollinea si mostra per quello che è; vale a dire: come il velo che, per tutta la durata della tragedia, copre l’autentico effetto dionisiaco, il quale però è cosi potente da spingere alla fine il dramma apollineo in una sfera in cui comincia a parlare con saggezza dionisiaca e in cui nega sé stesso e la sua evidenza apollinea. Così si potrebbe davvero simboleggiare il difficile rapporto tra l’apollineo e il dionisiaco nella tragedia con un legame fraterno delle due divinità: Dioniso parla la lingua di Apollo, ma, alla fine, Apollo parla la lingua di Dioniso. Con questo è raggiunto il fine supremo della tragedia e dell’arte in generale.»  p..35, 40-41
Dall’antologia a cura di Rossi Dalmazio (a cura di), Nietzsche: la verità dell’arte, Cedam, Padova 1994
«Ma se nel corso dell’accennata esemplificazione abbiamo giustamente messo in relazione la scomparsa dello spirito dionisiaco con una evidentissima, ma finora inspiegata, trasformazione e degenerazione dell’uomo greco , quali speranze devono in noi risorgere, quando i più sicuri auspici ci garantiscono, nel mondo attuale, il processo inverso, il graduale risveglio dello spirito dionisiaco!»
Nietzsche F. La Nascita della tragedia, ivi, p.50

3.1.5.Heidegger: arte-poesia nello svelarsi (verità) dell’essere
3.1.5.1. il contesto delle considerazioni sull’arte, espresse da Heidegger, è costituito dalla cosiddetta "svolta" (Kehre), (a partire dal 1934) : e-sistere nell'apertura, nella radura dell'essere («che in tale svolta l’oblio si volti in salvaguardia dell’essere invece di lasciare che la dissimulazione avvolga questa essenza … la svolta dell’oblio dell’essere nella verità dell’essere»). I passaggi:
- collocarsi dell'uomo e del pensiero nell'essere / nella verità attraverso il linguaggio  
- definizione di esistenza come "e-sistenza": «lo stare nella radura dell'essere, lo chiamo e-sistenza dell'uomo», «in ordine al contenuto e-sistenza significa stare-fuori (Hin-aus-stehen) nella verità dell'essere» o «lo stare-dentro-estatico nella radura dell'essere»;  e-sistenza anche linguistica: «il pensiero non riusciva a dire in modo adeguato questa svolta (Kehre) e non ne veniva a capo con l'aiuto del linguaggio della metafisica»
- stare nell'apertura dell'essere e della verità: il linguaggio. «Il linguaggio è la casa dell'essere. Nella sua dimora abita l'uomo. I pensatori e i poeti  sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è il portare a compimento la manifestazione dell'essere», « …il componimento, inteso come parola che noi non abbiamo davanti, ma che a partire da sé deve accoglierci nello spazio della sua verità…  Frequentazioni della parola non sono mai possibili; sarà invece la parola a "trovarci" o a "trascurarci"»
3.1.5.2. l’arte  (L’origine dell’opera d’arte in “Sentieri erranti nella selva” ) è definita dall’autoreferenzialità (non “cosa”); letta con i concetti di materia e forma diventa: qui la materia è nella forma del comparire; è accadere dell’essere; si colloca quindi in contesto ontologico; il tema della bellezza cede il posto al tema della verità: la verità dell’arte (della poesia, in cui ogni arte si risolve, secondo Heidegger) collocata nel suo rapporto con l’essere. che in rapporto all’essere non 3.1.5.3. essenza dell’arte – poesia dall’incontro analitico ed etico del poetare con il filosofare:
- il testo poetico conserva la parola nel suo punto ortivo (il dettato d’origine «resta fermo nel suo disdirsi alla parola»)
- la filosofia evidenzia nel testo poetico l’accadere dell’essere e il movimento dell’esistenza  (stare fuori nel, puntualizzare, immettere nel cammino, ascolto del dis-velarsi)
- «l’esilio come punto ortivo del dettato d’origine» e gli ossimori dello “stanziarsi nell’esilio”
«Ecco: l’anima è un’indole estranea sulla terra» «Il parlato della poesia costituisce il dettato d’origine stanziandolo come il fermamente disdetto alla parola».

«Nell’opera si attua lo storicizzarsi della verità, e precisamente nel modo dell’essere-in-opera. Perciò l’essenza dell’arte venne da noi intesa come il porre in opera la verità. Ma questa determinazione è volutamente ambigua. […]   Ogni arte, in quanto lascia che si storicizzi l’avvento della verità dell’ente come tale, è nella sua essenza poesia. L’essenza dell’arte, in cui risiedono contemporaneamente opera d’arte e artista, è il porsi in opera della verità. Dall’essenza poetica dell’arte deriva lo spalancarsi, nel mezzo dell’ente, di un luogo aperto, nella cui apertura ogni cosa è diversa dall’abituale… L’arte in quanto messa in opera della verità, è poesia».
«L’origine dell’opera d’arte, cioè ad un tempo, dei facenti e dei salvaguardanti – ossia dell’esserci storico di un popolo – è l’arte. E ciò perché l’arte è nella sua essenza origine e null’altro: una maniera eminente in cui la verità si fa essente, cioè storica».  

3.1.6. la relazione arte e inconscio nelle interpretazioni psicanalitiche
3.1.6.1. Il quesito fondamentale che Freud si pone è quello di individuare il meccanismo della psiche umana da cui trae origine l’attività poetica. Freud dà una prima risposta osservando la somiglianza tra il mondo del gioco infantile e il mondo fantastico creato dal poeta. «Forse si può dire che il bambino impegnato nel gioco si comporta come un poeta: in quanto si costruisce un suo proprio mondo o, meglio, dà a suo piacere un nuovo assetto alle cose del suo mondo. Avremmo torto se pensassimo che il bambino non prenda sul serio un tale mondo; egli prende anzi molto sul serio il suo gioco e vi impegna notevoli importi d’affetto. Il contrario del gioco non è ciò che è serio, bensì ciò che è reale.» (S. Freud, Saggi sull’arte, la letteratura e il linguaggio)
3.1.6.2. Il contesto dell’inconscio, della fantasia e del mito torna nell’analisi di Jung. In particolare, per Jung, l’arte affonda le sue radici in una sfera più vasta e misteriosa dell’inconscio dell’autore, cioè nell’inconscio collettivo, i cui contenuti sono stati repressi nell’umanità e «tenuti artificialmente al di sotto della soglia della coscienza». «Ho considerato qui il caso di un’opera d’arte simbolica, e per di più, di un’opera d’arte le cui origini non sono da cercarsi nel subconscio personale dell’autore, ma in quella sfera della mitologia incosciente, le cui immagini primordiali sono proprietà comune dell’umanità. […] Colui che parla con immagini primordiali, è come se parlasse con mille voci; egli afferra e domina, e al tempo stesso eleva, ciò che ha designato dallo stato di precarietà e di caducità alla sfera delle cose eterne; egli innalza il destino personale a destino dell’umanità e al tempo stesso libera in noi tutte quelle forze soccorritrici, che sempre hanno reso possibile all’umanità di sfuggire ad ogni pericolo e di sopravvivere persino alle notti più lunghe.» ( G. Jung, Il problema dell’inconscio nella psicologia moderna

3.1.7. « il Bello del quadro che esiste solo nel quadro»: Kandinsky, l’arte non rappresentativa
3.1.7.1. premessa: bellezza e arte. La tradizione estetica che va alla ricerca della sede fisica della bellezza afferma l’esistenza di una bellezza naturale e di una bellezza artistica; ma la relazione dell’arte e della natura con la bellezza non è la stessa. L’albero reale è “in primo luogo” albero, solo in “secondo luogo” bello; l’albero dipinto è “in primo luogo” bello e non bello in aggiunta.
«Il pittore che dipinge un bell’albero, dipinge non l’albero ma la bellezza dell’albero … se non riesce a rappresentare il bello dell’albero, non riesce a fare un quadro, sporca (colora) una superficie. L’arte è quindi l’arte di estrarre il Bello dalla sua incarnazione concreta [dal reale non artistico] e mantenerlo nella sua purezza … o …è l’arte di conservare un Bello “in sé e per sé” incarnandolo in un essere – quadro, scultura, musica, poesia ecc. – che è solo nella misura in cui è Bello, incarna il Bello».  
3.1.7.2. due tappe del rapporto bellezza e arte (due concezioni estetiche):

  1. arte “rappresentativa”, che viene storicamente identificata in varie tipologie (qui applicate alla pittura):

 - simbolica (talora detta primitiva): rappresenta “in schema”
- realista: rappresenta il bello quale si rivela allo studio oculare dell’artista
- impressionista: rappresenta il bello dell’impressione che il bello dell’oggetto produce sul pittore
- espressionista: rappresenta l’attitudine che un soggetto prova di fronte ad un oggetto
b. arte “non rappresentativa”: «L’arte della pittura “non rappresentativa” è l’arte di incarnare, in e tramite un disegno colorato, un dipinto disegnato o un dipinto vero e proprio, un bello pittorico che non è stato incarnato in nessun altro luogo e nemmeno in nessun altro oggetto reale, non artistico. Quest’arte può essere definita l’arte di Kandinsky … fu il primo a dipingere quadri oggettivi e concreti … il quadro non “rappresenta” nulla che sia esterno a se stesso, il suo Bello è anche puramente immanente. E’ il Bello del quadro che esiste solo nel quadro… Ogni quadro di Kandinsky è un universo reale, completo, cioè concreto, rinchiuso in se stesso e sufficiente a se stesso … Ed è per questo che la pittura “non-rappresentativa” di Kandinsky può essere definita “pittura totale” o “uni-totale”: l’arte di creare degli Universi, il cui essere si riduce al loro Bello. Questa pittura “totale” si oppone quindi alla pittura “rappresentativa”, vale a dire alle pitture “simboliche”, “realiste”, “impressioniste”, ed “espressioniste”. … in ognuno dei suoi quadri crea un Universo concreto e oggettivo, creato ex-nihilo, dato che non esisteva prima e che non proviene dal nulla, e che è in sé completo e unico, dato che non esiste al di fuori di se stesso … non sono astrazioni di una cosa qualsiasi che esista al di fuori di esse, ma universi completi e reali che esistono in-tramite-e-per esse stesse, allo stesso titolo dell’Universo reale non-artistico.»
Kojève Alexandre 2005 Kandinsky, Quodlibet, Macerata (citazioni libere)

3.02. tradizione “positivista”: progresso tecnico e nuova estetica, caratteri generali
3.02.1. l’estetica nasce come riflessione autonoma a partire dall’operare dell’artista, dai materiali usati, dai generi e dagli stili concretamente individuabili
3.02.2. nasce come atteggiamento di osservazione e si configura come disciplina empirica che descrive il fare e il prodotto artistico servendosi degli strumenti di tutte le scienze fisiche (o naturali: ottica, acustica, meccanica, geometria, chimica …) e di tutte le scienze sociali (psicologia, sociologia, storia, linguistica, semiologia …)
3.02.3. trova il proprio contesto nella cultura “positivista” e nella attenzione riservata al dato e alle scienze dette positive in quanto riportano i fatti a leggi intendendo queste come relazione tra i dati.
3.02.4. il contesto sociale più ampio è dato dall’età della produzione industriale in serie e dei nuovi canoni estetici ad essa coerenti

3.2. tradizione “positivista”: progresso tecnico e nuova estetica, alcuni autori e movimenti
3.2.1. Il formalismo e la polemica antiromantica.
La polemica antiromantica è presente nelle posizioni del formalismo, a partire dalla fine dell’ ‘800 e nel primo ‘900,  a partire dalla critica artistica che pone al centro dell’analisi l’elemento tecnico: «Il formalismo si presenta in genere come un movimento di pensiero orientato in senso anti-romantico e impegnato a distruggere molti dei miti romantici sull’arte. Al concetto di genio si preferisce sostituire quello di artigiano; all’ispirazione il lavoro quotidiano; al sentimento ispiratore la costruzione formale; all’espressione lo stile; all’intuizione il paziente lavoro tecnico.» (Fubini, o.c. 73). Il riferimento è a Heinrich Wölfflin, Johan Huizinga (arte gioco e cultura), Paul Valéry.

3.2.2. La tradizione estetica del metodo storico materialistico dialettico
3.2.2.1. adottando il metodo suggerito dai testi di Marx, del materialismo storico dialettico, l’uscita dal romanticismo è consegnata a tre rapporti: arte e tecnica, arte e concetti, arte e società.
3.2.2.2. arte e tecnica: «ci limiteremo a rinviare a quanto dice Marx … — nelle affermazioni da noi citate in un contesto del tutto diverso trattando dei problemi logici della particolarità — per dimostrare come l’avvento e l’egemonia della macchina abbia sempre più liberato la tecnica dell’industria da tutte le sue barriere antropologiche.» Georg Lukács (Prolegomeni a un’estetica marxista)
3.2.2.3. arte e concetti, in termini di astrazione determinata; la concettualità dell’arte e il suo valore conoscitivo: «L’ostacolo più grave che l’estetica e la critica letteraria (per limitarci, al momento, a quest’ultima) trovano ancora oggi sulla loro strada è il termine «immagine» o «immaginazione» (poetica) tuttora carico dell’eredità romantica e del misticismo estetico che le è proprio, per cui, anche essendo la « immagine » poetica intesa come simbolo o veicolo di verità, si sottintende che ciò non è dovuto affatto alla compresenza organica o comunque efficiente dell’intelletto o discorso o di idee (che restano il grande nemico della poesia): e tuttavia si insiste sulla «veracità» della «immagine», quindi sulla cosmicità o universalità e valore conoscitivo («intuitivo» si dice). […] 
Altro che rapporto di un che di strumentale provvisorio (spiegazione) a un fine (immagine)! La cosa interessante qui è che la compresenza del concetto o significato intellettuale all’immagine si manifesta con la massima urgenza problematica nel caso della «immagine » più bella o schiettamente bella in cui culminano tutte le precedenti, le quali sono anch’esse (occorre dirlo?) immagini-concetti in quanto parole di un lessico. Bisogna cominciare ad ammettere che più è significativa o pregna di sensi e più l’immagine è icastica ossia è immagine? E che ciò sia di gran momento per la sua veracità nel senso che la veneranda equazione bellezza = verità abbia una ragione gnoseologica scientifica, complessa, e non certo estetistica e metafisica? […] Da quel che precede, e precisamente dalla natura di intellettualità concreta, di complesso logico-intuitivo e, in questo senso, di discorso, della poesia, si può derivare, se non erriamo, fondatamente il carattere di tipicità (e quindi di tendenziosità) dei valori poetici, in genere  […]
Già all’inizio della ricerca siamo stati obbligati a tener conto dell’aspetto semantico (verbale, linguistico) delle « immagini » poetiche prese in esame, proprio per mostrare che, non essendovi — in concreto — immagini poetiche senza comuni denominatori lessicali (e, sottinteso, grammaticali), ed essendo, questi, veicoli anche di concetti, si aveva così una prima smentita di fatto del tradizionale misticismo estetico, secondo il quale la poesia è « intuizione (o immagine) pura » però misticamente idest misteriosamente «cosmica» ossia universale.»
Galvano della Volpe, Critica del gusto (in Fubini, o.c.)
3.2.2.4. arte e società, analisi attuata attraverso l’attenzione al mezzo. «Il problema del rapporto di arte e società si tramuta oggi in quello del rapporto dei vari linguaggi artistici con la società o sovrastruttura che si dica … Il che significa anche l’avvento (ma non il sopravvento, si badi) della indagine, finalmente, delle tecniche o dei mezzi artistici, contro il lungo dominio dell’astratto «spiritualismo» dell’estetica romantica, nemica per costituzione della tecnica, delle «regole», e insomma dei mezzi da cui nasce l’opera d’arte in genere. E si noti, per un momento, che questa repugnanza idealistica e romantica per la tecnica dell’arte la ritroviamo ancora in teorici marxisti, o sedicenti tali, come il Lukács, « marxista » fortemente hegelianeggiante …» G. Della Volpe, ivi
3.2.2.4.1 vale il contrario: società e arte. Il rapporto tra arte e tecnica (cioè «l’analisi concreta delle relazioni tra la moderna attività dell’uomo e le sue aspirazioni estetiche» - Pierre Francastel), tra arte e società è caratteristica prevalente delle interpretazioni sociologiche dell’arte, ma si dà anche la relazione contraria, cioè l’indagine della società, della sue complessità, stratificazione e dinamiche a partire dall’arte, dalla funzione estetica e dalla critica sociale del gusto. È l’impostazione di Pierre Bourdieu, nell’opera: La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino, Bologna 1995.
3.2.2.4.1.1. Il presupposto richiamato è drastico: « Se, come osserva Erwin Panovsky, l’opera d’arte è proprio ciò che esige di venir percepita secondo una intenzione estetica (demands to be experienced esthetically) e se, d’altra parte, qualsiasi oggetto, sia naturale che artificiale, può venir percepito secondo un’intenzione estetica, come è possibile sottrarsi alla conclusione che è proprio l’intenzione estetica che «fa» l’opera d’arte o, con una trasposizione della formula di Saussure, che è il punto di vista estetico che crea l’oggetto estetico?»
3.2.2.4.1.2. Il quadro che ne emerge è innovativo: « Di tutti gli oggetti offerti alle scelte dei consumatori, non ne esistono di più classificanti delle opere d’arte legittime; le quali, essendo globalmente distintive, permettono di produrre dei distinguo all’infinito, grazie al gioco delle divisioni e delle suddivisioni in generi, epoche, maniere, autori, ecc. Nell’universo dei gusti particolari, che può rigenerarsi attraverso successive ripartizioni, si possono in tal modo distinguere, attenendosi alle opposizioni principali, tre universi di gusti che, grosso modo, corrispondono a tre livelli scolastici ed a tre classi sociali: il gusto legittimo,cioè il gusto per le opere legittime, che in questo caso sono rappresentate dal clavicembalo ben temperato, dall’Arte della fuga, dal Concerto per la mano sinistra (o, nel campo della pittura, da Bruegel o da Goya) … aumenta con il livello scolastico e raggiunge la frequenza più alta tra le frazioni della classe dominante più ricche di capitale scolastico; il gusto «medio», che riunisce le opere minori delle arti maggiori, come in questo caso la Rapsodia in blu, la Rapsodia, ungherese (o, anche, in pittura, Utrillo, Buffet e persino Renoir) e le opere maggiori delle arti minori… è più frequente tra le classi medie che non tra le classi popolari o le frazioni «intellettuali» della classe dominante; infine, il gusto «popolare» — rappresentato in questo caso dalla cosiddetta musica «leggera», o dalla musica colta deprezzata dalla divulgazione come il Danubio blu, la Traviata, l’Arlesiana e soprattutto da canzoni completamente prive di ambizioni o di pretese artistiche… raggiunge la sua massima frequenza tra le classi popolari e varia in ragione inversa al capitale scolastico (il che spiega come mai esso sia un po’ più frequente tra gli industriali ed i grossi commercianti, e persino tra i quadri superiori, che non tra i maestri elementari e gli operatori culturali).» (15-17)
3.2.2.4.1.3. prende forma analitico-critica un nuovo soggetto, spesso citato come determinante per le scelte artistiche, ma indefinito: il gusto popolare, l’estetica popolare e la sua trasversalità sociale, alimentata da un’estetica pubblicitaria. Alla radice delle scelte estetiche del gusto popolare si trova «una profonda attesa di partecipazione, che la ricerca formale sistematicamente delude … Il desiderio di entrare nel gioco, identificandosi nelle gioie o nei dolori dei personaggi, interessandosi al loro destino, abbracciando le loro speranze e la loro causa, la loro giusta causa, vivendo la loro vita, si basa su una specie di investimento, su una sorta di partito preso per l’«ingenuità», la spontaneità, la credulità da pubblico alla buona («ci andiamo per divertirci»), che tende ad accettare le ricerche formali e gli effetti propriamente artistici solo nella misura in cui si fanno dimenticare e non finiscono inveceper ostacolare la percezione di ciòche costituisce la sostanza stessa dell’opera.» (34-37 passim)

3.2.3. estetica e linguistica
l’arte è linguaggio, il linguaggio e la linguistica sono contesto di analisi e teorie estetiche.
Premesse di contesto:
3.2.3.01. nessuno riduce il linguaggio alla parola: «Di solito non si mette in dubbio che ci siano linguaggi non verbali, benché si discuta sulla parte che spetta a tali linguaggi e sulla loro relazione con il linguaggio parlato. Ben pochi negherebbero che i sordi e i muti non comunichino linguisticamente; la maggior parte delle persone includerebbe lo scrivere entro il linguaggio... E, in tali casi, è convincente la pretesa che questi linguaggi, geneticamente, compaiano più tardi e così dipendano storicamente dal linguaggio parlato. Come stanno ora le cose a proposito delle arti? Si è soliti parlare del linguaggio della musica e della pittura; in casi di tal genere il termine « linguaggio » si deve prendere letteralmente o metaforicamente?» Charles Morris, Segni, linguaggi e comportamento (in Fubini, o.c.)
3.2.3.02. l’arte ha una funzione comunicativa ed è formalmente definita in rapporto a questa funzione
3.2.3.03. l’arte è composizione articolata anche se non discorsiva
3.2.3.04. l’osservatorio sull’arte dal punto di vista linguistico (anche in polemica con le estetiche idealistiche e metafisiche, più che fornire definizioni, vuole offrire strumenti di analisi per la lettura e l’interpretazione dell’opera (Fubini o.c.).
3.2.3.1. Langer: “l’arte, pur senza possedere le caratteristiche del linguaggio — infatti essa non possiede un vocabolario, pur possedendo una sintassi — può essere definita come la creazione di forme simboliche del sentimento. L’arte è perciò una « forma significante », simbolo articolato ma non discorsivo, il cui significato « è sentito come qualità piuttosto che riconosciuto come funzione»” (Fubini o.c.).
«L’intuizione è il processo che sta alla base di ogni intendimento, e opera tanto nel pensiero discorsivo quanto nella chiara percezione sensoriale e nel giudizio immediato; e molto ci sarebbe ancora da dire. Ma essa non è comunque un sostituto della logica discorsiva nella elaborazione di qualsiasi teoria, contingente o trascendentale...  Il concetto fondamentale sta nella forma articolata, ma non discorsiva, con una portata ma senza riferimenti convenzionali, e tale perciò da presentarsi non già come simbolo nel senso ordinario, ma come “forma significante”, in cui il fattore della significanza non è discriminato logicamente, ma è sentito come qualità piuttosto che riconosciuto come funzione.» Susanne Langer, Sentimento e forma (in Fubini o.c.)

3.2.3.2. Morris: «La differenziazione della musica e della pittura dagli altri linguaggi non consiste dunque in quanto viene significato o nel modo in cui viene significato, ma nella funzione dominante che le iconi assolvono nel significare. E se la forza del segno iconico sta nella sua abilità a far vedere ciò che esso significa, la sua debolezza sta nel fatto che può significare soltanto ciò che gli somiglia: un campo più largo di quanto non possa essere supposto, ma molto meno largo di quanto non esigerebbero i bisogni umani. Il segno iconico è male adatto all’identificazione spaziale e temporale, cosicché la musica e la pittura non rappresentano un materiale soddisfacente per il discorso scientifico: i disegni e le tabelle sono usati piuttosto come mezzi ausiliari del linguaggio verbale, non potendo essi sostenere completamente le asserzioni scientifiche. Né le prescrizioni vengono date facilmente mediante iconi; gli elementi essenziali di qualsiasi letteratura religiosa non sono formulabili adeguatamente con la musica o la pittura soltanto. E i formatori sono trattati malamente in mezzi diversi dal parlare o dallo scrivere. Ne risulta che la musica e la pittura si sono mostrate più indispensabili per il discorso apprezzativo-valutativo, poiché esse, nelle loro iconi, possono contenere vividamente e concretamente le caratteristiche proprie degli oggetti che, mediante la loro capacità apprezzativa, esse significano come valutata.» Charles Morris, Segni, linguaggi e comportamento (in Fubini, o.c.)

3.2.4. la “Teoria Critica della Società o “Scuola di Francoforte”
in particolare Theodor Adorno, Herbert Marcuse, Walter Benjamin.
Nella scelte di metodo della Scuola di Francoforte, allo scopo di avviare un osservatorio critico sulla contemporaneità, convergono le competenze di metodo di Hegel, Marx, Freud riesaminate nella loro fallacia operativa e reimpostate come strumenti di osservazione e di analisi teorica e pratica. Il campo dell’indagine sociale è il più vasto possibile: lo Stato autoritario, la socializzazione famigliare e evoluzione dell’io, i mass media e la cultura di massa, l’industria culturale, l’analisi dei processi di reificazione della coscienza e di paralisi della protesta, i potenziali sociali di protesta, la teoria dell’arte come critica all’ideologia, come avviene l’accesso al mondo della vita         (Lebenswelt). Sul tema estetico, «comuni sono l’interesse per l’arte in chiave sociologica, per la sua funzione nel mondo capitalistico, per i rapporti tra l’arte e la società di massa, e l’attenzione alle avanguardie del Novecento e al loro significato socio-politico.» Non sono univoche, tuttavia, le posizioni.
3.2.4.1. Adorno «vede nella società di massa la negazione stessa della possibilità di esistenza di un’arte autentica. La società di massa con la sua carica totalitaria annienta il soggetto; nella nostra società mercantile, in cui l’unico valore è quello dello scambio e del consumo, l’arte come espressione del soggetto non trova più posto altro che nelle sue forme alienate. L’artista, secondo Adorno, non ha oggi altra forma di autenticità che quella di prendere coscienza della crisi e di ritirarsi in solitudine; soltanto così egli può sperare di assumere la sua funzione propria, di “fermento di mutamento”, per ridursi a “semplice rappresentante della società” ». (Fubini o.c.)
3.2.4.2. Marcuse «attribuisce invece all’arte un valore liberatorio, e anzi ritiene che soltanto l’arte potrà domani liberare l’uomo dall’alienazione propria alla società di massa e al capitalismo avanzato.» (ivi)
3.2.4.3. Benjamin concentra la propria attenzione sul tema: «L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica», l’opera sua più nota del 1936. Alcune note preliminari:
1. Per Benjamin l’arte non è tanto un’entità astratta da studiarsi nella sua peculiarità, quanto un concreto rapporto tra società e opera d’arte, che è in continua trasformazione in relazione ai reali rapporti di produzione.
2. Il fenomeno della riproducibilità dell’opera d’arte assume in Benjamin il valore di un indice fondamentale, di una spia rivelatrice del rapporto fruitivo in cui essa s’inserisce. La perdita dell’aura e del valore cultuale connessa con l’attuale riproducibilità dell’arte e con la nascita di nuove arti come la fotografia e il cinematografo, già concepite in vista della loro infinita riproducibilità e della loro ampia esponibilità, hanno posto le premesse di un nuovo tipo di rapporto arte-società che inciderà in modo non soltanto quantitativo ma qualitativo sulla stessa struttura dell’opera d’arte. …Per Benjamin la rivoluzione artistica dell’avanguardia del Novecento si rivela non tanto in ipotetici nuovi contenuti, ma soprattutto nella struttura tecnica dell’opera d’arte. La riproducibilità e, con ciò, la serialità sono determinanti per l’uscita dell’arte dalla sfera della sacralità, luogo di conservazione e difesa dell’aura.
3. Il processo di riproducibilità, destinato ad avvicinare l’arte alle masse, è considerato come un indice positivo. Pur non ignorando i rischi inerenti alla massificazione dell’arte e della cultura presenti nel fascismo e nell’estetizzazione della politica, Benjamin è convinto che la riproducibilità può portare, se correttamente usata, anche alla « politicizzazione dell’arte », cioè a una democratizzazione dei valori di cui essa è portatrice.
4. I concetti tradizionali di creatività, genialità, eccezionalità ed unicità dell’opera servono a una politica culturale di tipo fascista; in questa prospettiva si colloca la rivalutazione delle arti minori, dell’umile e anonimo artigianato e insieme delle più moderne tecniche che hanno permesso non soltanto la riproducibilità dell’opera d’arte, ma soprattutto la creazione di nuove arti strutturalmente previste per la riproducibilità, come la fotografia e il cinematografo.» (Fubini)
5. La portata più ampia della riproducibilità. «L’arte di Andy Worhol è l’esempio tipico di questa riduzione del mondo a una superficie pellicolare e quasi fotografica: l’immagine ripete se stessa perdendo il suo referente ultimo, in un gioco di rimandi che si risolve nella reificazione dell’immagine stessa. […] Andy Warhol accentua l’effetto riproduttivo (che azzera del tutto ogni novità e originalità) attraverso la serializazione: Thirty are better than one, il titolo di una delle sue opere più note, in cui riproduce serigraficamente per trenta volte l’immagine della Gioconda, o di Marilyn Monroe, esprime bene l’effetto massificante e banalizzante che subisce ogni prodotto (anche l’opera d’arte) quando è presa nel ciclo della riproduzione.» Chiurazzi, Gaetano 2002 Il postmoderno, B.Mondadori, Milano p.16, 25
6. La riproducibilità tende a cancellare la differenza tra “estetico” e tecnico, come a restituire alla parola arte / techne l’ambiguità originaria, quella presente nelle opere di Platone. Dato che è sostenuto dalla migrazione che interessa la bellezza. Dall’osservazione dei moderni edifici a destinazione produttiva fino agli oggetti dell’utensileria quotidiana, frutto di design,  risulta impossibile trascurare la transizione della bellezza (tradizionale-formale) dal campo dell’arte al campo della produzione seriale economica; alla scomparsa dell’oggetto nell’arte (“derealizzazione”) o della bellezza nelle sperimentazioni estetiche, corrisponde la comparsa della bellezza nell’oggetto quotidiano, definito e prodotto secondo la logica della serialità.

« Nel giro di lunghi periodi storici, insieme coi modi complessivi di esistenza delle collettività umane, si modificano anche i modi e i generi della loro percezione sensoriale. Il modo secondo cui si organizza la percezione sensoriale umana —  il medium in cui essa ha luogo — non è condizionato soltanto in senso naturale, ma anche storico. […]Sulla base di questa descrizione è facile comprendere il condizionamento sociale dell’attuale decadenza dell’aura. Essa si fonda su due circostanze, entrambe connesse con la sempre maggiore importanza delle masse nella vita attuale. E cioè: rendere le cose, spazialmente e umanamente, più vicine è per le masse attuali un’esigenza vivissima , quanto la tendenza al superamento dell’unicità di qualunque dato mediante la ricezione della sua riproduzione. Ogni giorno si fa valere in modo sempre più incontestabile l’esigenza a impossessarsi dell’oggetto da una distanza il più possibile ravvicinata nell’immagine, a meglio nell’effigie, nella riproduzione. E inequivocabilmente la riproduzione, quale viene proposta dai giornali illustrati o dai settimanali, si differenzia dall’immagine diretta, dal quadro. L’unicità e la durata s’intrecciano strettissimamente in quest’ultimo, quanto la labilità e la ripetibilità nella prima. La liberazione dell’oggetto dalla sua guaina, la distruzione dell’aura sono il contrassegno di una percezione la cui sensibilità per ciò che nel mondo è dello stesso genere è cresciuta a un punto tale che essa, mediante la riproduzione, attinge l’uguaglianza di genere anche in ciò che è unico. Così nell’ambito dell’intuizione si annuncia ciò che nell’ambito della teoria si manifesta come un incremento dell’importanza della statistica. L’adeguazione della realtà alle masse e delle masse alla realtà è un processo di portata illimitata sia per il pensiero sia per l’intuizione.  […] Un’antica statua di Venere, per esempio presso igreci, che la rendevano oggetto di culto, stava in un contesto tradizionale completamente diverso da quello in cui la ponevano i monaci medievali, che vedevano in essa un idolo maledetto. Ma ciò che si faceva incontro sia ai primi sia ai secondi era la sua unicità, in altre parole: la sua aura. Il modo originario di articolazione dell’opera d’arte dentro il contesto della tradizione trovava la sua espressione nel culto. […]  Vale a dire: quando con la nascita del primo mezzo di riproduzione veramente rivoluzionario, la fotografia (contemporaneamente al delinearsi del socialismo), l’arte avvertì l’approssimarsi di quella crisi che passati altri cento anni è diventata innegabile essa reagì con la dottrina dell’arte per l’arte, che costituisce una teoria dell’arte. Successivamente da essa è proceduta addirittura una teologia negativa nella forma dell’idea di un’arte « pura », la quale non soltanto respinge qualsivoglia funzione sociale, ma anche qualsiasi determinazione da parte di un elemento oggettivo. Tenere conto di queste connessioni è indispensabile per un’analisi che abbia a che fare con l’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica. Perché esse prefigurano una scoperta decisiva per questo ambito: la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte emancipa per la prima volta nella storia del mondo quest’ultima dalla sua esistenza parassitaria nell’ambito del rituale. L’opera d’arte riprodotta diventa in misura sempre maggiore la riproduzione di un’opera d’arte predisposta alla riproducibilità. Di una pellicola fotografica per esempio è possibile tutta una serie di stampe; la questione della stampa autentica non ha senso. Ma nell’istante in cui il criterio dell’autenticità nella produzione dell’atte viene meno, si trasforma anche l’intera funzione dell’arte. Al posto della sua fondazione nel rituale s’instaura la fondazione su un’altra prassi: vale a dire il suo fondarsi sulla politica.  […]  La riproducibilità tecnica dell’opera d’atte modifica il rapporto delle masse con l’arte. Da un rapporto estremamente retrivo, per esempio nei confronti di un Picasso, si rovescia in un rapporto estremamente progressivo, per esempio nei confronti di un Chaplin. Ove l’atteggiamento progressivo è contrassegnato dal fatto che il gusto del vedere e del rivedere si connette in lui immediatamente con l’atteggiamento del giudice competente. Questa connessione è un importante indizio sociale. Infatti, quanto più il significato sociale di un’arte diminuisce, tanto più il contegno critico e quello della mera fruizione da parte del pubblico divergono. Il convenzionale viene goduto senza alcuna critica, ciò che è veramente nuovo viene criticato con ripugnanza.  […]  L’osservatore non deve lasciarsi ingannare dal fatto che questa partecipazione si manifesta dapprima in forme screditate. […]  Anche colui che è distratto può abituarsi. Più ancora: il fatto di essere in grado di assolvere certi compiti anche nella distrazione dimostra innanzitutto che per l’individuo in questione è diventata un’abitudine assolverli. Attraverso la distrazione, quale è offerta dall’arte, si può controllare di sottomano in che misura l’appercezione è in grado di assolvere compiti nuovi. Poiché del resto il singolo sarà sempre tentato di sottrarsi a questi compiti, l’arte affronterà quello più difficile e più importante quando riuscirà a mobilitare le masse. Attualmente essa fa questo attraverso il cinema. La ricezione nella distrazione, che si fa sentire in modo sempre più insistente in tutti i settori dell’arte e che costituisce il sintomo di profonde modificazioni dell’appercezione, trova nel cinema lo strumento più autentico su cui esercitarsi. Grazie al suo effetto di shock il cinema favorisce questa forma di ricezione. Il cinema svaluta il valore cultuale non soltanto inducendo il pubblico a un atteggiamento valutativo, ma anche per il fatto che al cinema l’atteggiamento valutativo non implica attenzione. Il pubblico è un esaminatore, ma un esaminatore distratto.»
Benjamin Walter 1936 L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 1974, pp. 24-28, 44-46
«È successo che, oggi, la produzione estetica si è integrata nella produzione di merce in generale: la frenetica necessità economica di produrre nuove linee di beni dall’aspetto sempre più inconsueto (dal vestiario agli aeroplani), con un giro d’affari sempre più grande, assegna all’innovazione e alla sperimentazione estetiche una funzione e una posizione strutturali sempre più essenziali. Queste necessità economiche trovano poi un riconoscimento nei diversi sostegni istituzionali offerti all’arte più recente, dalle fondazioni ai musei alle donazioni e ad altre forme di patronato.»
Jameson, Friedric 1984 Il postmoderno, o la logica culturale del tardocapitalismo, Garzanti, Milano 1989, p.17

3.3. come conclusione:  le antinomie come definizione dell’arte
3.3.1. binomi in opposizione – conciliazione, o meglio antinomie: intuizione – concetti, visione – pensiero, finito – infinito, contenuto – forma, particolare – universale, ispirazione – tecnica, intuizione – espressione, imitazione – autonomia, apparenza – realtà, forma – funzione  …. 
3.3.2. i termini di un’antinomia, a differenza dei termini di una contraddizione, non annullano la logica e i suoi principi, ma ne costituiscono una opportunità. Segnalano per estremi lo spazio entro cui un problema, dotato di alti livelli di complessità, può trovare una definizione di orientamento. Quei binomi sono lo spazio di definizione, aperta e problematica dell’arte e della funzione estetica.
Un esempio di estetica sulla tensione dell’antinomia forma – funzione relativo ad un oggetto quotidiano: «Quando scrivo ad un amico per invitarlo a cena, la mia lettera è innanzitutto uno strumento di comunicazione; ma più io presto attenzione alla forma della mia scrittura e più essa tende a diventare un’opera di calligrafia; più presto attenzione alla forma del mio modo di esprimermi, e più essa tende a diventare un’opera letteraria o poetica.»  Bourdieu Pierre. La distinzione. Critica sociale del gusto, il Mulino, Bologna 1995 p.29 
3.3.2.1. l’antinomia sollevata dalla impostazione intuizionistica (romantica) e da quella tecnica (positivistica): l’opera d’arte ha bisogno di una lettura critica che ne metta in luce la struttura compositiva tecnica; questa è capace di spiegazione in quanto è ricavata dalla sola e singola opera d’arte, riconosciuta nella sua autonomia.
3.3.3. i termini dell’antinomia diventano contesto per cogliere una logica dell’arte (sempre come logica interna)
«Tutte le teorie estetiche che cercano di spiegare l’arte in base ad analogie tratte da domini caotici e sconnessi dell’esperienza umana — dall’ipnosi, dal sogno, dall’ebbrezza — si lasciano sfuggire il punto più importante. Il grande poeta lirico è capace di dare una forma ben definita ai sentimenti più oscuri. Ciò gli è possibile solamente perché la sua creazione, pur avendo per oggetto qualcosa di apparentemente irrazionale e di ineffabile, presenta una chiara organizzazione e articolazione. Nemmeno nelle creazioni artistiche più stravaganti si trova mai la « magnifica confusione della fantasia », il « caos originario della natura umana ». Questa interpretazione dell’arte data da scrittori romantici è una contraddizione in termini. Ogni opera d’arte ha una struttura ben percepibile, epperò un suo carattere di razionalità; in essa ogni singolo elemento deve essere sentito come parte di una totalità. Se in una poesia cambiamo una parola, un accento o un ritmo si corre pericolo di distruggerne il carattere particolare e il fascino. L’arte non è vincolata alla razionalità delle cose e degli avvenimenti. Essa può infrangere tutte le leggi della verosimiglianza che l’estetica classicistica riteneva essere le leggi costitutive dell’arte. Può darci le visioni più bizzarre e grottesche eppure mantenere una propria razionalità: la razionalità della forma. Si può interpretare in tal senso un detto di Goethe che a tutta prima sembra un paradosso: « L’arte: una seconda natura, misteriosa ma anche più comprensibile perché trae origine dall’intelletto ». La scienza dà un ordine ai pensieri, la morale alle azioni, l’arte alla percezione delle apparenze visibili, tangibili e udibili.»
Ernst Cassirer, Saggio sull’uomo (in Fubini o.c.)  
3.3.4. per la conciliazione, la ripresa, e la reinterpretazione, della antica concezione mimetica dell’arte:
« È abbastanza naturale, forse, per una riflessione ingenua, badare in primo luogo alla relazione esistente tra un’immagine e il suo oggetto; e non è meno naturale considerare un quadro, una statua o una descrizione grafica come imitazione della realtà. Quel che sorprende è che, dal momento che la teoria artistica ha superato già da tempo lo stadio ingenuo, e ogni pensatore serio è ormai consapevole che l’imitazione non è né il fine né il criterio della creazione artistica, il rapporto tra l’immagine e il suo modello abbia mantenuto la sua posizione di privilegio tra i problemi filosofici relativi all’arte. Esso si è presentato come un problema di forma e di contenuto, di interpretazione e d’idealizzazione, di convinzione e di finzione, di impressione e di espressione. Pure, l’idea di copia della natura non è neppure applicabile a tutte le arti. Di che cosa sarebbe copia un edificio? Su quale oggetto dato si modellerebbe una melodia?
Un problema che non si decide a morire dopo che i filosofi l’hanno condannato come insussistente, continua a esercitare la funzione dell’importuno nel mondo intellettuale, e la sua importanza è senz’altro maggiore, di fatto, di ogni sua formulazione. Così avviene in questo caso: il problema filosofico generalmente concepito in termini di immagine e di oggetto riguarda in verità la natura delle immagini come tali e la loro sostanziale differenza dalla realtà effettiva. La differenza è funzionale; e pertanto oggetti reali, funzionando in un modo che è modo normale per le immagini, possono assumere uno stato puramente immaginario. Questa è la ragione per cui il carattere di illusione può inerire anche a opere d’arte che non rappresentano nulla. L’imitazione di altri oggetti non è il potere essenziale delle immagini, sebbene sia una loro funzione essenziale, grazie alla quale l’intero problema dei rapporti tra fatto e invenzione entrò originariamente nell’ambito della nostra riflessione filosofica. Ma il vero potere dell’immagine sta nel suo carattere di astrazione, di simbolo, di veicolo di un’idea.» Susanne Langer, Sentimento e forma (in Fubini, o.c.)
Al punto 2.7.3.2. una lettura bio-etologica della mimesis.

4. posizioni e provocazioni contemporanee
4.01. Per le evoluzioni estetiche contemporanee è utile fare perno sull’opera - manifesto di avvio dell’estetica contemporanea in cui il nuovo fare arte giunge a nuovo contesto e nuova teoria [consapevolezza]: Walter Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, 1936.
4.02. possono configurarsi quattro impostazioni (in successione e in contemporanea):
1. arte come unicum (da Baumgarten a Hegel, attraverso il Romanticismo: il tema dell’”aura”)
2. arte è oggetto seriale (riproducibile): incontro tra bello+ tecnica + utile
3. arte a destinazione sociale: incontro arte e società democratica di massa
3.1. arte e politica  delle rivoluzioni dei totalitarismi                  
3.2. arte e società dei consumi di massa         
4. arte e ricerca formale (si stacca dal “bello” per nuove piste percettive)
2.+ 3. + 4. regno delle “avanguardie”
4.03. le diverse sensibilità estetiche si possono richiamare in contesto storico
1. Romanticismo: (nell’età delle tematiche dell’Assoluto) l’opera d’arte è un unicum; è l’Assoluto “mitico”; è  il finito in tensione nel dialettica con l’infinito; è  circonfusa da un’”aura” di sacralità 2. 2. Rivoluzione industriale (la “seconda” rivoluzione in piena espansione e riconoscimento positivistico) l’arte a prova di industria: l’industria: affina le tecniche di produzione, produce opere/merci belle: nelle strutture industriali, negli oggetti dell’industria, nelle mostre industriali; l’arte: è riproducibile, è seriale, è merce, si incontra con l’utile, è eccessiva (il y a trop d’art).
3. consapevolezza delle nuove opportunità come base di partenza per nuove espressività nella “belle époque”.
L’ambiguità estetica della “belle époque” si esprime in due direzioni
3.1. accettare la doppia interruzione: dell’arte – unicum per la serie (bellezza e riproducibilità); dell’arte – fine (fine a sé, tautegorica) per l’utile: sia perché la bellezza è merce, legata all’utile, mezzo di profitto, sia perché la bellezza è stile di massa, moda condivisa. Qui conservano e riprendono vigore i nuovi miti (progresso) riti (esposizioni) simboli (macchina/velocità).
3.2. l’arte è interruzione: ricerca, innovazione, sperimentazione, provocazione, rottura, diversità, distinzione, non-rappresentativa.
Si stacca dal piacere dall’impressione sensibile di gusto (Kant); interrompe il quotidiano, è “brutta”; si stacca dalla forma dilata, deforma, è informale; si stacca dall’oggetto, fine dell’arte figurativa

4.1. «l’estetica degli oggetti» quotidiani o come parlare di estetica in situazione di estetica diffusa: «se tutto si estetizza, diventa sempre più difficile parlare di estetica.»
« Il mondo non è stato mutato dal progetto estetico delle avanguardie; la profezia di una società estetica, proposta dall'avanguardia e dall'intero movimento moderno in contrapposizione all'orizzonte pesantemente industriale di prodotti senza arte, è stata sconfitta da un processo di progressiva fagocitazione da parte della tecnologia, dell'industria delle merci, della pubblicità e dei media. Tutti i sistemi di produzione e di comunicazione si sono impadroniti dell'eredità artistica veicolandone le qualità estetiche come parte aggiunta al proprio prodotto. Dal canto suo la ricerca artistica attuale non si pone più la questione di aprire un dialogo con il mondo, ordinato o disordinato che sia. Non si pone più il problema della sua rappresentazione, ma della propria competizione con la dimensione tecnologica dell'artificiale. Il nostro tempo non solo ha perso la coscienza del mondo, come totalità dei fatti, come universo regolato e rispettabile, ma ne ha perso persino la nostalgia e il ricordo: tutto ciò che vediamo appartiene ormai ad una prefigurazione pubblicitaria, che ha accelerato l'evoluzione artificiale della vita e dei comportamenti. […]
Tra le analisi filosofiche contemporanee, solo alcune fanno riferimento al fenomeno dell'estetica diffusa come ad una caratteristica peculiare dell'epoca postmoderna. Ciò è dovuto al perdurare di una concezione ancora «moderna» dell'estetica, intesa soprattutto come una «filosofia dell'arte» o come una «teoria del sentire», che tende ad attribuire al soggetto la ragione del sempre più acceso interesse verso gli aspetti formali, piuttosto che contenutistici, della realtà. Nel fiorire di lavori filosofici sull'estetica, è quindi difficile reperire ricerche specificatamente volte a considerare, dal punto di vista sociale, politico e antropoculturale, la sua diffusione planetaria, causata dalla pervasività della tecnica. In effetti se tutto si estetizza, diventa sempre più difficile parlare di estetica.
È indubbio che alcuni presupposti dell'estetica diffusa si possono ritrovare, già nell'Ottocento, nella concomitanza degli studi filosofici sull'«informe» di Heinrich Wölfflin, sul Kunstwollen, la «volontà artistica», di Alois Riegl e sullo «stile organico» di Wilhelm Worringer: tutte analisi teoriche sulla forma, che aprono la strada ad «un'estetica allargata». È, tuttavia, nelle intuizioni di Walter Benjamin, condensate nel saggio sull'Opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità tecnica (in cui si sostiene la tesi secondo cui «l'opera d'arte riprodotta diventa in misura sempre maggiore la riproduzione di un'opera d'arte predisposta alla riproducibilità»), che possiamo individuare il primo sostanziale passaggio dall'idea dell'estetica come attributo dell'arte - ormai trasformatasi da una dimensione cultuale ad una espositiva - ad una concezione dell'estetica come dimensione implicita nel comportamento delle «masse». Nelle conclusioni del suo testo Benjamin, infatti, vede nel tradimento della funzione positiva della tecnica, da parte del fascismo e di ogni forma di governo di tipo imperialista, l'origine dell'estetizzazione della vita politica e della vita in genere, grazie per l'appunto all'adozione della strategia espositiva offerta dalla tecnica riproduttiva dei media. La Teoria estetica di Theodor W. Adorno, per fare riferimento ad un testo da cui molte analisi successive prenderanno le mosse, ruota attorno al concetto di arte come conoscenza, tale per cui l'estetica si dispiegherebbe come «contenuto di verità della stessa opera d'arte», non diversamente, in ciò, dalla posizione assunta da Lukàcs: per ambedue, infatti, l'estetica non può che limitarsi a «seguire le condizioni e le mediazioni dell'obiettività stessa dell'arte».
L'estetica diffusa ha a che fare innanzitutto con la realtà materiale delle cose. L'irrompere di nuove categorie di osservazione, quale, in primo luogo, quella dell'oggetto sotto il suo aspetto di prodotto e di merce, a partire dalla rivoluzione industriale, conduce la filosofia a fare i conti con la realtà della pratica e delle sue implicazioni con il politico e l'economico. È l'esperienza stessa del quotidiano a farci comprendere la presenza di un'esteticità non necessariamente collegata alla sensibilità e alla percezione artistica. «L'avvento dei mezzi di comunicazione di massa e in genere lo sviluppo di fattori informativi e comunicativi ha fatto subire all'intero mondo dell'arte un'incredibile metamorfosi», riempiendo la realtà quotidiana di un'infinità di elementi formali fondati su una bellezza anche programmaticamente antiartistica. Di fatto esiste un «occidentale» eccesso diffuso di bellezza, illusorio mascheramento anestetizzante del senso ultimo delle cose: «Il fenomeno contemporaneo dell'"estetica diffusa" potrebbe sembrare, in effetti, il veicolo di questa crescente desensibilizzazione di fronte ad una bellezza inflazionata». Giustamente Remo Bodei sottolinea l'onnipervasività attuale della dimensione estetica, che, riversatasi fuori dalla sfera dell'arte e modificando ormai ogni aspetto della vita quotidiana, rende labili ed effimere le possibilità stesse di definizione del bello. Estetica e vita quotidiana sono, dunque, indissolubilmente legate dallo stato di relazione continua, per quanto imperfetta, tra soggetto e oggetti, eventi, fenomeni, sia nella forma che deriva dalle pratiche anestetizzanti della cultura digitale, sia da quelle euforizzanti provocate dall'esaltazione di comportamenti controllati del sociale (entertainment e loisir).  Altri studi affrontano l'indagine sull'estetica dell'oggetto in sé e come frutto di un processo di lavoro. Giorgio Agamben riflette in particolare sul carattere fantasmagorico (feticistico, quasi teologico) della merce, quale si presenta, per la prima volta, agli occhi attenti del più grande critico della modernità, Baudelaire, già al tempo delle prime Esposizioni universali. Un Baudelaire - ricorda Agamben - che riesce a cogliere nelle opere di Grandville, l'illustratore che in maniera presurrealista aveva, alla metà dell'Ottocento, animato il mondo delle cose, il manifestarsi del «disagio dell'uomo rispetto agli oggetti che egli stesso ha ridotto a "parvenze di cose"», disagio che «si traduce nel sospetto di una possibile "animazione dell'inorganico"». Grandville aveva, infatti, perfettamente intuito la nuova vita che le cose cominciavano ad assumere; nelle sue caricature, e precisamente nella serie di illustrazioni dedicate alle Petites misères de la vie humaine, l'artista presenta tutta una sequenza di tragicomici incidenti che scaturiscono dall'uso quotidiano degli oggetti, quasi essi avessero cominciato una rivoluzione per affermare la loro identità.
Come aveva sottolineato Benjamin, Grandville riesce a cogliere con «le sue arguzie nella rappresentazione di oggetti morti ciò che Marx chiama i "capricci teologici" della merce»; il posto in cui ciò appare in tutta la sua flagranza immediata è quello delle Esposizioni universali, «luoghi di pellegrinaggio al feticcio merce [che] trasfigurano il valore di scambio delle merci; creano un ambito in cui il loro valore d'uso passa in secondo piano; inaugurano una fantasmagoria in cui l'uomo entra per farsi distrarre». […]Scriveva specificatamente Benjamin: «II feticismo, che è alla base del sex-appeal dell'inorganico, è la sua forza vitale».
Potremmo dire che le cose, dotate ormai d'un valore comunicativo autoprodotto, cominciano a dare spettacolo. È nel passaggio della città in metropoli, già intuito da Baudelaire e analizzato da Benjamin, che tutto ciò che esiste è diventato solo «pura tecnica»; dalla dimensione della metropoli - «un estendersi illimitato che esclude che al suo esterno si dia un essere autentico e vero» - verrà per sempre esclusa ogni residuale metafisica «moderna»; si tratta, infatti, di un «esterno» che non può più possedere un fondamento trascendente, essendo l'interno e l'esterno della metropoli attraversati dalla medesima disumanizzante forza omologatrice della tecnica. Questa tecnica pervasiva estetizza l'universo dell'esperienza metropolitana offuscando il soggetto nell'oblio, condannandolo a perdere il valore di un'origine e a non percepire più alcun luogo della differenza, e, infine, costringendolo ad una ripetizione continua dei propri atti, dal momento che, «se all'esterno della metropoli non esiste nulla, al suo interno tutto è condannato a ripetersi senza posa».
Non esistendo più, quindi, la possibilità di un atto critico, che interroghi la differenza e la rappresenti (ecco perché l'arte muore nell'epoca del postmoderno), l'estetica metropolitana si configura come l'opposto dell'arte, vale a dire come puro entertainment. L'esperienza estetica «non risulta più come un esperire derivato, per divenire un'esperienza in senso forte e stretto»; se nella metropoli scompare ogni differenza, anche quella tra l'opera d'arte e l'oggetto-merce, «si produce un'estetizzazione diffusa, [per cui] la vita [del "postuomo"] è sempre più simile ad un film, [e in cui] gli oggetti metropolitani cessano di essere meri strumenti per porsi in una disponibilità diffusa verso l'estetizzazione».
Il cambiamento maggiore avvenuto negli studi teorici più recenti riguarda il tentativo di ridefinire, più che aspetti filosofici generali, la metamorfosi di questi «strumenti» e la posizione dell'oggetto-merce nell'orizzonte produttivo della tecnica. Più precisamente, si intende considerare l'attuale logica del marketing che presiede alla progettazione del prodotto: la vendita dei prodotti in un mercato ferocemente competitivo a livello mondiale fa leva «sulla forma delle cose, forma che diventa lo strumento di una pura logica di profitto», sconvolgendo ogni convenzionale definizione del design come progetto, e riconducendolo ad una «semplice» funzione di styling, ovvero di rivestimento estetico del prodotto e di prefigurazione di logo. Non vi è designer che, interrogato, non esprima una sempre più accorata nostalgia per un tempo in cui il progetto era sembrato ancora collegato ad istanze di carattere etico.
Oggetti la cui forma era un tempo indifferente (una pinza, un bullone, una scopa) vengono oggi progettati con riflessi estetici in funzione dell'esaltazione della loro apparenza e in risposta a criteri di gusto; esiste cioè la possibilità di «giudicare un oggetto mediante un piacere fondato soltanto sulla "forma dell'oggetto"». Ma un'estetica diffusa in tutte le cose non abolisce forse la differenza di senso e di valore, che dovrebbe distinguere tra loro le cose stesse, ma anche e soprattutto i prodotti e le merci? Se niente è più soltanto una cosa, ciò significa che ogni cosa contiene una parte eccedente, un valore che fa riferimento all'insieme e che dà orma all'intero ambiente estetico dell'uomo, di cui la città rappresenta un unico, complesso artefatto.
L'apparenza dell'artefatto diventa di per sé un'entità economica e, nello stesso tempo, il punto di una rete comunicante di similitudini:tutti gli artefatti nella loro apparenza sono infatti familiari, stilisticamente coerenti, prodotti dalla stessa cultura della tecnica e dalla stessa ideologia. In una parola dalla medesima Weltanschauung.
Francalanci, Ernesto L. 2006 Estetica degli oggetti, il Mulino, Bologna

4.2. “L’aura è viva e vende bene”
In voluto e ironico contrasto con le tesi dei Walter Benjamin sulla “morte dell’aura” nella produzione estetica seriale contemporanea, una prospettiva sull’arte contemporanea (e forse già antica) come sede di una continua metamorfosi dell’aura.
«Precorrendo di almeno un secolo i critici del mondo come immagine, Nadar aveva compreso che la fotografia creava un altro mondo, in cui il realismo delle figure e delle scene era solo apparente, un mondo che si collocava su piani diversi sia da quel feticcio filosofico che è la realtà, sia dalla sua supposta adorazione da parte dell'arte figurativa. D'altra parte, proprio per la sua natura di dimensione artistica autonoma, la fotografia contribuiva a liberare la pittura da schemi rigidi e figurativi, permettendo agli artisti di sperimentare nuovi campi di ricerca (come si vede già, per esempio, nell'uso di «inquadrature» di sapore fotografico in Degas). Lo stesso Benjamin, pur all'interno del discorso sulla perdita dell'aura, riconosce come il linguaggio fotografico abbia avuto, fin da principio, un carattere così peculiare da risultare imbarazzante per il realismo di maniera in pittura: «Una tecnica esattissima riesce a conferire ai suoi prodotti un valore magico che un dipinto per noi non possiede più».
Parlare di «valore magico» significa quindi dire che anche la fotografia, in quanto tecnica e opera d'arte, è capace di secernere o acquisire la propria aura. Di conseguenza, se una «tecnica esattissima» non elimina in quanto tale l'aura, ma anzi ne inventa una di tipo nuovo, allora anche l'arte moderna e contemporanea, quando incorpora mezzi tecnici del suo tempo - adottandoli, criticandoli o semplicemente riflettendo su di essi — è dotata d'aura. Semmai, è un certo tipo di pittura, convenzionale e di genere, che si de-sacralizza, rispetto alle sue presunte qualità artistiche. Al contempo, l'arte considerata sperimentale o d'avanguardia si «aurizza» in quanto capace di creare dimensioni estetiche originali. La storia parallela della fotografia e della pittura indica che nell'Ottocento, accanto ai generi artistici tradizionali, che si avvalevano di tecniche consolidate e legittimate ma irreparabilmente usurate, se ne sviluppavano altri che stavano conquistando la propria legittimazione.
E questo ci porta all'ultima sub-tesi benjaminiana, sul ruolo delle avanguardie nel processo di perdita - o, meglio, di metamorfosi - dell'aura artistica. Probabilmente, quando sottolineava la funzione di de-sacralizzazione svolta dalle avanguardie, Benjamin teneva conto dell'effetto di vero e proprio choc estetico causato dai vari tipi di contestazione dell'idea di sublime. Per secoli l'umanità aveva concepito l'arte come un modo di perseguire intuitivamente la grandezza della natura, raffigurandola nelle arti figurative o celebrandola nella musica: in fondo, si tratta dell'idea che Kant razionalizza a partire dal senso comune nella sua Critica del giudizio. E ciò significava concepire l'arte come trascendenza della vita materiale o quotidiana; l'aura, nella definizione di Benjamin, non era che la realizzazione di questa idea di arte sul piano della percezione, la nostra esperienza di piccoli uomini di fronte a un affresco di Michelangelo o a una Passione di Bach. Ma ora, con le avanguardie, il sublime veniva aggredito e si sgretolava. Disegnare, come Duchamp, i baffi su una riproduzione della Gioconda (cioè, sulla sua aura massificata o commercializzata) o incorporare nelle opere i cascami del mondo quotidiano voleva dire farla finita con l'arte come trascendenza. Ed è per questo che Benjamin vedeva positivamente un processo in cui gli artisti divenivano produttori (per esempio, grafici al servizio dei movimenti rivoluzionari), così come, di conseguenza, i produttori sarebbero stati artisti.
Il fatto è che le cose non sono andate esattamente così, e non solo perché i movimenti rivoluzionari sarebbero stati sconfitti, o riassorbiti da regimi capaci tutt'al più di produrre una pietosa arte di propaganda. La separatezza dell'arte dalla vita non discende dalla sua natura metafisica (questa è un'idea che tendono a coltivare soprattutto i filosofi), ma dal fatto che le arti sono sempre state attività specializzate, rese possibili da uno specifico mandato sociale, che naturalmente muta a seconda delle circostanze. È vero che le avanguardie tentarono di portare alle estreme conseguenze la critica della dipendenza dell'arte dal mondo borghese - qualcosa che sarebbe rimasto fino ai giorni nostri come utopia della fuga artistica dall'arte. Ma quello che scoprirono, proprio a partire dalla loro rivoluzione artistica, e a cui finirono inevitabilmente per adeguarsi, è che il mondo borghese non aveva alcun problema ad accettare le loro idee rivoluzionarie purché rimanessero artistiche, e cioè valorizzabili nel mercato dell'arte. Il mercato non ha pregiudizi. Utilizza come immagini da valorizzare la Gioconda e la sua riproduzione baffuta a opera di Duchamp. A questo punto, stabilire se venga prima la mercificazione dell'aura o l'aurizzazione della merce non ha troppa importanza. Si tratta di un'attrazione fatale, come l'incontro tra la Fondazione Guggenheim e le autorità basche, in cui entrambi i convenuti hanno, o pensano di avere, qualcosa da guadagnare.
Con Duchamp il processo in questione appare nella sua purezza e finisce per definire l'arte contemporanea - e forse l'arte stessa - in quanto tale. Lungi dal dissacrare l'aura, riportando l'arte nel mondo della vita, il gesto di Duchamp celebra l'indifferenza dell'arte per i suoi referenti materiali. Qualsiasi cosa può divenire arte, e quindi essere dotata d'aura. Alla fine, quello che rimane è l'aura, esattamente come dell'Orinatoio è rimasta una fotografia, divenuta icona del Novecento, mentre l'oggetto è scomparso, se mai è esistito. I ready-made erano traslazioni, cioè oggetti separati dal loro valore d'uso, inseriti in un altro contesto e, proprio per questo, dotati di valore artistico. Paradossalmente, dunque, i gesti sovversivi di Duchamp non portarono affatto a una dissacrazione dell'arte, né tanto meno alla sua morte, ma alla reinvenzione dell'aura. Forse, se Duchamp avesse voluto davvero sovvertire la possibilità o l'esistenza dell'arte in sé avrebbe dovuto sfregiare o distruggere la vera Gioconda, e non disegnare su una sua riproduzione dei baffi concettuali. Ma, come vedremo, questa forma estrema di critica d'arte è qualcosa che i mondi dell'arte non possono accettare, se non alle proprie condizioni esclusive.
L'aura messa a nudo. Possiamo sintetizzare quanto precede in una sola proposizione: con l'invenzione dell'arte contemporanea (nelle sue diverse declinazioni), l'aura non scompare ma si trasforma, diffondendosi per il mondo. E allora - potrebbe chiedere il vecchio signore che convochiamo spesso nelle nostre riflessioni - che «roba è» qualcosa che diviene un'altra cosa? Lasciamo stare per il momento le cose e concentriamoci invece sull'evidente natura relazionale dell'arte: l'aura di un'opera d'arte è semplicemente l'effetto che produce. E il tipo di effetto muta a seconda della natura dell'opera e delle persone che lo subiscono o lo ricercano. Al di là delle possibili diverse combinazioni, quello che conta è comunque l'effetto risultante: il ritratto di una donna toscana, chiamata Monna Lisa, produceva un certo effetto se contemplato nello studio di Leonardo, nei primi anni del Cinquecento, e un altro oggi al Louvre; uno se riprodotto in una cartolina postale e un altro se dotato di baffi da Marcel Duchamp in un'altra riproduzione. Il solo fatto che esista in una di queste forme per essere visto lo aurizza - esattamente come nel caso di qualsiasi altra immagine definita opera d'arte.»
Dal Lago Alessandro, Giordano Serena 2006 Mercanti d’aura. Logiche dell’arte contemporanea, il Mulino, Bologna

4.3. Ars est celare artem:  l’arte dei ready-made (l’arte dell’assenza dell’arte)
«La storia è nota, così nota che basterà accennarvi per sommi capi. Nel 1913 Marcel Duchamp, dopo aver dipinto il Nudo che scende le scale, prende congedo dalla pittura. Nello stesso anno monta una ruota di bicicletta, rovesciata, su di uno sgabello. La tiene nel proprio studio, dice che guardarla girare gli procura il medesimo piacere che gli darebbe contemplare la fiamma di un caminetto. L'anno seguente acquista in un negozio di ferramenta uno scolabottiglie in ferro. Dopo il trasferimento a New York, scriverà alla sorella Suzanne dandole istruzioni perché firmasse a suo nome quell'oggetto, perché ne vuole fare "un ready-made da lontano", come gli è accaduto di fare l'anno precedente in America con altri oggetti. In effetti, nel 1915 aveva comprato una pala da neve, una di quelle pale larghe il cui manico termina in una maniglia, e l'aveva sospesa nel suo atelier scrivendo sul manico una frase scherzosa, In Advance of the Broken Arm, prima del braccio rotto; l'anno dopo aveva preso un pettine in metallo, di quelli che si usano per ravviare il pelo ai cani, e vi aveva inciso sopra una frase assurda, "tre o quattro gocce di altezza non hanno nulla a che vedere con la selvatichezza". Oppure aveva fissato al pavimento un attaccapanni in legno, intitolandolo Trabocchetto. Ma è nel 1917 che avviene l'episodio probabilmente decisivo. La Società degli artisti indipendenti, appena fondata a New York, organizza una mostra. Per esporre è sufficiente pagare un modestissimo contributo, sei dollari. Duchamp invia, usando uno pseudonimo, un orinatoio di porcellana, uno di quelli che si usano nei bagni pubblici per uomini, intitolandolo Fontana, datandolo e firmandolo R. Mutt. L'oggetto - l'opera - non venne esposto, non venne messo in catalogo, e rimase nascosto in un recesso della galleria. Fu lì che lo fotografò Alfred Stieglitz, nella posizione in cui Duchamp avrebbe voluto esporlo, ossia collocato orizzontalmente. La fotografia fu pubblicata su una rivista cui Duchamp collaborava, The Blind Man.
Da allora, l'orinatoio di Duchamp è diventata una delle icone dell'arte contemporanea, immancabile in ogni volume sull'arte del Novecento, riprodotta migliaia di volte. Gettonatissimi quando si tratta di trovare un'illustrazione per la copertina di un libro di estetica, i ready made sono stati fonte di ispirazione per altri artisti che vi hanno introdotto le loro variazioni, come è accaduto ad alcuni classici della pittura. Sherrie Levine ne ha esposto una replica in metallo, lucida e brillante come se si trattasse di un oggetto prezioso; Marcel Broodthaers l'ha riprodotto, marchiato con l'immagine del Département des Aigles, nel Service publicité del suo museo di Arte Moderna; l'artista georgiano Avdei Ter-Oganyan ne ha fatto a pezzi uno e poi lo ha ricomposto (Some Questions of Contemporary Art Restoration, 1993); altri ne hanno riempito uno di terriccio e di piante, come se si trattasse di un vezzoso portafiori; altri, invece, ne hanno esposti due, appaiati, in posizione corretta, riportando in scena il legame con un gesto maschile e solitario che Duchamp aveva voluto tenere a distanza e che tuttavia non aveva potuto (o voluto?) cancellare (Robert Gaber, Two Urinals, 1986).
Da allora, sui ready-made di Duchamp è stato scritto di tutto. William A. Camfield ha dedicato a Fontana un intero libro. Tralasciando le prevedibili accuse rivolte loro dai benpensanti, per i quali si trattava di operazioni prive di senso, di oltraggi all'arte, di oscenità, c'è stato chi ha visto il loro valore proprio nella provocazione che è in essi costitutiva contro l'originalità dell'arte, la sua unicità e bellezza. Si è detto che assestavano un colpo mortale all' 'esteticità' dell'arte, a tutto quanto in essa vuole blandire i sensi e soddisfarli (in accordo, per altro, con quanto Duchamp stesso ebbe a dichiarare in una intervista: "eliminare del tutto il ruolo del gusto"). Ciò non ha impedito che alcuni considerassero i ready-made come delle sculture astratte. Ancora oggi, può accadere che uno spettatore non troppo avvertito, ma non pregiudizialmente avverso, reagisca così almeno dinanzi ai ready-made più celebri, come lo scolabottiglie o l'orinatoio.
Si è sostenuto che si tratta di operazioni mentali di annientamento del senso dell'oggetto (a forza di guardarli non so più che cosa sono) e si è esaltato il loro carattere di gesti di straniamento ("l'oggetto scelto è semplicemente isolato, qualificato, estratto dall'ambiente, proiettato in un mondo nuovo", ha scritto Michel Leiris). Sono stati considerati degli oggetti intermedi fra l'oggetto comune e l'opera d'arte, e opere che esibiscono in modo pressoché magico ed esoterico il rapporto che lega il segno alla cosa. Sono stati visti come paradossale affermazione del carattere demiurgico dell'operazione artistica, e come critica di essa e provocazione deliberata contro il 'sistema dell'arte'. Si è visto nei ready-made la punta estrema di una linea aniconica dell'arte contemporanea, e allo stesso tempo altri vi hanno letto una riabilitazione del realismo e delle forme mimetiche 'basse', del volgare-corporale sullo spirituale.Sono stati letti come una forma radicale di critica alla società industriale, per il loro usare contro senso qualcosa a cui la società attribuisce un valore d'uso, e sono stati invece considerati come perfettamente funzionali ad una società della produzione in serie. Si è vista in loro un'arte che decostruisce le basi stesse della percezione sensibile immediata. Un'arte che si riduce al puro enunciato minimale "questo è arte". Una riflessione sul rapporto tra l'oggetto e il nome (Filiberto Menna: "la cosa si radica nel dominio della tautologia, celebrando, con la somiglianza a se stessa, la legge fondamentale dell'identità").  …
Il produttore di ready-made agisce come il più tradizionale degli artisti: copre e nasconde la propria arte. la nasconde così bene che essa diventa totalmente invisibile, assolutamente occulta. Questa conclusione sembra avere dalla sua parte l'inesorabilità del sillogismo. Le cose devono stare così: se è arte, ma non si vede che è arte, l'arte deve essere un'arte nascosta. Eppure, non appena raggiunta o meglio dedotta questa conclusione, non si può negare che essa generi un senso di disagio, e non cessi di apparire inadeguata. Qualcosa sembra non funzionare. Nell'uso tradizionale del principio ars est celare artem era espressa l'idea che si dovesse celare l'arte come abilità, come maestria, come eccellenza. Il grande artista era colui che sapeva fare uso di una suprema capacità, ma sapeva anche dissimularla, in modo che essa agisse più sottilmente, non si imponesse allo spettatore o al fruitore. Nel ready-made, invece, questa dimensione fabbrile, artigianale dell'arte va completamente perduta. Se celare l'arte significa nascondere un'abilità, qui non c'è nessuna abilità da nascondere. Lo dice il nome stesso escogitato da Duchamp: ready-made vuol dire già fatto, bell'e pronto, vuol dire che l'artista non ha compiuto sulla materialità dell'oggetto il minimo intervento metamorfico. Non ha lavorato la materia, non l'ha trasformata. La dimensione artigianale, tecnica dell'arte risulta totalmente azzerata. Quest'arte non è "fatta ad arte". Lo dimostra il dato della sua assoluta riproducibilità. Si sa che gli oggetti originariamente scelti da Duchamp sono andati perduti e sono stati sostituiti da repliche. Si sa che Duchamp ha autorizzato la circolazione di repliche o duplicati dei suoi ready-made. La Galleria Schwarz di Milano, nel 1964, mise in circolazione tredici ready-made in un'edizione di otto copie firmate. E si sa che il gesto di Duchamp si può raccontare senza che vada del tutto perduto il suo impatto.
Ma se è impossibile che l'arte che viene celata sia in questi casi l'arte come abilità, skill, e come bravura — che è anzi programmaticamente esclusa dal ready-made, il quale si configura come una protesta contro l'artigianalità dell'arte almeno quanto si dà come protesta contro l'arte 'retinica' - che cosa sarà mai l'arte che qui viene celata? Quale arte resta nascosta? La risposta potrebbe suonare: l'arte che qui resta nascosta è tutta l'arte precedente. A restare nascosto è l'aspetto stesso di arte, l'arte come attività, forma, differenza dall'oggetto comune. Proclamando la propria identità con l'oggetto comune quest'arte occulta la propria natura di arte ma così facendo paradossalmente la rivela, perché diventa un'affermazione sull'arte, mentre i semplici oggetti non affermano nulla, si limitano ad essere quegli oggetti che sono. Negando di essere arte, il ready-made lo diventa, appunto perché lo nega. La paradossalità dell'arte assomiglia alla capacità metalinguistica del linguaggio: come quest'ultimo può inglobare qualsiasi cosa attraverso la propria capacità di parlare di se stesso, così l'arte può recuperare qualsiasi procedimento all'artisticità, perché, come è accaduto di dire proprio ad Arthur Danto, Anything can be art without having to look like art at all, ogni cosa può essere arte senza dover assolutamente apparire arte.
Anche l’anti-arte è una forma di arte.
Arte senz'arte è una delle parole d'ordine dell'arte del Novecento, e non a caso essa affiora spontanea in quegli autori che si sono proposti di farne la storia. Ne I fondamenti dell'arte moderna, per esempio, Werner Hofmann intitola un capitolo L'arte dell'assenza d'arte. Ma un'arte senz'arte, lo sappiamo, non può che essere un'arte che ha nascosto i propri caratteri di artisticità. Ed è proprio questo che avviene in una quantità di casi, e talora in modo del tutto esplicito. Pensiamo a tutti i casi di processi randomizzanti nell'arte contemporanea, cioè a tutti quei processi che sostituiscono, in maniera integrale o parziale, la casualità alla scelta pianificata dell'artista. L'aleatorietà come principio compositivo è un dato che si ritrova in una quantità di movimenti artistici, dalla musica (la musica aleatoria di Cage, Boulez e Stockhausen) alla pittura (le Composizioni secondo le leggi del caso di Hans Arp, gli 'sgocciolamenti' dell'action painting, l'informale). Ma affermare i diritti del caso significa prendere le distanze nel modo più netto dal carattere progettato dell'opera, dall'arte come tecnica. E per capire che questa rinuncia totale all'aspetto artigianale dell'arte può ancora essere arte dobbiamo aver fatta nostra la lezione dell'iki, dobbiamo sapere che in arte ottenere può essere non ottenere. JohnCage non ha mai nascosto il suo debito con lo zen, e una delle sue massime più note è che "l'obiettivo più alto consiste nel non avere obiettivi".   ….
Ma se il diffondersi di un'arte che mette in questione le marche tradizionali dell'artisticità, che rifiuta la forma e va alla ricerca di una paradossale forma senza forma è un fatto fondamentalmente moderno, tanto più sensibile quanto più ci si avvicina all'arte recente e recentissima, la polarità tra un aspetto tecnico eun aspetto creativo è forse presente nell'arte da un tempo assai più lungo, e si potrebbe persino sostenere che forse appartiene ab origine all'arte. Nell'arte c'è una componente che è riconducibile ad un saper fare, cioè ad un'abilità regolata. È il lato per cui l'arte è mestiere, e quindi anche esibizione dell'abilità collegata al mestiere. Il capolavoro non è forse, etimologicamente, il capo d'opera con cui il praticante di un'arte dimostra di avere appreso a perfezione tutte le regole che gli sono state insegnate? Ma, contemporaneamente, l'arte è anche la capacità di andare imprevedibilmente oltre la regola, di giocare con le regole oltre che nelle regole, è invenzione che non saprebbe farsi apprendere e non saprebbe indicare il proprio cammino. Per questo lato, l'arte elude qualsiasi tentativo di riassumerla in un procedimento, perché anche l'assenza di procedimento può costituire un procedimento.
D’Angelo Paolo 2005 Ars est celare artem. Da Aristotele a Duchamp, Quodlibet, Macerata (dal cap. 9)
«L’anello di congiunzione tra le avanguardie e la pop art è rappresentato da Marcel Duchamp e dalla sua estetica del ready-made: si tratta di un manufatto, un oggetto comune (il più anestetico possibile) che l’artista sceglie di esporre firmandolo (sono noti quelli di Duchamp: ruote di bicicletta, scolabottiglie, appendiabiti, fino al famoso orinatoio esposto col titolo Fontaine). L’estetica del ready-made costituisce la più iconoclastica contestazione dei canoni e dei requisiti tradizionali dell’artisticità (bellezza, originalità, creatività), ma soprattutto costituisce un gesto che, ripetendo all’inverso il processo che fa dell’opera d’arte un oggetto di scambio nel mercato, ovvero facendo di un oggetto di scambio un’opera d’arte, evidenzia nella maniera più plateale la logica a cui è riconducibile l’estetica del nuovo. L’arte di Duchamp si muove infatti in un rapporto estremamente ironico con l’estetica del nuovo: se il nuovo, l’originale artistico, pretende di sottrarsi alla riproduzione e allo scambio, finendo di fatto per esserne preda, il ready-made è un oggetto qualsiasi, rintracciabile sul mercato in migliaia di copie — che quindi non è affatto nuovo, ma già all’origine preso nella catena della riproducibilità tecnica e del mercato — e che diventa, con un gesto sovversivo e spaesante, “oggetto d’arte”.
Il gesto iconoclasta di Duchamp è certo una radicale desacralizzazione dell’arte, che perde la sua aura mistica, cui corrisponde una parallela desacralizzazione dell’artista, non più creatore di opere reali ma solo intenzionate, e che introduce nel campo dell’arte le macchine e il loro potere di riproduzione.» Chiurazzi, Gaetano 2002 Il postmoderno, B.Mondadori, Milano p.24

4.4. una conclusione in “apertura”; nell’ambito della distinzione tra estetica e definizione dell’opera d’arte, e funzione estetica generale
4.4.1. il non limite tra arte e non arte
Mukarowsky parla di « funzione » estetica del linguaggio; tuttavia la sua preoccupazione costante è di mostrare che l’arte « non è una sfera chiusa » e che « non esiste un netto confine né un criterio univoco che distingua l’arte da ciò che è al di fuori di essa ». Se si tiene fermo il punto di partenza semiologico, se cioè si guarda all’arte « come a un segno composto di un simbolo sensibile », e se si considerano tutte le componenti di un’opera, « ivi comprese quelle più formali », come dotate di «un valore comunicativo proprio, indipendentemente dal soggetto », si potrà impostare un discorso sull’arte sul presupposto che la funzione estetica è «una componente del rapporto tra la collettività e il mondo». (in Fubini, o.c. 269)
«Nel distinguere la sfera estetica da quella extra-estetica è dunque necessario tener sempre presente che non si tratta di due sfere nettamente divise e indipendenti l’una dall’altra. Entrambe queste sfere sono in un continuo rapporto dinamico che si può caratterizzare come antinomia dialettica. Non si può studiare lo stato e il processo della funzione estetica senza chiedersi in quale misura essa è presente nell’estensione della realtà; se essa appare proporzionatamente in tutti gli strati del contesto o invece prevalentemente in alcuni strati e ambienti: il tutto naturalmente tenendo presente il periodo e il complesso sociale esaminato. In altre parole, per lo stato e il processo della funzione estetica non è caratteristico soltanto il dove e il come si manifesti, ma anche in quale misura e in quali circostanze essa sia assente o almeno debole.» Mukarowsky, Il significato dell’estetica (in Fubini, o.c.)  «Siamo soltanto della opinione che tra la sfera estetica e quella extra-estetica non c’è un confine netto e preciso; non esistono oggetti o fatti che per natura o costituzione siano, indipendentemente dall’epoca, dal tempo e dal soggetto che valuta, portatori della funzione estetica, e altri che, di nuovo per la propria conformazione reale, siano necessariamente esclusi dal suo campo di azione. … Tanto l’arte moderna, che dopo il naturalismo non esclude più nessuna sfera della realtà nella scelta del tema e che dopo il cubismo e le correnti ad esso affini nelle altre arti non si pone più limiti nella scelta dei materiali e delle tecniche, quanto l’estetica moderna, che sottolinea con forza l’ampiezza della sfera estetica (J. M. Guyau, M. Dessoir e la sua scuola, e altri), hanno sufficientemente dimostrato che possono diventare fatti estetici anche cose alle quali tradizionalmente non assegneremmo mai significato estetico... [si veda, ad esempio l’orinatoio di Duchamp]. Si possono però portare anche esempi del contrario e cioè di come le opere d’arte, che sono portatrici privilegiate della funzione estetica, possono perderla e vengono allora distrutte come inutili (si vedano gli antichi affreschi e graffiti riverniciati o ricoperti) oppure usate senza considerazione per la loro destinazione estetica (si veda l’adattamento di antichi palazzi a caserme e simili) [e, ancora per Duchamp. Gioconda con i baffi].» (Mukarowsky, ivi)
4.4.2. funzione estetica del e nel sociale
« La funzione estetica è uno dei fattori rilevanti del comportamento umano: essa può accompagnare qualsiasi atto dell’uomo, qualsiasi cosa può diventare sua portatrice. Non è un semplice, e praticamente insignificante epifenomeno, di altre funzioni, ma condetermina invece il comportamento dell’uomo nei confronti della realtà; così per esempio negli spostamenti nella gerarchia delle funzioni di una data cosa la funzione estetica può abbinarsi a una nuova funzione dominante, richiamando l’attenzione su di essa e levandola al di sopra delle altre, cioè rafforzandola; altre volte supplisce a una funzione scomparsa di una cosa o istituzione che ha temporaneamente perduto la propria funzione, e la salva e la conserva così per un nuovo uso e una nuova funzione, ecc. In tal modo la funzione estetica si inserisce nella vita sociale.
La norma estetica, regolatrice della funzione estetica, non è una regola immutabile ma un processo complesso e continuamente rinnovantesi.» (Mukarowsky, ivi)
In conclusione: «È impossibile stabilire una volta per tutte che cosa è arte e che cosa non lo è.» (Mukarowsky, ivi).
4.4.3. quest’ultima tesi può rilanciare di nuovo l’ipotesi di una situazione utopistica:
« L'estetica diffusa è, in conclusione, un'impresa incompleta; potrebbe essere la salvezza dell'umanità, immergendola nella felicità, se caratterizzasse il modo di vita di ogni individuo sulla terra, in quanto, una volta liberatosi dalle difficoltà della sopravvivenza propria e della propria prole, sollecitato ad un comportamento ritualizzato continuo, impegnato in una festa perenne di scienza, musica, danzae arti, non avrebbe più tempo per pensieri di guerra e per conflitti personali e collettivi, inverando l'antico sogno sociale di un'umanità appagata. Un'umanità che potesse riappropriarsi della tecnica, ritrasformandola in un mezzo, e ridistribuendo l'infinita ricchezza del mondo nell'utopia politica dell'equità.»
Francalanci, Ernesto L. 2006 Estetica degli oggetti, il Mulino, Bologna

Fonte: http://www.terzauniversita.it/download/anno08_08_corso13-lez8.doc

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